Qual è il perimetro della caduta? Intorno a Ezra Pound, il poeta ulcerato dalla Storia, indomabile, che sbarca in Italia nel 1958, sessant’anni fa, dopo dodici anni nel sanatorio criminale di St. Elizabeths, dedito al silenzio e all’immensità dei Cantos, fiorisce la tautologia. Eppure, la verità va ribadita anche ai muri: Pound è stato il poeta determinante della lirica occidentale del Novecento, ha inaugurato avanguardie, ha insegnato il verbo a Thomas S. Eliot, ha galvanizzato la redenta giovinezza di William B. Yeats, ha spronato Ernest Hemingway. I Cantos sono, gita tra asperità e gioie, l’opera ineluttabile del Novecento, il totem: Pound, se vale l’analogia, è stato il Picasso della letteratura – ma più radicale, più radiosamente colto. Quanto a ciò che accadde – il fascismo, le lettere, inascoltate, a Mussolini, i radiodiscorsi, la cattura dei partigiani, la prigionia infame a Pisa, l’accusa di tradimento – lascio dire ad Alfredo Rizzardi, che nella nota ai “Pisani” Garzanti (quarta netta: “il poema più vertiginoso del nostro secolo”) scrive: “il poeta, già sessantenne, fu sottoposto ad una atroce tortura fisica e morale: prima chiuso in una gabbia costruita appositamente per lui, senza alcun riparo nel caldo della violenta estate pisana; quindi confinato in una tenda, senza altro oggetto che un tavolino di legno costruitogli da un soldato negro con una cassa da imballaggio, senza libri né altro tranne i ricordi. Da quella dolorosa esperienza doveva venire alla luce la poesia dei Canti Pisani. Dopo il suo trasferimento in patria nell’ottobre del ’45, per sfuggire al processo che, dato le accuse, non gli avrebbe potuto evitare una pesante condanna, fu dichiarato insano di mente e, malgrado le proteste del poeta che si dichiarava sano e innocente, fu rinchiuso nel manicomio criminale di Saint Elizabeths, alla periferia di Washington. Con lo stesso animo forte e sereno con cui aveva sopportato la fase acuta della sua tragedia, Pound trascorrerà ben tredici anni in quell’inferno quotidiano; noi che potemmo visitarlo allora, ne ricordiamo l’atteggiamento superiore, il coraggio, la forza d’animo”. Da qui, in qualche modo, dalla fine della clausura (su cui resta un emblema il libro di Piero Sanavio, La gabbia di Ezra Pound, 1986-2005), dal ritorno in Italia, si apre il libro di Alessandro Rivali, poeta ‘poundiano’ – La caduta di Bisanzio è una raccolta importante – sensibile alla vita dei grandi – ha curato la biografia di Giampiero Neri, un maestro in ombra, Jaca Book, 2013; ha introdotto le Lettere a mia madre dalla Cina di Saint-John Perse, Medusa, 2016 – che s’intitola Ho cercato di scrivere Paradiso (Mondadori 2018, pp.262, euro 19,00), che è una lunga conversazione con Mary de Rachewiltz, durata pressoché dieci anni e diverse visite al castello di Brunnenburg, dimora di Pound, luogo ambito e amato da tutti gli studiosi del poeta, dove sono carte, memorie, cimeli. Il libro, che Rivali costella di documenti spesso determinanti – ad esempio, la rassegna stampa italiana intorno al ritorno di Pound – non cela le asprezze (“Quando crollò il Fascismo, Pound non volle voltare le spalle a Mussolini, non volle cambiare opinione mentre tutti gli italiani, che lo avevano seguito per vent’anni, in quel momento gli sputavano addosso. Era una questione di etica”, dice Mary), non celebra semplicemente il poeta titanico, di cui la figlia è esegeta (ha tradotto I Cantos nei ‘Meridiani’ Mondadori; “I Cantos saranno come la Commedia e l’Odissea, studiati, ritradotti e interpretati ‘finché ci sarà letteratura’”, scrive lei), ma è una catabasi nei labirinti – e nel fragore silente – di un grande uomo. Per altro, è un inno all’amore filiale: commuove l’immagine della figlia edotta dal padre a comprendere le sue poesie (in appendice balzano alcune lettere inedite di Pound alla piccola Mary scritte tra il 1936 e il ’37), e che dai gesti del padre trae assoluti etici (“Era furibondo contro il mondo moderno, che muove guerra alla contemplazione, in cui non c’è più tempo… è spaventoso vedere come siamo diventati frettolosi e superficiali”). Recinta nella generosità, in una principesca reticenza che mi è nota, Mary si rivela, specchiando il poeta inarrivabile, che torna in Italia e trova terra desolata, il tempio dei ricordi fratturati, la trama stravolta (“Pound si rese conto che non esisteva più il mondo di prima; non c’erano più gli amici di un tempo che avevano un tempra come la sua: Hemingway si era sparato, William Carlos Williams era morto, così come Eliot; Hilda Doolittle sarebbe morta da lì a poco. Erano tutti morti. Non aveva più amici”). L’unico conforto, ora, per il poeta, il riscatto postumo, sarebbe, a seguito di questo volume, che ha il pregio della leggibilità e della franchezza, pianificare una serie di pubblicazioni poundiane. “Mi chiedo perché non vengano ripubblicate le lettere curate da Feltrinelli per Aldo Tagliaferri… mi piacerebbe molto, inoltre, veder pubblicate le lettere ai genitori. Ci sarebbero da tradurre le lettere con Cummings, Williams, Zukovskij, Ford Madox Ford”, si chiede la figlia, Mary. Io allargo la richiesta: il massimo editore italiano – Mondadori – come fanno altri degni editori – chessò, Gallimard – dovrebbe costruire una collana dedita al poeta, riproducendo le opere di Ezra Pound, sintetizzando in un progetto la miriade di pubblicazioni di ‘Ez’, dalle chicche Scheiwiller (L’antologia classica cinese, gli Analecta di Confucio, il Gaudier-Brzeska, il libello su La Martinelli, a puro esempio) ai testi canonici, difficili, A Lume Spento, l’Omaggio a Sesto Properzio, il Cavalcanti, i testi del teatro giapponese No, tutti allineati, corretti, ritradotti – magari – commentati. Dopo aver fatto parlare la figlia – finalmente – ora bisogna far parlare l’opera di Pound. Nell’attesa, restiamo ancorati ai singoli sguardi del poeta che scandì l’aritmia dei millenni, e ci posiamo sulla giuntura dei Cantos, “ciò che sai amare rimane, il resto è scoria”. (d.b.)
Intanto. Non è facile intrattenere un dialogo con Mary sul padre, ne ho memoria. È tanto gentile quanto severa, è reclusa in una specie di reticenza, giustificabile, penso. Come sei riuscita a ‘vincerla’?
Mary era inizialmente quite contrary, così firmava le sue lettere, perché è una donna molto umile e quindi non voleva essere messa al centro dell’attenzione, voleva che risaltasse solo Pound, anzi, l’opera di suo padre, così spesso ignorata o travisata. Ha ragione, i Cantos restano, almeno in Italia, un pianeta misterioso e lontano. Per iniziare questo lungo dialogo con Mary, forse, mi ha aiutato proprio la poesia, l’alba della nostra amicizia è sorta quando le mandai alcune poesie raccolte nel quadernetto nero Ares dei Quattro poeti (c’erano anche Ielmini, Veronesi, Donadoni): era incuriosita dal fatto che un giovane poeta italiano fosse sulle tracce di Pound. Così nove anni fa bussai alla porta del castello di Brunnenburg, in Tirolo, riferimento obbligato per gli studiosi poundiani, dove si conserva la biblioteca paterna e dove Pound scrisse i toccanti frammenti degli ultimi Cantos.
Veniamo a Pound. Accusato di ‘tradimento’ verso la patria, è stato tradito a sua volta. Quali amici gli sono restati sinceramente al fianco durante la reclusione al St Elizabeths?
Potrei ricordare alcuni big, come Thomas S. Eliot, Robert Frost, Elizabeth Bishop, che dedicò a Pound la bella poesia “Visita all’ospedale St. Elizabeths”, e lo stesso Hemingway, che il giorno del suo 57° compleanno scrisse a Pound in manicomio mandandogli del denaro (quanto gli restava del Nobel): “Durante la guerra ho dovuto anche stare all’ascolto-radio, e qualche volta quando ero di turno ti ho sentito. Non mi piacevi affatto e alcune volte mi piacevi ancor meno. Ma ho scritto ad Allen Tate che se ti avessero impiccato io sarei salito sul patibolo e mi sarei fatto impiccare a mia volta…”. Mary mi ha raccontato che quando Hemingway morì, Pound era ricoverato in clinica a Merano, nessuno gli aveva dato la notizia della morte dell’amico, eppure lui ne era a conoscenza perché l’aveva visto in sogno… Fu un colpo molto duro. Sul versante italiano, posso ricordare l’impegno del giovanissimo editore Vanni Scheiwiller che si spese in tutti i modi per riabilitare Pound, anche tra i poeti italiani. Il loro carteggio tra Milano e il manicomio criminale di Washington è straordinario. Soprattutto per l’allestimento di Section: Rock-Drill, Canti 85-95, che uscirono nel 1955 in anteprima mondiale, ancora prima delle edizioni “ufficiali” Faber e New Directions.
60 anni fa il ritorno dagli Usa all’Italia: Pound è ormai il residuo di un altro mondo. Lentamente, medita la scelta del silenzio. Come lo accoglie l’Italia del dopoguerra?
La notizia del ritorno di Pound accese le terze pagine dei giornali. Molti inviati raccontarono il suo arrivo. I sentimenti erano i più diversi, c’era curiosità per molti, diffidenza per alcuni. Forse il sentimento più diffuso fu quello di Indro Montanelli che dalle pagine del Corriere della sera scrisse: “Ezra Pound sta per tornarsene a casa con una bella patente di matto che lo libera dall’accusa di tradimento, per la quale l’hanno tenuto dodici anni in gabbia. Gli Americani non escono bene da questo affare… Io spero che Pound torni. E per due ragioni. Prima di tutto perché è un vecchio amico e un vecchio uomo che, dopo tutto quello che ha passato, ha il diritto di finire i suoi giorni nella terra che, sia pure per equivoco, ha eletto come patria. E poi perché le sue opinioni politiche non le temo… Delle opinioni politiche di un poeta possono avere paura solo gli sciocchi…”.
Chi gli resta vicino dopo il 1958?
Il focus del mio libro riguarda proprio la solitudine di Pound al rientro in Italia nell’estate del 1958. In manicomio si era dato un rigoroso ordine di lavoro (portò avanti i Cantos, tradusse Confucio e le Trachinie, ebbe una corrispondenza fluviale), ma pensava, una volta libero, di poter stare tranquillo per lavorare, di scrivere il Paradiso del suo poema infinito. La realtà fu molto più amara. Quando uscì dalla prigionia, il “mondo di ieri” era stato spazzato via, la maggior parte degli amici era morta… c’erano anche tante difficoltà materiali (non poteva disporre dei beni perché era stato privato della personalità giuridica, pativa il freddo del Tirolo…). E poi bussò forte il demone della depressione…
I Cantos sono, più che altro, una profezia rivolta al futuro: non è così? Che ‘attualità’ letteraria e ‘politica’ rivestono?
I Cantos sono forse il più folle volo del Novecento. Con inserti difficilissimi alternati a versi di uno splendore adamantino, come quelli del Canto CXIII, che adoro: “Il mare oltre i tetti, ma sempre mare e promontorio./ E in ogni donna, pur fra l’acredine c’è una tenerezza,/ Una luce azzurra sotto le stelle”.
Per la profezia letteraria, vedo Pound nel grande solco dantesco. I Cantos sono un monito perché il poeta faccia i conti con la Storia, sfuggendo alla tentazione di raccontare solo la propria storia, il proprio ventaglio dei sentimenti (anche se nei Cantos è fittissima la trama dei ricordi personali). Ricordo un’intervista di Derek Walcott che parlava del nostro tempo come un tempo di tentativi di poesia più che di poesia vera e propria… È un’affermazione un po’ caustica, ma anche un bel banco di prova. Pound fu estremamente poliedrico. Da giovane era un lirico pieno di tenerezza, poi sperimentò la poesia sognante ed esatta di Cathay, come gli spigoli della sestina Altaforte… Poi comprese che era stato un lungo estenuante allenamento per osare il poema. Per l’attualità politica: i corrosivi versi di Pound contro l’usura e la speculazione finanziaria andrebbero insegnati nelle scuole… Mary mi ha spiegato che Pound fu profetico anche nell’anticipare quegli atteggiamenti che possono aiutarci nel nostro mondo troppo caotico: l’importanza del silenzio, di sapersi raccogliere di fronte alla bellezza della natura….
Come giudica la figlia la prossimità di Pound al fascismo, una ferita che ha ulcerato la comprensione del grande poeta, a cosa è dovuta?
È stata una barriera che ha impedito lo studio della sua poesia. Per fortuna ci sono stati autori “insospettabili” come Ginsberg e Pasolini che hanno in qualche modo cercato di forare la barriera… Quando mi sono trovato per la prima volta di fronte al grande portone in legno del castello, volevo conoscere il poeta e l’uomo oltre i soliti cliché. Mi interessano gli autori che cercano di trovare la luce anche nel buio accecante. Carver diceva: “mi interessa quello che la gente riesce a fare per risollevarsi quando è finita a terra”. Quando ho iniziato a scrivere, pensavo a Pound chiuso nella gabbia del campo di detenzione di Pisa nel 1945. Era cotto dal sole di giorno, è accecato dai riflettori, la notte. Eppure, continuava a scrivere, a cantare la bellezza. E così nacquero i Pisan Cantos. “La carità più profonda/ si trova fra chi ha infranto/ le regole” [Canto 74], “Come è lieve il vento sotto Taishan/ sa di mare/ ci toglie all’inferno, alla fossa/ alla polvere e alla luce accecante” [Canto 74, p. 885], “Ciò che sai amare rimane/ il resto è scoria/ Ciò che tu sai amare non sarà strappato da te/ Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio […] Ciò che tu sai amare non ti sarà strappato/ la formica è centauro nel suo mondo di draghi./ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia,/ Deponi la tua vanità, dico, deponila!” [Canto 81].
Nelle tue chiacchierate vengono a galla poeti meno noti – Robinson Jeffers, ad esempio – e fonti poco esplicate dei Cantos, questa miniera di dati che va dal Rinascimento di Gemisto Pletone a Confucio, dalla Grecia antica al teatro No giapponese. Qual è stata la cosa che ti ha rivelato Mary a proposito di suo padre che più ti ha sorpreso, che ti ha fatto sobbalzare?
Ci sono stati due momenti indimenticabili. Il primo quando Mary scostò per la prima volta la tenda che ricopre la biblioteca paterna ed estrasse l’Elettra di Sofocle annotata alla follia. Tra i detrattori di Pound, c’era chi diceva che lui non leggeva i libri fino in fondo… Il secondo momento quando vidi su un quaderno di scuola, quelli con le città italiani che fino a qualche anno fa si potevano trovare nelle cartolerie di campagna, i primi abbozzi degli ultimi Cantos e su una pagina i versi, scritti con la biro rossa che ho scelto come titolo del libro: “Ho cercato di scrivere paradiso…/ lascia che gli dei perdonino quel che/ ho costruito…”.
C’è qualcosa, in questi lunghi dialoghi, che hai preferito tacere, omettere, custodire nel pudore?
Ho cercato di mettere a frutto ogni istante con Mary, anche i tempi di trasferimento da una stanza all’altra del castello o quando ci arrampicavano sulla strettissima scala a chiocciola che porta sulla terrazza… E tuttavia mi sembra di essermi solo affacciato a questo universo. C’è ancora moltissimo da fare. E per l’Italia ci sono tanti carteggi poundiani da pubblicare… Mi piacerebbe un giorno fare un’edizione dei Drafts & Fragments tutta annotata da Mary… e poi ci sono le centinaia di lettere del padre…
Donne fatali attraversano la vita di Pound, da Olga Rudge all’enigmatica Sheri Martinelli. Cosa sappiamo de ‘la Martinelli’?
Che era una giovane musa che fece perdere la testa a molti artisti e visse una vita troppo scorticata tra alcol e droghe. Alcuni suoi dipinti si possono vedere nel castello. Pound le dedicò i sulla bellezza del Canto XC: “Sibilla,/ dal mucchio di rottami/ m’elevasti/ dall’ottuso limite al di là del dolore,/ m’elevasti/ dall’Erebo profondo/ dal turbine sotto terra/ m’elevasti/ dall’aere morto e dalla polvere/ m’elevasti/ al grande volo/ m’elevasti, Iside Kuanon / dal corno lunare / m’elevasti/ la vipera nella polvere si muove,/ l’azzurra serpe/ scivola dalla conca di roccia…”.
Leggere Pound significa attraversare i punti dolenti della Storia, una Storia, quella del Novecento, priva di Paradiso. Il poeta che cerca di poetare sul corpo della Storia: una impresa impossibile. Come dovevano concludersi i Cantos secondo le intenzioni di Ezra?
È molto dibattuta la questione sulla fine dei Cantos, lo stesso Pound era incerto. A un certo punto diceva che si dovesse ricorrere ai Ching per una risposta… La conclusione che ha scelto Mary per il Meridiano Mondadori mi sembra molto buona. “Uomini siate non distruttori”.