
“Il dolore allontana, la malattia spaventa”. Sul potente romanzo di Ada d’Adamo
Libri
Davide Grittani
Il pamphlet di Giuseppe Antonio Borgese, Il senso della letteratura italiana (in origine, 1929; ora Aragno, 2024), istoriato su coltello di cristallo, mi ha ricordato due libri. Il Corso di filosofia in sei ore e un quarto di Witold Gombrowicz, per la ferocia interpretativa e la regale brevità (il “corso” di letteratura italiana di Borgese si legge in un’ora e tre quarti); e Il Canone occidentale di Harold Bloom, per la poetica ‘politica’ di fondo. Giuseppe Antonio Borgese difende l’identità letteraria italica, la sua qualità autarchica, il genio di una lingua “strenuamente conservatrice e stabile”. Chiunque asserisca il carattere “singolare e quasi aristocratico” della nostra letteratura è degno di plauso; chi ne ribadisce i caratteri di “maestà, magnificenza, grandezza”, poi, va usato come molotov contro le frotte dei poetanti da talk, delle galline da bestseller.
La lingua, a dire di Borgese – che, non a caso ‘fondò’ la cattedra di Estetica a Milano, esportandola poi a Berkeley – ha un senso ‘plastico’: si legge nei monumenti ideati da una nazione, nei criteri che diramano l’urbanistica di una città (la mappa-mente), nei volti dei cittadini (un corpo è sempre ‘alfabetico’). La letteratura è dunque il cuore di una nazione, la sua anima, la cosa che la anima – l’identità, perfino.
Concetti come questo – tanto ‘sani’ da risultare antimoderni, per non dire corsari – ridonano giusto assetto d’ali e coerente altitudine alla letteratura nostra che in troppi, oggi, intendono liofilizzare ad appendice dell’educazione civica, della sociologia spiccia, più o meno partitica:
“In quanto non ha ceduto alle decadenze, alla sensualità, alla tronfiezza, alle maniere, la letteratura italiana, la poesia italiana, è principalmente una rivelazione paradisiaca, una scoperta folgorata di grazia, un pellegrinaggio verso un santuario. Il suo spirito dominante può essere chiamato trascendente e sacro”.
Detto questo, G.A.B. piglia due abbagli. Il primo: tenta di irreggimentare in schemi le individualità. A suo dire, la letteratura italiana si divide in due “modi… l’uno è mistico e trascendente, l’altro è negativo e ateo”; il primo ha per campione Dante, l’altro Boccaccio. Gianfranco Contini userà una forma più raffinata e densa di rimandi, ma analoga, parlando di “monolinguismo” (Petrarca, Leopardi & Co.) e “plurilinguismo” (da Dante fino a Gadda). Semplificazioni suadenti, dal proficuo effetto accademico, ma in fondo bugiarde. La letteratura non accetta le formule partitiche dello show, i filosofemi elettorali (destra/sinistra; monarchici/repubblicani; Milan/Inter): è fatta di uomini. Le grandi opere, intendo dire, sono scommesse che nessuna didascalia sconfigge, azzardi scagliati sui musi grigi del tempo. Semmai, sono il frutto di diverse influenze. E qui veniamo al secondo punto.
Per G.A.B. la letteratura italiana è a tenuta stagna, figlia di se stessa. Non è così. Dante esiste perché ha letto Virgilio e Arnaut Daniel; Petrarca teneva per pari Seneca e Agostino; Leopardi amava Epitteto e Giobbe; Pascoli ha tradotto Tennyson e Orazio come Foscolo ha volgarizzato Sterne e interpretato Omero; D’Annunzio e Manzoni (che “potrebb’essere un Goethe”, come insegna, con comprovato genio per il ‘bozzetto’, proprio G.A.B.) scrivevano in francese. Arthur Rimbaud è la divinità salottiera di Arrigo Soffici, Walt Whitman la fonte diretta di Dino Campana come Thomas S. Eliot lo è di Montale (cattivo traduttore di Emily Dickinson). Mentre G.A.B. pubblicava Il senso della letteratura italiana, Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte fondavano “900”, rivista – anzi: “Cahiers” – d’indimenticato estro: vi scrivevano Joyce, la Woolf, Il’ja Erenburg. L’editoriale di Bontempelli, scritto rigorosamente in francese, invitava all’arte come avventura, a considerare lo scrittore un sommo pirata:
“La vita più quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne. L’esercizio stesso dell’arte diviene un rischio d’ogni momento”.
La rivista durò poco: tre anni, lungo l’arco di una manciata di fascicoli. Il popolo dei poeti e dei navigatori si rivelò genia di navigati salottieri. Di quell’impresa, comunque, riverbera ancora il nerbo: non esiste una letteratura ‘nazionale’; lo scrittore, per sempre “fuori dai canoni”, si foggia da sempre un canone a sé.
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Il senso della letteratura italiana
Non c’è persona colta, in nessun luogo, che non sappia il significato dei due epiteti che spesso abbiamo pronunciato: dantesco e michelangiolesco. È noto pure che cosa vuol dire raffaellesco: una grazia trasumanata, un’armonia che si direbbe astrale. E che cosa vuol dire leonardesco: una ricerca magnetica del mistero. Vi sono altri aggettivi che si riferiscono allo stile italiano, e che hanno un suono meno perentorio. Ma abbiamo visto quale sia, per la sensibilità di tutti, il significato di ariostesco: l’impeto di una immaginazione festosa il cui sorriso è un po’ giubilo di liberazione, un po’ delicata ironia di se stesso.
Simile al significato di ariostesco è quello di rossiniano. Ed abbiamo accennato al senso di petrarchesco. Vi è qui una combinazione tra l’affermare e il negare, fra l’entusiasmo e la riserva. Sentiamo in Petrarca e in ciò che gli somiglia l’anelito verso l’alto, ma anche l’indugio decorativo, un certo che di viziato e di dubitante, come chi dicesse un platonismo con un residuo di maniera sofistica. Qualcosa di dubbio sentiamo anche nel dire “tassesco”. In Tasso e nei modi musicali e poetici di cui egli è fondatore sentiamo un’alta fantasia di tipo ariostesco e rossiniano, ma aggravata da cupezze sentimentali, minacciata da un peso troppo dolce, da un’insistenza troppo faconda.
Ora, se procediamo più innanzi nella direzione di dubbio e di crisi indicata da quella che diremmo l’ombra di questi ultimi aggettivi, troviamo quegli altri che la cultura universale conosce ugualmente, ma non accetta senza un giudizio di riprovazione. Cioè, che cosa è boccaccesco se non il piano dove la volontà metafisica, ormai stanca, s’adagia sconfitta? C’è qui ingegnosità e opulenza, ma anche materialismo, rinunzia, e tolleranza, piuttosto voluta da pigrizia e complicità che ispirata da sentimenti pietosi. Di qui la ridondanza, lo sfoggio che vorrebbe ornare la decadenza (“che quant’era più ornata era più brutta”), la forma esterna già barocca, prima del nome.
Il boccaccesco è la catastrofe del Trecento, e può essere definito un realismo pessimistico. E che cosa vuol dire machiavellico? Le interpretazioni apologetiche e le interpretazioni ostili del Machiavelli coincidono almeno in un punto. Per quelli che lo adottano e per quelli che lo esecrano, machiavellismo è pessimismo. Esso è, più chiaramente, la condanna della realtà presente e storica, quando sia misurata secondo esigenze simili, almeno in grandezza, a quelle dello spirito di Dante e di Michelangelo. Connesso (benché in Leopardi il pessimismo, da nazionale e storico qual era in Machiavelli, sia divenuto universale e cosmico) è il significato che diamo alla parola leopardiano.
Più facile e consentita di ogni altra è la definizione del termine “barocco”. Dove sia venuto a mancare, per l’inadeguatezza della vita al sogno, il senso del grande, sorge, falsificatore, il senso del grandioso. Dove sia venuta a mancare la possibilità del sublime, si sfrenano, succedanei, lo sfarzo e il capriccio. È il clinquant – non del Tasso, come ingiustamente disse il Boileau, ma degli eredi del Tasso – più lucente dell’oro. Meno diffuso fuori d’Italia, meno conosciuto nelle venature del suo significato, è il termine “manzoniano”. Esso indica un punto di tentato accordo, di vacillante sintesi, fra il dantesco e il machiavellico, fra il mistico e il realistico, fra l’affermazione teologale e la disperazione scettica: con un sorriso paziente, con una fine e tollerante umiltà, ma anche con un che di stanco e lievemente fiacco.
Questa serie di veloci descrizioni di parole, questo breve contributo a un piccolo dizionario spirituale, dà – più che in scorcio in diagramma – il doppio aspetto della letteratura italiana. Essa ha due vette, come il Parnaso; due modi di manifestarsi, come fu detto per la poesia ellenica. Non li chiameremo, in Italia, apollineo e dionisiaco; ma potremo dire che l’uno è mistico e trascendente, l’altro è negativo e ateo, l’uno è di entusiasmo alieno dalla realtà contingente, l’altro di peccatrice e rilassata soggezione al reale; l’uno è dantesco e romanico, l’altro è boccaccesco e barocco. Ed è questa continua presenza di due estremi, senza una mediazione, senza un tramite sano e praticabile fra i due, – questo doppio rigore di dogmatismo estatico e di negazione disperata senza un flusso di realtà contemplabile con spirito serenamente religioso e di criticismo nutrito nel fatto, quale avrebbe potuto desiderarsi da una mente di carattere manzoniano – è questo squilibrio e turbamento durato per secoli che spiega, almeno in qualche misura, le critiche a cui da parti opposte è stata sottoposta la letteratura italiana.
È notevole che essa non sia sembrata del tutto soddisfacente né ai classicisti, né ai romantici. Gli uni e gli altri, pur amandola nel suo sforzo, e ammirandola nei suoi capolavori, e volendola sempre più illustre e divulgata nel mondo, l’hanno sottoposta alla medesima tortura: hanno voluto misurarla su modelli che non le erano intrinseci e a cui essa si rivelava ogni volta inadeguata. […]
Era un pregiudizio quello dei retori di volerla pareggiata alla letteratura greca e alla latina, col poema eroico, con la tragedia aristotelica, con l’eloquenza forense; era un pregiudizio quello dei romantici che avevano in mente le letterature straniere moderne, e in special modo la tedesca e l’inglese, e consideravano l’italiana come una letteratura romantica fallita, allo stesso modo che a uno di loro la Sicilia apparve un’inghilterra sbagliata e il Mezzogiorno un abbozzo di Francia. Il Leopardi, in uno dei suoi momenti di più fiero malcontento, adoperò successivamente l’una e l’altra misura, e colpi poesia e prosa italiana con doppia condanna. Il vero è che, in quanto riguarda il lungo tempo della sua formazione originale (anche se superficialmente turbata dal malinteso classicistico), i secoli anteriori alla finale espansione delle poesie romantiche, né l’uno né l’altro criterio può applicarsi. In tutto questo tempo la letteratura italiana si manifesta come una formazione sui generis, espressione di un animo nazionale solitamente diviso fra due passioni ugualmente radicali, di cui l’una è l’esaurimento dell’altra. L’una è un’aspirazione irrefrenabile verso l’assoluto, l’altra è un sentimento non meno profondo dell’“infinita vanità del tutto”; risultato di quella è la lirica platonica, la visione metafisica, e suo residuo passivo è l’ipocrisia barocca; mentre il pessimismo si esprime nella malinconia machiavellica, nella querela leopardiana, o si sfoga nel cinismo realistico e nella smorfia sensuale.
Questa letteratura non può essere considerata come una letteratura classica se per classico s’intende ciò che fu detto dal Goethe nel grande saggio sul Winckelmann: “Gli antichi, i classici – così egli scrisse – sentivano la loro sola contentezza entro gli amabili confini di questa bella terra: qui era il loro posto, qui era la loro vocazione, qui la loro attività trovava spazio e la loro passione aveva oggetto e nutrimento”. Ben al contrario di ciò, i poeti italiani cercarono l’oggetto della loro poesia non quaggiù, ma lassù, non sull’amabile terra ma nell’infinito; posero la scena della loro catarsi nella Rosa dei Beati; diedero voce d’amore non alle calde forme antiche ma ai virginei geometrismi della pittura bizantina.
D’altro canto non si vorrà annoverare questa letteratura fra le romantiche se non ci contenteremo di interpretare il termine “romantico” come il segno di un contenuto medievale e cristiano e se vorremo dargli altresì, come gli spetta, un senso artistico e formale: quasi allusione a un che di fluido o dilagante, di scorrente senz’argini, a uno stile multiplo, o gotico, a una forma musicale, vaga, incommensurabile. Il contenuto della poesia italiana, così romantico come forse nessun altro, cercava la sua attuazione in una forma puramente plastica, serrata, classica. In questo contrasto consiste per gran parte la sostanza della nostra letteratura: in questo antitetico sforzo – non sempre fortunato, ma non mai fiaccato – di artisti che volevano tradurre in pesi marmorei le fluidità celesti. E la poesia italiana, in quanto il sentimento e il gusto di tutto un popolo e di parecchi secoli tollerino le strettoie di una formula, è un medievalismo e romanticismo mistico in cerca di “simmetria prisca”, un dionisismo ascetico non mai rinunziante all’apollinea serenità.
Da queste sue altezze si può meglio misurare la profondità delle sue cadute nel lezioso, nel vuoto, nel falso. Ma è anche vero che dal punto di vista della sua sublimità e intransigenza si comprendono, forse non meno bene che dalla specola dei suoi vizi, alcuni motivi di quella scarsa popolarità che le fu spesso addebitata. Essa mirò sempre al maestoso, al definitivo, al sacro, al tempio, al palazzo; immagini e sentimenti che non sono di tutti gli uomini e di tutti i giorni.
Giuseppe Antonio Borgese
*Si riproduce, per gentile concessione, parte del pamphlet di Giuseppe Antonio Borgese, “Il senso della letteratura italiana” (prefazione di Luigi Mascheroni, Aragno, 2024)
*In copertina: Umberto Boccioni, Ritratto di giovane donna