15 Dicembre 2018

“Mi spiace per te, ma sei il nuovo Moravia”: scazzottata verbale tra Davide Brullo e Matteo Fais

La pensiamo opposta su tutto – per questo ci vogliamo tanto bene. Lui ama Houellebecq, per dire, che io trovo uno scrivano di terza fila; lui morde la carne insipida della vita, consapevole di ciò che è certo – nulla è e se anche fosse non sarebbe conoscibile, dunque nulla ha senso: questo è Sesto Empirico mica Massimiliano Parente – io cerco Dio perfino nel frigorifero, figurandomi nell’abulico neon sopra il barattolo scaduto di tonno un abominio di galassie. Fais è un anatomista del dolore, un chirurgo della pece quotidiana, un senza pace, io sono una specie di re presunto in assenza di Golia, uno che traduce l’arpa in coltello e viceversa, che cerca l’oro del verbo, mentre Matteo, verbosamente, costruisce trappole grammaticali nella melma. Così, ci vogliamo bene – io amo chi mi è gemello all’opposto, perché non mi sopporto, non sopporto la mia scrittura nitida e perfetta e la mia poesia visionaria, glossolalica, ho bisogno di chi mi riporti alla realtà, che io mi ostino a sbriciolare con un vezzo di cerbottana. Ad esempio. Matteo Fais ha appena pubblicato per Robin Edizioni il nuovo romanzo, Storia minima. L’ho seguito da vicino: si rovinava le giornate per speculare intorno alla disposizione di una virgola e alla decenza di un aggettivo e alla declinazione della copertina – Fais in fondo, è uno che nell’orrore entra con i calzini intonati al colore degli occhi, con avida sinuosità. Io, di mio, avrei scritto una ‘Storia magica’, una ‘Storia maxima’, perché, ancora, che infantile, credo nel libro assoluto e nella parola che squaderna i mondi, nel verso che spacca il cranio di Dio. Invece, devo credere a Franz Krauspenhaar, che ha creduto in questo romanzo fino a scrivere una intro assai partecipe e guerresca: “l’autore se ne sbatte delle grandi migrazioni e dei nostri tragici tempi cantati da molti nell’astrazione, senza vera passione – come fa il radical chic che se la gode come un pazzo, ma poi si prende a cuore problemi sociali che non vede nemmeno, perché preferisce pensarli in modo platonico. Al contrario Fais prova a raccontarli crudelmente attraverso la vita minima di un giovane scoraggiato”. Storia minima, devo dire, risollevati dal senzasperanza, ha un paio di pregi. Il primo è che mi ha svelato. Sono un radical chic. Sono radicale – i morti mi paiono più vivi di tanti viventi – e sono chic, cioè addestrato all’esasperata eleganza. La seconda cosa è la compassione. Fais alterna crudeltà a inaudita delicatezza, la sconfitta all’adesione totale – mai accomodante, mai comoda – alla vita. Nella vita, d’altronde, si entra con occhi di terrore, gonfi di turbe: occorre sostituire questa iride – malmessa dai tempi – con quella dei giaguari. Poi gli dico che questa spietata compassione mi ricorda Moravia, proprio così, un Moravia che con il taglierino si è messo a triturare il nuovo millennio, relegandolo a scalpiccio. Ma tu pensa… il mio amico Matteo Fais è il nuovo Moravia. (d.b.)

FaisIntanto, perché scrivi? Perché scrivi quello che scrivi, intendo…

Ah, dunque questa è un’intervista seria! Proprio come quelle che fai ai veri scrittori. Allora, aspetta che mi apro una bottiglia di vino e mi metto in posa davanti a una bella libreria stracolma di testi che non ho letto… Perché scrivo? Perché nessun altro l’ha mai fatto – di scrivere quello che scrivo io, intendo dire – o, se non altro, non in molti, da diversi decenni a questa parte. Se è pur vero che massimo dieci, venti autori in un secolo riescono a imprimere una svolta a livello stilistico, è altresì indiscutibile che la realtà è troppo variegata per essere decostruita unicamente da quei pochi innovatori dell’espressione. Vedi, là fuori c’è un mondo assurdo: gente che muore di fame, vittime di un mercato del lavoro assassino, eccetera eccetera. I poeti e gli scrittori di che cosa parlano, invece? I primi insistono nel far rime bucoliche, come se ci fosse ancora una natura simile, se non identica, a quella che circondava Leopardi – come sappiamo bene, tra le rarissime eccezioni, ci sono Simone Cattaneo e Andrea Italiano. Oppure, a livello narrativo in particolare, gli autori sfornano inutili divertissement e scopiazzature di vecchi romanzi sadomasochisti, come nel caso delle Cinquanta sfumature. Capisci bene che raccontare il nostro tempo è un dovere morale e la letteratura un mezzo affinché nella mente delle masse si faccia largo una visione critica della realtà che altrimenti resterebbe confinata nei testi di sociologia e filosofia.

Che palle le storie “minime”, non sarebbe meglio scrivere le storie “enormi”, irraggiungibili?

Ma neanche per sogno! Che due coglioni, invece, sta smania di scrivere opere eterne, destinate a catturare una volta per tutte l’essenza dell’Uomo al di là di qualsiasi tempo e spazio. Tutte stronzate derivanti dalla trasposizione in ambito letterario di principi mutuati da una visione religiosa e platonica: l’iperuranio con le idee fisse, il Paradiso, l’Eternità, l’Infinito. Capisco che l’uomo abbia nostalgia di una qualche stabilità – ecco spiegata l’ossessione per l’Infinito –, ma temo si tratti di una pia illusione. Niente è immutabile, l’Uomo con la “u” maiuscola non esiste. In tanti hanno provato a scrivere l’opera definitiva, come tanti hanno provato a edificare una filosofia che non necessitasse successivamente di ulteriori riflessioni. Ognuno di questi ha fallito miseramente, peccando di presunzione. Hanno fallito Dante, Boccaccio, Balzac, Proust. Le loro sono certamente delle grandi imprese letterarie, ma sono storiche, non eterne. Rispetto a me e a te, questi hanno unicamente avuto la fortuna, considerato che il tempo nel passato scorreva molto più lento di oggi, di riuscire a creare una realistica istantanea di un secolo, forse di due. Quello che ho scritto io oggi, al contrario, è destinato a essere uno specchio al massimo del decennio, o poco più. Forse una parte, almeno una certa dimensione morale dei miei personaggi, non muterà così facilmente, ma molti dei problemi che descrivo, in meno di cinquant’anni, saranno legati a un universo praticamente preistorico. Pensaci: incontri in chat, disoccupazione legata alla crisi, ragazzi scoraggiati ecc. Tra qualche decennio, scoperemo per mezzo di una tuta elettronica e il lavoro non esisterà più perché sostituito dall’automazione robotica – la fantascienza odierna diventerà realismo e attualità. Per concludere, lascia che precisi una cosa. Pochi anni prima che nascessi, siamo entrati in quella che si chiama “condizione postmoderna”. Le grandi narrazioni sono finite. È iniziata l’epoca del pensiero debole. Raccontare credendo di poter parlare a nome dell’universo intero, dell’uomo che sta in Africa come di quello del Sud America, o anche solo per un’intera generazione, sarebbe follia e stupidità. Rilassiamoci tutti quanti: oggigiorno ogni romanziere è destinato a essere un autore minimo, una flebile voce nel coro della storia – volutamente scritta con la “s” minuscola.

Tu dirai che il tuo riferimento per il libro è Houellebecq. Io direi Moravia. Come la prendi? Giustifica le tue fonti.

Ammetto che la tua considerazione non è superficiale – in parte mi hai smascherato. Ho sempre amato Moravia, fin dalle scuole superiori. Non tanto il primo – anzi, quello non mi piace per niente –, ma il secondo. L’ho letto da cima a fondo. Sto parlando, per intenderci, di La noia, L’uomo che guarda, Io e lui, La vita interiore e via elencando. A ogni modo devo contraddirti: il mio punto di riferimento, oggi come oggi, è Michel Houellebecq. Ma in Moravia, si potrebbe dire, c’è molto di quello che poi sarà Houellebecq. Semplicemente quest’ultimo analizza la società occidentale nella sua decadenza. L’autore di Gli indifferenti viveva in una realtà diversa, in un certo senso infinitamente più limitata. L’Occidente, sempre con licenza parlando, non esisteva ancora come entità, come forma dello spirito, almeno non fino in fondo. Per Moravia c’era l’Italia e, di conseguenza, la sua indagine volgeva sulla realtà nazionale. E lo faceva con gli strumenti giusti: Marx e Freud, il denaro e il sesso. Elementi simili li ritroviamo oggi in Houellebecq, l’economia neoliberista e la competitività estesa all’ambito della sessualità (da qui il titolo del suo primo romanzo, Estensione del dominio della lotta). Il motivo per cui il mio riferimento è lo scrittore francese sta nel fatto che Moravia resta comunque un moderno, mentre Houellebecq è, almeno in principio, un postmoderno, un frutto del pensiero debole. È vero, lui critica tale visione, ma al contempo vi è immerso. Vive entro la fine di ogni grande narrazione, proprio come me. Ai tempi di Moravia era tutto più netto e manicheo. Ma certo vi è molto di quest’ultimo nel tuo umile affezionatissimo. Penso, per esempio, al protagonista di La noia e al suo fallito tentativo di abbandonarsi al flusso vitale. Il mio personaggio è altrettanto inetto e fallimentare, votato allo scacco per intrinseca incapacità di adesione sfrenata, dionisiaca, all’esistente, senza la mediazione culturale.

Cos’altro ci resta da narrare: ancora una vita sfibrata, una vita emarginata, una vita violenta?

E di che vuoi che parli, di una gita sull’Himalaya come Cognetti?! Mutuando una fantastica espressione dai giovanissimi, direi “Ma anche no, grazie”. Vivere mi fa male, vivere in questo mondo ancora di più – non che abbia idea di come sarebbe stato in altri tempi, o parti del mondo, ma sinceramente non credo meglio. La vita è violenta, sfibrata, emarginata, ma aggiungerei anche terribile, piena di avversità, pastoie, oscenità, tristezza, orrore, tremore, malattie, e sesso con ragazze che ti confessano di aver letto solo Fabio Volo – roba che rivaluti anche quelle che non hanno mai letto un libro. Comunque, prima che qualcuno pensi a me come a una persona seria, vorrei sottolineare che il dolore, quando arriva al parossismo, mi porta a sorridere – la miseria è tanta che, a volte, mi chiedo se non sia tutta una colossale presa per il culo.

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Matteo Fais deve sempre fare la faccia da str***o

Canti l’alienazione o la vitalità? Canti l’agnizione del nulla o l’estasi nella gioia? La dissoluzione o la dissipazione?

Cantare, che parolone! Meglio sarebbe dire che stono su uno spartito illeggibile fatto di scarabocchi insensati e lugubri, quello dell’esistenza dell’uomo occidentale. Quindi, no, mi spiace, chi fosse in cerca di vitalità, estasi e gioia, è meglio che legga altro. Non fraintendermi, piacerebbe anche a me intonare panegirici a “il corpo elettrico” e altre dolci amenità alla Whitman. Per carità, versi interessantissimi, trascinanti, inebrianti. Domando scusa ma, come avrebbe detto Leopardi a quel manipolo di invasati liberali, questo tempo sarà anche fantastico, ma io rivendico la mia infelicità, il mio diritto a non trovare gran parte del nostro vivere sensato e lieto. Però bisogna che inizi a dire qualcosa di un tantinello meno simile ai testi dei Joy Division, altrimenti qui la gente comincerà a toccarsi le palle, come al passaggio di un funerale, e ci manderà a fanculo.

“Mi ributtai su Zola, Balzac, Flaubert, quel vecchio mandrillo di Philip Roth. Ascoltavo, nel mentre, per rilassarmi, Herbert von Karajan che dirige Beethoven”, fai dire al tuo antieroe – che pare uscito da un’Arancia meccanica con manganello nell’anima. Qual è il libro che ti ha dato uno scatto, uno schianto?

“Un’Arancia Meccanica con manganello nell’anima”! L’ho detto che tu sei il più forte. A volte, ti leggo e mi chiedo da dove le tiri fuori certe espressioni. Se fossi donna ti amerei carnalmente, ma per fortuna ho solo testosterone galoppante in me – e poi ci pensano già ampiamente le femmine a tirarmelo nel didietro, quindi non offenderti. Venendo alla questione da te posta, direi che certamente Estensione del dominio della lotta e Le particelle elementari sono i due libri in cui mi sono identificato maggiormente e di cui ho amato massimamente lo stile – li potrei rileggere anche per l’eternità e credo che mi toccherebbero ogni volta il cuore e la mente, a tratti inducendo in me il pianto. Sì, lo confesso, ho letto alcuni brani delle Particelle con le lacrime agli occhi. Hai presente il passaggio in cui Annabelle, la bella ex ragazza, oramai ridotta a una quarantenne sola, dopo una vita all’insegna della libertà sessuale, aborti e via disperando, scopre di avere il cancro? Alla resa dei conti, anche lei ha fallito miseramente, mancando del tutto la felicità, pur essendovi apparentemente destinata. Sì, forse avrà avuto qualche orgasmo, ma più che altro un manipolo di maschi tarantolati le hanno ficcato il loro cazzo dentro, per il puro gusto di potersi poi vantare di aver chiavato una gran fica. Ecco, la maggior parte di noi si ritroverà così, fottuta e con un cancro, a pensare, in preda agli ultimi fremiti, “Non è possibile. Tutto sta volgendo al termine e non c’è stato realmente niente”. Siamo animali condannati alla consapevolezza, quindi alla sofferenza. Non vado avanti, ho di nuovo le lacrime agli occhi. E, comunque, non ho spiegato bene il punto. Mi sono lasciato prendere dall’emozione… Ma va bene lo stesso.

Dici la sessualità, la cosa vulnerabile del dire letterario: perché? Che valore “di rottura” ha oggi, in letteratura, il sesso, che cosa intendi ribadire?

Il sesso di per sé non ha alcun valore di rottura. Forse potrebbe averne l’erotismo – quello vero –, in questi tempi così falsamente libertari, ma a me non interessa. Io dico il sesso perché il sesso è rivelatore. Il nostro è meccanico, pornografico, un’esigenza compulsiva indotta per via televisivo-telematica, al fine di vendere perizomi, che nella maggior parte dei casi si riduce a uno scambio glaciale. Siccome volevo raccontare il presente, non potevo esimermi dal mettere il sesso in ogni pagina – del resto, è ovunque. Dovevo raccontarlo nella mesta crudezza di questo tempo così antierotico. In sintesi, non è il sesso a essere di rottura, ma lo sbattere sulla pagina una raffigurazione il più realistica possibile di come ci siamo ridotti.

Fai sempre la parte del fustigatore degli intellettuali “di sinistra”: perché? Cosa t’importa della politica?

Come potrei non curarmi della politica? Lei si curerebbe comunque di me. Oh cazzo, ho appena citato Lenin, dannazione! Scherzi a parte, la scrittura è un atto politico, come scegliere di tirare molotov, o mazzi di rose, contro una sede di partito. Sta a ognuno di noi decidere se imitare Andreas Baader, o il pakistano che cerca di farsi la giornata. Per il resto, io non ho niente contro gli intellettuali di sinistra, ammesso che appunto siano “di sinistra” e non i soliti stronzi che senza il supporto del PCI non avrebbero neppure fatto i commessi alla Feltrinelli – e mi perdonino i commessi.

Credi in Dio o va di moda credere nel niente?

Ti sembro uno che sta dietro alle mode, fossero anche intellettuali?! No, comunque, non credo in Dio e neppure mi comporto, come diceva il filosofo, come se lui esistesse pur senza avere fede. Ho una mia morale… forse, boh, non so. In generale direi che critico il mondo, ma ne sono parte. Sono insomma una mela guasta che si ribella al marciume. E guai a chi non ha niente a che fare con ciò che critica! Sarà di sicuro il più ammorbante e fasullo dei moralizzatori. Io non credo in Dio, ma il cattolicesimo non è certo una religione fessa: i santi, prima di essere tali, sono stati i peggiori peccatori. Del resto, solo un demonio posto vicino a Satana può prendere coscienza di essere all’inferno e tentare di risalire. Chi si trova già in cielo non può avere aspirazioni per l’ascesa.

Qual è lo scrittore più sottovalutato e quello più sopravvalutato?

Sai che ti dico, questa è una domanda oziosa. È pieno di sopravvalutati e di sottovalutati. Per una volta, preferirei essere costruttivo e quindi ti menziono quelli meno noti che, secondo me, meriterebbero maggiori attenzioni: tu, Francesco Consiglio, Francesco Dezio, Andrea Campucci, e pure io – che cazzo! Leggetevi le mie recensioni settimanali e troverete il resto dei nomi. Non per far capire fino in fondo che sono un pirla, ma lasciami fare un appello ai lettori: ragazzi, non esistono solo i classici, ci sono tanti esordienti e sconosciuti che non valgono meno degli altri, solo che nessuno se li calcola. Leggeteli. Il mondo letterario non si ferma nel magazzino di una casa editrice. Anzi, che si fottano tutti i magazzini pieni di Cognetti e Saviano, e le librerie che non ti ordinano il testo, anche se sei distribuito da Messaggerie, perché altrimenti è solo fatica in più. Comprateci online, nel caso, che siamo pure scontati!

Qual è l’evento che ha segnato la tua vita?

Il giorno dopo la mia prima e agognatissima volta. Sono tornato dalla tipa, convinto che da quel momento tutto sarebbe andato per il meglio. Lei declinò infastidita il mio invito. Fu allora che compresi che la gloria è un attimo, poi tutto torna come prima, se non peggio. Menzionerei inoltre il giorno in cui mia madre è morta. Sai, di solito crepa sempre qualcuno che non sei tu o chi ti sta vicino. Ecco, in quel momento ho sperimentato sulla pelle che era proprio vero quello che avevo sempre pensato in precedenza: vivi nell’infelicità e non c’è redenzione, né happy ending. No, cazzo, muori proprio e fine dei giochi. Non avrai più un altro giorno per sperare finalmente nel sopraggiungere strombazzante della gioia.

L’invidia ti pare un gesto nobile? Invidi qualcuno?

Dì la verità, questa domanda te l’ha suggerita Marzullo? Quell’uomo è un genio, ha lanciato un filone a cui tutti si sono adeguati. Senti, ragazzo mio, che ti devo dire. No, l’invidia non è una bella cosa e soprattutto quella negativa, cioè l’invidia che ti porta ad azioni di ripicca nei confronti di quelli più fortunati di te. Poi c’è un’invidia positiva che ti spinge, invece, a crearti delle alte aspirazioni. Quindi sì, invidio chi scrive meglio di me. Insomma, ti invidio, dunque spostati o sparo, così da divenire io il Mega Direttore Galattico di Pangea.news.

Quindi… che senso ha la vita?

Ho capito: Brullo e Marzullo sono la stessa persona… MARIA, IO ESCO.

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