“Ho visto i miei compagni fatti a pezzi”. Brandelli di Aragon: comunista & patriota
Letterature
Fabrizia Sabbatini
“Quando penso che questa donna è morta senza che io abbia potuto rivederla, e che non la vedrò mai più; (…) Morta, morta! E pensando a me, scrivendo e pronunciando il mio nome”.
Nel ricordo mi pare che avessi vent’anni.
Il 5 dicembre del 1989 la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo venne occupata dagli studenti. La causa dello scontento fu il progetto di riforma dell’allora ministro dell’Università e della Ricerca, Antonio Ruberti, che avrebbe permesso alle università di avvalersi dei finanziamenti privati. Fu in quel contesto che nacque il Movimento studentesco della Pantera. Il secondo anno universitario lo trascorsi così nei locali occupati della facoltà, smarrita tra fax e assemblee studentesche. Timida semimatricola proveniente da un opulento istituto religioso, osservavo i miei colleghi disegnare e decorare i muri bianchi della facoltà con lo stesso stupore incredulo di chi scopre la vertigine della trasgressione. Insieme ai soprusi, venivano purtroppo sospese anche le amatissime lezioni di archeologia. Mi iscrissi nella lista di chi desiderava fare le notti. Dovendo scegliere, preferii aggranchirmi sulle sedie con ribaltina nell’aula del mio adorato Professore di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana. Una notte dormii con soddisfazione in quella di Topografia dell’Italia Antica. Una vera goduria!
Eppure, nonostante le numerose angherie che a quanto pare subivamo, i corsi mi mancavano. Mi mancava studiare e lavorare a un progetto. E per quanto ammaliata dalle dinamiche del Movimento, rifiutavo di uniformarmi del tutto: continuavo a trovare alcuni murales decisamente orrendi ed un certo ripudio della cultura classica, liquidata in blocco come “borghese”, fin troppo superficiale (c’è qualcosa di più rivoluzionario di Mozart?).
D’altra parte, come non assaporare l’inedita ebbrezza della libertà e dell’emancipazione da ogni forma di controllo, che non è anarchia, ma possibilità di autodeterminarsi, di stabilire dei limiti nel modo più didattico possibile, quello in cui si è liberi di sbagliare?
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Quell’anno cambiai anch’io e più profondamente di quanto non avrei mai pensato. A scuola, dalle suore, avevo intuito la distanza profonda che separa Cristo da chi di Cristo disserta. All’università trovavo infine conferma del fatto che una contraddizione sociale deve essere necessariamente risolta per diventare giustizia, perché se negata, diventa sopruso.
Fino a che punto fra tali contraddizioni rientrasse la questione femminile, invece, non mi era ancora chiaro del tutto.
Accadde durante l’occupazione o, forse, immediatamente dopo. Ricordo il teporino di Palermo che diffondeva il profumo di fiori e di forni, di aver portato grandi orecchini, voluminose giacche, pantaciclisti, collant e stivali marroni. E di avere avuto vent’anni.
Lo avevo trovato per caso fra le riviste di mia madre quel libricino che mi cambiò la vita. Il settimanale GENTE lo aveva dato in omaggio con il numero 16 del 1990 (forse Aprile?). 174 fittissime pagine di solo testo, senza introduzione, stampate in una minuscola edizione dorata dal frontespizio verde. “La Signora dalle Camelie” – edizione integrale, tradotto dal francese da Francesco Tarquini. Presa e persa in quel periodo nell’austerità dell’espressionismo tedesco, faticavo a rallegrarmi del lirismo patetico che goffamente attribuivo ad Alexandre Dumas figlio. Della trama ne conservavo un vago ricordo associandolo a qualche soporifero sceneggiato della Rai. Nella mia testa le vicende di Marguerite, la protagonista, si mescolavano a quelle note della più celebre Violetta. E sono certa che avrei finito per dimenticarmene se il mio amico non fosse arrivato in ritardo.
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Avevo appuntamento a casa sua quel pomeriggio. Dopo aver legato il motorino ad un albero, gli citofonai. Aspettai qualche minuto e mi resi subito conto dell’equivoco. Ci sarebbero volute ore perché Filippo arrivasse. Quando qualcuno aprì il portone, sgattaiolai all’interno del palazzo di mattoni e travertino. Rassegnata, tirai il libro fuori dalla borsa. Avrei atteso ai piedi dell’ascensore, appollaiata su un imponente gradino di marmo bianco. Fu lì che cominciai a leggere, certa di far scivolare presto il segnalibro alla fine del primo dei ventisette capitoli.
La voce vibrante che, pur estranea ai fatti, li deplorava, mi sedusse sin da subito. L’autore cominciava narrarando una delle vicende più tristi cui avesse assistito: la tragica morte della giovane Marguerite Gautier e la macabra asta degli oggetti personali del suo appartamento parigino che ne era seguita giorni dopo. Il passaggio leggiadro e spontaneo dalla prima persona (quando l’autore comincia a raccontare di sé) alla terza (quando l’autore racconta con dovizia delle vicende di Armand, il protagonista), per approdare con scioltezza al racconto diretto della vicenda fatto da Armand stesso all’autore, e giungere infine all’ineccepibile forma epistolare (è attraverso le lettere scritte da Marguerite morente che Armand ne scopre con orrore il sacrificio) mi rapirono immediatamente. Dimenticando tutto il resto e persino me stessa, lessi per ore su quel gradino, con il fiato sospeso, tutto d’un fiato, smemorata del mondo. Era la storia più triste che avessi mai sentito. Dumas assicurava trattarsi di un fatto realmente accaduto, cosa che rendeva la lettura ancor più straziante. Fu solo molto dopo che appresi di come lo scrittore si fosse ispirato alle tristissime vicende di una certa Marie Duplessis (questo il nome con cui era conosciuta), cortigiana (questo il nome con cui venivano indicate le ragazze come lei), morta a 23 anni di tubercolosi a Parigi il 3 febbraio del 1847. Alphonsine Plessis (questo il vero nome) nata in Normandia da una famiglia di contadini, era giunta a Parigi all’età di 14 anni. Intelligente, sveglia e raffinata, Marie aveva liquidato Alphonsine reinventandosi e riuscendo anche a farsi una solida cultura grazie al sostegno economico di certi ricchi signori. Tanto per capirsi, mentre oggi mia figlia prova soddisfatta allo specchio la maglia blu invece di quella bianca e non sa decidere che libro comprare in libreria, alla sua stessa età Alphonsine barattava il proprio corpo con uno scialle di merletto e un libro di Rablais (uno fra i 212 volumi presenti nella sua biblioteca al momento dell’asta insieme a quelli di Marivaux, Victor Hugo, Lamartine, Eugène Sue, Walter Scott, Don Quichotte, La Nouvelle Héloïse, Les Mille et une Nuits. Pare ce ne fosse persino uno di Alexandre Dumas!).
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L’epilogo del libro mi provocò un tale, lacerante dispiacere che a stento riuscii a rimettermene. “Ora che sto per morire, nonostante quel che mi dicono i medici, perché ne ho più di uno, il che dimostra che la malattia peggiora, quasi mi pento di aver dato ascolto a tuo padre; se avessi saputo che non avrei sottratto che un anno al tuo avvenire, non avrei resistito al desiderio di passare quest’anno con te, e almeno sarei morta stringendo una mano amica. È vero che se avessimo vissuto insieme quest’anno, non sarei morta così presto”. Scrive Marguerite in fin di vita ad Armand senza sapere se questi leggerà mai le sue ultime, afflitte parole. Nella Traviata, Violetta spira fra le braccia di Alfredo che scopre in tempo il sacrifizio cui si è votata per salvare l’onore della sua famiglia, e facendogli credere di averlo lasciato per il barone. Marguerite muore invece sola, vittima di una rinuncia che non solo provoca una recrudescenza del male, ma la vitupera fino all’ultimo respiro. Muore senza perdono, nella speranza di riceverne uno postumo.
Per anni mi sono chiesta quante Marguerite, Alphonsine o Violette vengano ogni anno spazzate via da una società incapace di affrontare i termini di un unico, vero problema, quello della mercificazione del corpo femminile che la nostra cultura si compiace ancor oggi di sminuire, ignorare, giustificare o persino esaltare. Dopo trent’anni alla sola idea mi contorco ancora di sdegno.
Debbo così tanto a quella lettura che la donna che sono oggi non sarebbe mai stata altrimenti. E solo adesso, nel riprenderla per scrivere questo articoletto, mi rendo conto di quanto la trama de L’oscura allegrezza ne sia debitrice.
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All’inizio del libro l’autore racconta che andando in prefettura a ritirare il passaporto, vide una ragazza trascinata da due gendarmi piangere a calde lacrime stringendo a sé un bambino di qualche mese dal quale l’arresto la separava. “Da quel giorno”, aggiunge, “non ho mai più disprezzato una donna dalla prima impressione”.
Lessi questo libro trent’anni fa, ma la gravità dell’intreccio continua ad accompagnarmi oggi con immutata consapevolezza, qualsiasi cosa faccia, con chiunque mi trovi, ovunque vada. Leggerlo ha determinato in me la differenza fra il prendere posizione e il far finta di niente.
È da quel giorno che ho deciso di schierarmi per sempre dalla parte di tutte le Marguerite del mondo.
Manuela Diliberto
*In copertina: Giovanni Boldini, “La marchesa Luisa Casati con piume di pavone”, 1911/13