“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Non sembri paradossale quanto enunciato nel titolo di questo succinto scritto: Michel Houellebecq, il celebre romanziere à-rebours (Huysmans è, non a caso, il referente letterario del protagonista di Sottomissione), dismesse le vesti del prosatore, si abbevera alla fonte dei classici francesi del XIX secolo.
In Configurazioni dell’ultima riva(e, per estensione, l’intero corpus poetico houellebecqiano), l’ultima, acherontica raccolta poetica pubblicata nel 2015, l’eco di Baudelaire e di Verlaine risuona sotto ’l velame de li versi strani.
Quel che distingue un classico dagli autori a lui contemporanei è l’abilità di contemperare uno sguardo nuovo, originale, sul mondo e tramutarlo alchemicamente in paradigma. L’inattuale è, per via tautologica, fuori dal proprio tempo, asincrono. E la forma classica, ancorché declinata su topoi postmoderni, è il medium più soccorrevole per trascendere il qui e l’ora delle moltitudini.
Quartine di impianto alessandrino, il metro più frequentato dai poeti francesi, descrivono un itinerarium mentis in nihilo, costellato di vuoti, di insignificanze:
«Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».
L’irreparabile, questa agnizione del commiato che innerva l’essere umano, è il centro espressivo, la scaturigine delle inquietudini del nostro presente, minacciato dall’oblio e dalla Caduta nei recessi della storia quasi la storia si potesse compulsare alla stregua di un catalogo Ikea, che incanutisce e si fa obsolescenza:
«Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi, / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione».
Con moto di fuga accelerato il postmoderno espelle il sacro, reificandolo a dogma, sia esso cristallizzato in un religioso ormai kenotico, svuotato del suo nucleo ancestrale, sia esso elevato ad un fideismo ultra-positivista. Quell’horror vacui di cui si sostanzia il cielo dell’azzardo pascaliano è ricondotto a disegni algebrici che ingannano l’occhio come il peggiore dei trompe-l’œil, un diorama per piccoli titani:
«Sparita ogni credenza / che faceva edificare / essere e santificare, / abitiamo l’assenza».
Houellebecq non si nasconde: l’assenza, si licet, è un travisamento del reale, di un reale che proprio in quanto vacuo offre in olocausto il divertissement. Veniamo così sospinti nel paradosso celebrato da Baudrillard, quell’interstizio, quel discrimine che tocca e al contempo separa il reale dal sur-reale. Quale realtà è reale? Quella del campo di senso comune – vegetare in appartamenti prefabbricati, condurre esistenze larvali tra gli scaffali dei supermercati, marcire in monolocali stipati delle più recenti fantasmagorie tecnologiche – o, piuttosto, quella del discernimento stranito, della lucidità nevropatica che squarcia il sipario sulla desolazione del vivere?
«Mi disprezzavo tanto che volevo morire, / o vivere momenti forti ed eccezionali; / oggi mi sforzo di non soffrire troppo, / mi avvicino alla fine. Raggiungo il reale»
L’autore francese è così il cantore dell’estraneità: in primis del reale al proprio significato. Il reale, oggi, ha abdicato al virtuale. Una estraneità che non scioglie, da non confondere con la ricercata indifferenza buddhista, ma si coagula nella stagnazione, economica ed esistenziale, degli istinti vitali:
«I piccoli oggetti puliti / traducono uno stato di non essere. / In cucina, con il cuore stritolato, / aspetto che tu voglia ricomparire. / Compagna accovacciata nel letto, / più cattiva parte di me stesso / passiamo brutte notti, / mi fai paura. Eppure ti amo. / Un sabato pomeriggio, / solo nel rumore del boulevard. / Parlo da solo. Che cosa dico? / La vita è rara, la vita è rara».
La possibilità di un’isola che ancora si dà ma per sottrazione. Isola che non c’è, utopia o meglio ancora ucronia. Così come s’addice ad un classico del nostro tempo.