Dei poeti non si dica imitazione, bensì corsa – l’inimitabile.
Ciascun poeta ha i propri cari poeti, quelli con cui spezzare le notti: il perpetuo pasto. Hanno, questi poeti, d’altra lingua, d’altro continente, d’altra epoca, la virtù degli amici – guai a crederli domestici. Tanto meno onomastici. Un poeta non si ammansisce: azzanna.
A volte tale affinità si fa famelica, diventa minaccia.
Assiduità senza assoluzione.
Così è accaduto, sembra, a leggere gli scarni lacerti biografici, a Nilgün Marmara, poetessa turca dal talento prodigioso, ossessionata dall’ombra di Sylvia Plath.
Nata a Istambul il 13 febbraio del 1958 da immigrati bulgari, dell’infanzia ricordò i lied di Schubert, l’oceanica biblioteca, i trasognati pomeriggi, traslitterando l’ozio in scritture falena. Aveva una sorella. Dicono della sua bellezza, aurorale – che spesso, quando è cristallina, installa in una inquietudine che toglie il sonno. Studiò nel liceo più prestigioso di Istanbul, perfezionandosi alla Boğaziçi Üniversitesi. Nel frattempo, lavorava. Prima sbrigando lavori di segreteria per alcune aziende turche, poi in un’agenzia pubblicitaria, infine presso il consolato egiziano. La poesia agiva in lei con la tracotanza di un enigma.
La poesia di Nilgün Marmara, cioè, appare sorgiva nei canoni della lirica turca: troppo femminea, troppo lunare, immersa di mestruo, troppo sfacciata. Opera in altri ambiti, con attributi di alterità: alle aule letterarie, preferisce i corpi, lo scandalo della vita. Poesia, dunque, che non contempla: dissangua. Dissipa.
Nilgün Marmara si laurea nel 1985 con una tesi su Sylvia Plath e sulla “Poesia nel contesto del suicidio”. Già qui è chiaro tutto: la diagnosi, la dinamica, l’obbrobrio. Non c’è modo di virare dal trionfo dei segni: Nilgün Marmara, in sostanza, si crede la reincarnazione di Sylvia Plath. Ne ritrae i toni, ne sviscera le nottole biografiche: se ne nutre. Ma chi crede di nutrirsi dei morti, in verità, se ne fa fausto cibo. La depressione, poi, reclamò il resto.
Non si dica, ancora, di imitazione. Il poeta per non insuperbirsi ha bisogno dell’insuperabile. Non imita: se ne pittura il volto. Colloca la stella all’altezza della spalla.
Nel 1982 aveva sposato un ingegnere con sensibilità per la poesia, Kagan – lui la portò con sé, per un anno e mezzo, in Libia. Per lei, aveva animato un circolo letterario. Nella loro casa si riunivano, in austero cenacolo, i nuovi poeti, impegnati a rinnovare le forme della tradizione lirica turca. Dicono di Nilgün che fosse glaciale; un’estremista negli affetti. Scriveva i suoi testi su una macchina da scrivere, reticente a mostrarli, a leggerli in pubblico, a pubblicarli. La chiamavano “Zelda”, come la moglie di Fitzgerald; lei sapeva di essere Sylvia, ma se ne compiaceva – finché i grifoni del male non tornavano a ustionarla.
Si vedeva volitiva, a volte; senza volto, altre volte. Alcuni dicono – per prossimità geografica e cardinale, lattescente innovazione dei temi e dei toni – che sia prossima a Forough Farrokhzad; l’indole lirica, piuttosto – specie nelle furenti prose – ricorda Alejandra Pizarnik.
Pressoché inedita – d’inaudito portamento poetico, malaccetto, a tratti – Nilgün Marmara, quasi naturalmente, si direbbe, se non fosse innaturale l’atto, d’inattingibile dolore, si ammazza, il 13 ottobre del 1987. Aveva 29 anni. Volò dal balcone di casa. Al marito scrisse di prendersi degli uccellini – squillavano, in sala, senza accorgersi che la padrona, la ragazza, non aveva ali. Gli scrisse che gli uccellini avevano bisogno d’acqua. Gli scrisse, “non volevo darti un peso del genere, ma sei intelligente, sei forte, sei uno che dimentica velocemente”.
Come sempre, cercarono colpevoli – accusarono il marito. I diari, laceranti nel loro splendore, testimoniano di una donna anomala; e che si scrive, sempre, a un filo dall’aldilà. Le sue poesie – pubblicate in Turchia dalle edizioni Everest –, come si dice, hanno fatto scuola, hanno svasato il canone entro vie fino ad allora mai praticate – la sovversione delle corrispondenze e delle allusioni, il veleno del puro individuo, senza individuarne il crotalo ego.
Troppo arduo interpretare le manovre oniriche: meglio lasciarli così, quei versi, su un velo, infanti e fatali, fetidi e nudi, che ancora gridano.
***
Nilgün Marmara (1958-1987)
Scarlatto
Tristezza è scarlatta; il suo termine:
scarni brandelli di fringuello morto.
L’orologio batte sull’argine della strada
siamo accerchiati mentre accerchiamo
la nostra vita.
Pancia vuota, desto cervello deserto
bocche in una pozza di calce
ed è spezzato, ovunque, il sentire.
Il bastone che ha reso nobile questa
vita è in esilio, esausto.
Dilagano spazi finestre in vedovanza
nessuno sa più addestrarle
le stelle sono ghiaccio
sull’acqua, scarlatta.
*
Salamandra
Negli ambigui inverni dell’acqua
nuota da secoli una salamandra:
è cieca.
Ogni notte, certa di ciò,
sulla parete della caverna
una schiava blu mette a dormire la propria ombra.
Danzano nell’oscurità i monti della schiava:
così le ali continuano a dilatare il sogno
così la schiava resta sola contro la parete
e la salamandra continua a nuotare senza meta.
Cieca salamandra!
A forza di agitarsi, le mani si consumano.
Quella testa senza occhi sarà strappata
ma le sue mani sono occhi – e i suoi occhi, mani.
*
Gabbiano in mezzo ai drappi
Su quell’atlante di nebbie, i continenti
sono case che puzzano di muffa
intonacate con il sangue di trafitti gabbiani.
Uno si volta, è goffo
è entrato per sbaglio nella sala:
confronta il cadavere del mondo che reca
sulle sue ali con ciò che accade lì dentro.
Per strada, i bambini giocano
giochi rossi e verdi,
patetici ricami della sfrenata libertà!
Il corpo martoriato del gabbiano cade.
L’amore è un drappo
un piccolo mare conteggiato dalle sue mura!
*
Io e il mio uccellino dormiamo profondamente
uno specchio ci ritrae, il letto è la nostra gabbia:
uno nell’altro si riflettono i nostri volti
dormiamo sotto la neve che eternamente crolla
io e il mio uccellino.
Un nastro cremisi ci lega – io e il mio compagno
siamo una sola cosa.
Povertà magnifica la separazione. Questo vorrei dire.
Ma nello specchio non c’è altro oltre a questo legame…
questo legame cremisi che unisce il mio compagno
il mio uccellino e me.
*
Fiori appassiti
Vorrei nascondermi dentro bulbi ultravioletti.
Abbassare il cranio sotto i petali.
Dimenticai la lira nel campo dei fiori appassiti
da vivaci toni appassionati.
Fragile mano, nulla afferra
nulla riceve.
Si è ripetuto il ritorno.
Degustammo vino in coppe spirituali.
Non fummo di quelli che dimenticano – ma che tutto
ricordano: gli eroi ribelli dei grandi libri
giunsero in silenzio, senza che li chiamassimo.
I nomi ci hanno confuso, ma le anime
erano prossime, a noi vicine.
Il crogiolo di un sorriso, a tratti
la benedizione
mista all’insondabile vertigine del vento.
Accennammo con familiarità.
Non puoi penetrare il cielo
preferisci le inibite nubi.
Tremai, ci sostenne la paura:
pensai che morissero tra i cristalli
i piccoli cuccioli immaginari.
Li abbiamo avvolti in lazi azzurri
con ogni tenerezza curati.
In questi segreti riti senza razza
abbiamo sorpreso senza saperlo
la minaccia di esodo-espansione-estinzione.
Il rosso trasparente si è disperso nell’arcobaleno.
Eravamo colpevoli – lo sappiamo.
*
Volatili sul cammino
Un corvo invitò il gatto a un gioco di morte. È sempre così?
Fuggo da qualcosa, da qualcosa senza incontrare me stessa, senza riuscire ad ambientarmi, senza trovare il mio luogo, un luogo per me sola. Ho ricoperto la parte interna del cranio con gli specchi per avere un po’ di pace, così che il mio io morto potesse ammirarsi ovunque, grazie a quel segugio segreto! Non sono altro che una ragazzina inferma che ha fatto del panico la propria marionetta. Guarda come si diverte da sola, la ragazzina, il cui sole è la solitudine, il cui gioco è il panico.
Perché non vuoi che mettano volatili sul tuo cammino?
Perché non permetti agli uccelli di ostacolarti?
Perché nessuno si fa intralciare dai rapaci?
“Sei così bella
dovrebbero gettare uccelli al tuo passare”
disse un bambino.
*
Il tempo, il luogo, il poi
Per secoli, ci ha protetti la luna; ci siamo nascosti dietro vetri appannati, dietro volti corrotti. Altri parlino di civiltà, ignorando che il crollo è un passo verso il futuro incalcolabile. Temiamo la semina, l’indifferenza del mondo allevia i nostri corpi; mentre lo sguardo è rivolto al cielo, il cuore resta pieno di vento, freddo.
Ogni tintinnio è una secchiata di ansia sulle spalle; la terra inalterabile, le palazzine perenni e le minacce, pari agli esigenti desideri di una madre. Le antiche lettere nascoste nella ragnatela svelano il dubbio e il rancore. Ricordiamo ancora le case bianche di una volta, che aprivano il grembo con generosità: la fine fu rimpiazzata dall’annuncio di labbra provenienti dalle vere dimore dell’aldilà.
Bellezza che incornicia la nostra solitudine, i cui cardini sono forgiati dal dolore: bellezza, custode della polvere e della pietra, del passato e del presente! Vogliamo che il nostro esangue sussiego non si esaurisca per non recedere dalle elette occupazioni della vita. Purifichiamoci, purifichiamoci dalle corruzioni di questa spicciola terra spericolata, dalla sua ostentata oscenità; purifichiamoci al lemma dell’amore.