26 Settembre 2022

“E lasciatemi divertire!”. Omaggio a Domenico Ferla, il poeta manicheo

Il 31 dicembre 2021 è morto un poeta. È morto Domenico Ferla.

Se qualcuno mi domandasse perché io mi sia deciso a ricordarlo soltanto adesso, gli replicherei chiedendogli a mia volta perché egli non mi abbia anticipato. Soprattutto lo chiederei agli amici e ai cosiddetti “congiunti”, il cui silenzio agghiaccia, e temo agghiaccerà ancora a lungo.

A Ferla debbo parecchio, e chiunque gli sia stato vicino, aprendo gli orecchi e ignorando un carattere non sempre morbido, ne ha tratto immenso beneficio.

Ferla era uno dei massimi conoscitori di letteratura italiana che mai in una vita si potrebbero incontrare e aveva una predilezione per gli autori pretesi “minori”, dei quali andava alla caccia, tra biblioteche e bancarelle, con il talento di un rabdomante e una passione da vero invasato, nel senso migliore della parola.

Domenico Ferla è morto il 31 dicembre 2021

C’è un episodio meraviglioso da raccontare, che dice moltissimo di Ferla. È in un giardino e sta leggendo un’opera di Giambattista Marino, composta in una forma rara, non ricordo oltre purtroppo. Alza gli occhi e vede Giorgio Barberi Squarotti, un baronazzo delle lettere italiane. Ferla infila il libro in borsa, raggiunge il professore, strano, attacca bottone. È tutto entusiasta per quel Marino, appena scovato in biblioteca. Il docente lo conosce, Ferla, tutti lo considerano un matto, un esaltato, un piantagrane, e cerca di scantonare, ma Domenico è ostinato e lo placca, chiedendogli un parere su quello strano titolo del poeta napoletano. A quel punto Squarotti è felicissimo e sa come liberarsi di Ferla. Si fa una risatina sussiegosa e gli dice: «Non risulta che Marino abbia mai scritto un’opera in quella forma». Ferla si gela, lo guarda per qualche secondo, l’altro fa per andarsene. «Mi scusi, professore… E questa cos’è?». Squarotti si gira, Ferla ha estratto il libro e lo tiene in mano, davanti al naso del barone, che prende il testo, lo sfoglia, poi lo restituisce. «Peraltro viene dalla biblioteca della sua facoltà, professore», aggiunge Ferla. Il professore fa spallucce e mentre se ne va bofonchia: «Mah!… Che vuole… È senz’altro un’opera minore. Stia bene!».

Ferla aveva imparato a leggere con discreto anticipo rispetto agli altri bambini grazie all’attenzione di un nonno cieco e, sempre grazie a quest’ultimo non meno che a un’evidente congenita tensione, si era ben presto immerso nella letteratura e in particolare nella poesia.

La poesia era la casa di Ferla, anzi il suo regno e ciò poiché egli era poeta ancor prima di iniziare a leggere o a sbozzare i primi versi. Egli vedeva da poeta. Il suo eloquio, le sue immagini, la sua straordinaria intelligenza ricreavano il mondo o vi si immergevano sondandone i meandri, oscuri a tutti gli altri, portandoli alla superficie. Avresti potuto osservarlo dietro a un vetro spesso e i suoi occhi ti avrebbero indotto a sospettare che quell’uomo stesse vedendo qualcosa che proveniva da lontano. Domenico Ferla era un veggente.

Voglio ricordare uno dei molti momento dorati con lui.

Aveva spodestato dalla sua stanza il custode dell’università, in via Po a Torino, e aperto i Canti di Leopardi su Consalvo, una delle poesie meno frequentate.

Dovrei parlare di «lezione magistrale», ma sarebbe riduttivo: non ci siano parole per esprimere il turbine di forza, passione, perspicacia che si scatenò in quei lunghi quarti d’ora.

Ferla possedeva la rara capacità di saper leggere. Goethe, se la frase non è spuria, a ottant’anni diceva di non essere ancora sicuro di aver imparato a farlo. Forse uno dei rari momenti di modestia dell’olimpico. Ferla invece ce l’aveva, eccome. Era una magia seguire un testo accanto lui. Notava sfumature, connetteva passaggi da un libro all’altro, intercettava dettagli.

Leopardi era uno dei grandi amori di Ferla. Ne conosceva, sovente a memoria, intere pagine ed era furibondo con l’accademia, con la critica, con la scuola, insomma con tutti, per il trattamento riservato al maggior poeta e filosofo dell’Ottocento italiano. Ascoltare Leopardi letto e raccontato da Ferla significava ascoltare un Leopardi vivo e pulsante. Ma era così per qualunque autore o argomento, su cui egli indugiava ora con amore sfrenato e sincero, ora con odio e disprezzo.

Ferla aveva nella mente due libri, meditati sin da giovane: uno su «Leopardi, poeta felice» in cui avrebbe voluto dimostrare l’esatto contrario di quanto anche la critica meno vieta e scontata, pur con decenni di ritardo, si barcamenava a biascicare. Ne aveva tutte le carte, Ferla. L’altro era un «Anti-Parnaso», che l’importante e sveglio editore Luigi Spagnol gli avrebbe pubblicato a scatola chiusa. Esso si incaricava di fare il controcanto al canone ufficiale della poesia italiana, adunando una messe di poeti rari, evitati, rimossi, a giudizio di Ferla sempre o quasi sempre con dolo o per ignoranza. Un esempio: alle «tre corone» Carducci-Pascoli-d’Annunzio, Ferla avrebbe voluto opporre o affiancare la triade Rapisardi-Graf-Cesareo. Ho la certezza che un lettore curioso si renderà ben presto conto di quanto abbia perduto quando vorrà aprire le Poesie religiose o il Giobbe di Mario Rapisardi, o la Medusa e il saggio Per una fede di Arturo Graf.

Né l’«Anti-Parnaso», né «Leopardi, poeta felice» Ferla avrebbe però mai scritto, fatto salvo qualche appunto. (Avviso: mi informano che la vedova di Ferla ha intenzione di pubblicare i frammenti dell’«Anti-Parnaso», completandoli lei stessa: suggerisco di scantonare).

Il motivo di questa assenza è da ricercarsi nella biografia di Ferla, che qui ovviamente non posso raccontare per esteso. Mi limito a dire che Ferla era un sopravvissuto, a sé stesso e a molti naufragi, che contribuirono ad aggravare un temperamento esacerbato in maniera talora parossistica.

Fatti gli ovvi distinguo, Ferla può essere accostato in tal senso a un altro marginale, sebbene in misura assai minore, delle nostre arti: il direttore d’orchestra Franco Ferrara, i cui nervi non soccorrevano a un’intelligenza musicale di sconcertante penetrazione e a un orecchio pressoché impareggiabile. Ogniqualvolta (le eccezioni furono rare) Ferrara saliva sul podio, era colto da crisi epilettiche. C’è un bel passo su di lui in Virtù dell’elefante di Paolo Isotta, molto utile. E tanto per dire quale qualità musicale abitasse Franco Ferrara, basteranno, oltre alle poche incisioni e al Bruckner per Luchino Visconti, il giudizio ammirato e l’amicizia di Sergiu Celibidache, il direttore d’orchestra più esigente e più sprezzante della storia (e uno dei due o tre più giganteschi).

Per quanto simili paragoni siano rischiosi e forse arbitari, non mi trattengo davanti a un secondo e per altri motivi accosterei Domenico Ferla a Dino Campana. Più volte leggendo La notte della cometa, splendido libro di Sebastiano Vassalli sul «matto di Marradi», ho rivisto Domenico Ferla: nei gesti inconsulti e bizzarri, nella vita travagliata e nel destino infame, riservatogli persino dalle persone a lui più vicine, e naturalmente nel genio.

A raddoppiare il vulnus di Ferla c’era in lui un rigetto del mondo, maturato in seguito alle esperienze politiche degli anni Cinquanta e Sessanta, dalle quali si distaccò disgustato, per poi fare la scoperta fatale della Gnosi e in particolare del Manicheismo, a cui aderì con la fedeltà propria dell’eretico.

Fu principalmente quella visione dell’esistente a guidarlo nelle sue ricerche letterarie, insieme alle filosofiche. Per Ferla era indubitabile: il mondo era una commistione di tenebre e di luce, giusta la dottrina manichea, e ciascuno dei due principii aveva i suoi partigiani e i suoi campioni. La creazione intera è un orrore, una escrescenza arcontica entro di che dimorano imprigionate particelle di luce, ove più, ove meno: e Domenico Ferla era alla loro ricerca e le vedeva manifestarsi in poeti, filosofi, romanzieri, studiosi, film, et coetera.

Invero Domenico era manicheo ben prima di incontrare la Gnosi. Avvenne attorno ai suoi quattro o cinque anni, una precoce rivelazione. Fuori imperversano la guerra e gli scontri tra tedeschi, fascisti e gli altri, e suo padre Vittorio è per uscire di casa, quando la madre cerca di trattenerlo: «Resta qui, ti prego! È pericoloso!». Era la stessa donna che poco prima o poco dopo avrebbe tentato di aprirgli il cranio con un’ascia, davanti al figlio. Durante la malattia che inchiodò Ferla a una carrozzina negli ultimi diciassette anni della sua esistenza terrena, un giorno nella sua casa grondante di libri mi disse: «Fu allora che capii che il mondo e gli uomini sono governati da due principii».

Tanto per dire genio e carattere di Domenico, valga la scena a un esame di letteratura italiana al primo anno. Interrogava Giovanni Getto, uno dei due o tre critici italiani più celebri e stimati, allievo di Luigi Russo, linea crociana insomma. Ad ascoltare quel ragazzino magro e stazzonato, dagli occhi allucinati e dalla facondia inarrestabile, dotato di un bagaglio di conoscenze sconvolgenti soprattutto per l’età, Getto lo proclamò davanti a tutti suo assistente. Ferla tacque, poi si alzò e disse pressappoco, in crescendo: «Vi ringrazio, ma tenetevi la vostra nomina. Io sono qui per fare esami e basta perché dicono che debbo farli. Ma io non mi presterò mai a servire la mafia universitaria. Avete fatto sparire i più grandi poeti e scrittori, per poco non finiva nel dimenticatoio anche Leopardi! E io dovrei servire questo porcile? Andate al diavolo!». E prese la porta per non rimetter mai più piede all’università.

A sigillare pubblicamente l’adesione alla Gnosi manichea, fu una lamina poetica uscita nel 1979 per l’Erba Voglio di Elvio Fachinelli, la stessa dei Minima (im)moralia, completamento della versione censurata dall’Einaudi degli aforismi di Adorno. Si intitolava La casa di Arimane, dal nome della divinità malvagia nella religione zoroastriana. Poche, brucianti poesie, seguite da una manciata di estratti da testi storici e filosofici sul dualismo religioso.

Il libro valse a Ferla il plauso di molte riviste nazionali e di non pochi intellettuali dell’epoca, che lo consacrarono, posto che ve ne fosse bisogno, quale nuova e straordinaria rivelazione poetica.

Negli anni della malattia Ferla mitigò un poco la sua veemenza contro il mondo, pur sempre ostile e nemico. Egli era giunto a una sorta di arrendevolezza, e l’odio aveva in parte lasciato spazio a una più luminosa Suprema nostalgia, come suona la seconda e ultima raccolta di versi, uscita nel 2016 per l’editore milanese Colibrì.

Tra le scoperte lungo gli anni c’è senza dubbio Piero Martinetti, filosofo grande e neglettissimo, per il quale Ferla aveva un’ammirazione sconfinata, anche per esser stato Martinetti il primo e forse unico filosofo a riconoscere nel dualismo gnostico la fonte della vera sapienza, lo scioglimento dell’enigma del mondo. Ma sono innumeri gli autori, anche stranieri, letti e riletti o scoperti da Ferla. Voglio ricordare ancora la sua passione per la poesia dialettale, che peraltro egli adopera ampiamente proprio nella Suprema nostalgia, reinventando il linguaggio.

Non vorrei tuttavia dare l’impressione che Domenico Ferla fosse un torvo: egli era anche capace di ridere e di motteggiare. Una risata perlopiù amara o sarcastica, irriverente, schifata, degna di un Rabelais, uno Swift, un Céline, autori amatissimi.

Ricordo un’uscita irriverente e spassosa contro Wojtyla, allora pontefice, per non so qualche documento o discorso che aveva disturbato il manicheo Ferla, che di botto scosse la testa con un sorriso appena accennato e riferendosi al sacchetto per raccogliere le feci che avevano messo al papa, disse: «Ma poi!… Il vicario di Cristo ha il culo di plastica!».

Non è affatto un caso che una delle forme letterarie e direi filosofiche predilette da Domenico Ferla fosse la Commedia dell’Arte. Le maschere della tradizione italiana, gli autori antichi e moderni (amava moltissimo Raffaele Viviani) erano per lui una fonte di gioia e di ispirazione e trovava intollerabile che la critica e i lettori trascurassero questa forma artistica superiore, di cui egli conosceva, ancora una volta, ogni opera, ogni studio.

Quando gli feci visita una delle ultime volte insieme alla mia compagna Erika, era già molto allo stremo ma ancora abbastanza lucido e sempre più sorrideva. Mentre conversavamo eruppe ridendo di gusto: «E lasciatemi divertire!». È il verso di una poesia di Palazzeschi. E con Erika si mise poi a parlare, per come ancora potesse, dello scrittore fiorentino, suggerendole di leggere Le sorelle materassi. Sfruttando proprio quel momento volli intitolare «E lasciatemi divertire!» il libro scritto in occasione degli ottant’anni di Domenico (maggio 2019), che si incaricava di radunare, fin dove la memoria mi soccorresse, l’eredità di Ferla e due decenni di colloqui e amicizia. Un libro che però non ha mai visto la luce: dopo una iniziale entusiastica accoglienza, Renato Varani, lo stesso editore della Suprema nostalgia, dovette recedere per sopraggiunte difficoltà economiche, nonostante egli fosse e ancora sia predisposto al meglio verso Domenico. Nessuno alzò un dito per contribuire alle spese e lo storico Romolo Gobbi, sodale di Ferla sia dagli anni Sessanta, dopo essersi generosamente fatto avanti pur senza essere richiesto in alcun modo, fece senza alcun motivo marcia indietro, ritirandosi nel nulla che gli è proprio. Non sarebbe nemmeno andato al funerale dell’amico.

In seguito, così come anche dopo la morte di Domenico, si sperò nell’aiuto, più naturale e doveroso, della vedova: ma per una forse eccessiva educazione pubblica, preferisco non commentarne il comportamento.

Mi rammarico di questo fallimento non tanto perché un mio libro resterà nel cassetto (non è d’altra parte l’unico), quanto soprattutto ovviamente per Domenico Ferla, il quale, più ancora di molti autori amati o scoperti o riscoperti da lui, è destinato all’oblio. E questa volta non per colpa di estranei. È stato l’ultimo naufragio di Domenico Ferla e le tenebre sono scese sulla cometa.

*

Frammento de La Forca da La casa di Arimane:

è bello lasciarsi morire di fame
si muore lentamente
tranquillamente
come si spegne una candela a cui venendo
meno il nutrimento sovrabbondi
non soffri perché sei tu che lo vuoi
vuoi soffrire e finalmente non soffri
vuoi morire e finalmente non sei più morto
finalmente sei vivo
tutto frutto di fichi
del resto sarebbe così semplice
sulle colline dell’Alta Langa
il cibo è lì a portata di mano
cotto in stufe a legna
basterebbe allungare la mano
a raccogliere le frutta
da alberi inesistenti
ma tu non l’allunghi
perché ne hai una nausea una nausea
esente da coloranti e additivi
che preferisci ecco lasciarti morire
sei lì da solo disteso
non ti muovi non fai più male a nessuno
finalmente
se non fosse per l’aria che respiri
ma anche quella finirai di respirarla
il digiuno ti rende libero e lucido
e vedi una insolita
Assenza di Luce dalle Tenebre
come è scritto nei libri dei poeti
se non fosse per l’aria che respiri
come è scritto nei libri dei filosofi
ah non meravigliarti
di questa mia tristezza
e di questa mia disperazione
che mi ride in faccia
perché so finalmente
morire di fame
e finalmente piango quando cado
piango di gioia pianto
nella maggiore allegrezza
e desidero il Bene
perché non lo spero più
come è scritto nei libri dei poeti
ah non lasciare passare questo momento
di abbandono
senza riserve alla disperazione
ma aggràppati a questa dolcezza che ti prende
e naufraga nel suo mare
e dille che conviene
che io muoia con te
no una volta per tutte
io non mi muovo
non faccio più male a nessuno finalmente
se non fosse per l’aria che respiro
non fai rumore tu
ma forse lo fai, ridendo
perché negli strati superiori dell’atmosfera
l’ozono viene distrutto dall’azoto
e il globo terrestre in se stesso sprofondato
fiammeggerà poi sarà annientato
ma io mi dico
che devo essere assente meglio di così
assolutamente assente
se voglio che ci lascino partire
e ora finalmente mi sento troppo giovane
e troppo vicino a te
per non poter formare
nuove abitudini
non si può avere due cuori
e servire due padroni
when the stars begin to fall
when evahry star refuses to shine
I know dat King Jesus will-a be mine
sumus sicut dei
furono veri
i giuramenti vere le tue lacrime
io sono tu e tu sei io è il silenzio
se non fosse per lo smog che respiri

*

Niente da La casa di Arimane

Un’apprensione fissa
mi stempera il cervello
è certo che chi vince
sarà sempre il peggiore
l’ultimo secolo
è il più tirannico
e il più calamitoso
non resta altra cagione
ormai di morir lieti
che il non aver più niente
da perdere più niente
da sperare più niente da temere.

*

La Lontananza, da Una suprema nostalgia

Ora i tuoi girovaghi fratelli
carovanieri magri,
sovra i loro cavalli più agri degli onagri
augustano appensati in colorati lani come su sovrani altissimi
sgabelli,

e ingiojati con splendidi giojelli
di denti candidissimi e scabri,
avvittano caldegli frittelle di calabri
entro un calido latte di mandorle in caldelli.

Mentre l’amore cane triste scodinzolando
guaisce a te che a imprese ignote ed intentate accendi nell’era
degli occhi morati la straniera lumiera d’una
lumella lontana d’una zingaresca stella,
pare che il fumo azzurro del fumaiolo della carovana, in giri
inutilmente oltremondani, con una foga
vesperale estrana d’un organo a due mani degli
indiani, verso la libertà recluso si protenda:

un profumo egiziano gitano sollevando,
per un cielo speziato di cannella,
la lontananza nomade dove vagare in tenda.

Gruppo MAGOG