
Dammi un istante, diventa fuoco! Su una poesia di Innokentij Annenskij
Poesia
Giorgio Anelli
Accade, talvolta, di ritrovarsi nelle “vite degli altri” ancor prima che nella propria. E tanto più quanto vivere ci espone allo scherno e al fallimento, a essere braccati dall’ipocrisia delle conventicole, al consumarsi dei sogni incendiari. Mario Scalesi fu poeta nel più compiuto dei cammini, quella balistica esistenziale che mirando ad astra lascia le ossa a marcire nel fango. Di origine siciliana ma di lingua francese, nasce a Tunisi nel 1892 e si spegne, ormai eroso dalla tubercolosi e dalla demenza, nel manicomio Vignicella di Palermo, a trent’anni, ufficialmente “per marasmo”. Una voce, quella del poeta tunisino, che contiene, come un glauco guscio di conchiglia, l’eco di mille voci: dalle più illustri e roboanti alle più miserabili e profanate. Scalesi intitola la propria unica raccolta poetica – pubblicata peraltro post mortem – Les Poèmes d’un Maudit; è una dichiarazione d’intenti, una consapevole revolverata all’angusto mondo letterario coloniale e, nel contempo, un affiliarsi al ceppo fecondo degli Hommes d’aujourd’hui. Sia detto, per scrupolo aneddotico, che il tunisino, figlio della plebe del Maghreb, portava con sé, come breviario e reliquia quella magistrale, e nondimeno borghesissima, melopea antiborghese che sono i Fiori del Male. La condizione umana, come avrebbe scritto Malraux, che fa da quinta alle liriche di Scalesi è lo squallore pulsante dei suk nordafricani, sideralmente lontani dai fasti artificiosi dei boulevards. Un richiamo a quell’ancestralità del popolo incorrotto, alla sua vitalità primigenia, che in Italia sarà soggetto privilegiato dell’opera di Pasolini.
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Poeta, dicevamo. Minore, senz’alcun dubbio. Il primo approccio meditato all’opera di Scalesi si deve a Pierre Mille, critico letterario per “Les Nouvelles Littéraire”, il quale nel 1934 avrà a scrivere, impossibilitato a evitare la scomoda comparazione tra il tunisino e la diarchia Baudelaire/Verlaine: «La sonorità, l’ispirazione, e io oserei dire anche la sincerità nuda e cruda, sono del tutto differenti! Io mi convinco volentieri (…) che Scalesi ha il diritto di essere incluso nel novero dei poeti ‘minori’ ma perciò essenziali che, maledetti o no, avevano qualcosa da dire, e l’hanno detta come nessuno aveva fatto prima di loro, con accenti che sono loro propri, che non si trovano presso altri». Può infatti dirsi minore soltanto colui che nasce lontano dai riflettori della scena letteraria, ignorato dalla critica e schifato dalla notorietà; perché di ‘minore’, nel poeta tunisino, c’è ben poco, certamente non più di quanto possiamo rinvenire nelle nervose e dolenti pagine di un Carnevali, altro negletto figlio d’Italia.
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E se minori si diventa, maledetti si nasce. Frutto sofferto di un sottufficiale della Regia Marina Italiana, riparato clandestinamente a Tunisi, e di una donna italo-maltese domestica a ore, Scalesi all’età di cinque anni subirà il primo degli innumerevoli rovesci che il destino, come per Carnevali, gli ha riservato: cadendo dalle scale della propria abitazione lesionerà irrimediabilmente la colonna vertebrale, condannandosi alla deformità. Le precarie condizioni economiche della famiglia non gli consentiranno una istruzione adeguata: la miseria – per voler restare nel solco del maledettismo ‘minore’ –, come soleva dire Giovanni Antonelli nel suo autobiografico Il libro di un pazzo, «è il maggior delitto per gli uomini». Il giovane tunisino si vede così costretto a impiegarsi come contabile e contabile resterà fino all’aggravarsi irreversibile del proprio quadro clinico. Un poeta da partita doppia, un Pessoa in tredicesimo, si licet.
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Da questo intossicato humus germinano le sue visioni: liriche votate a un anelito di purezza, alla radiosità mediterranea – a lui preclusa – dell’amore, al vagheggiare impossibili rivoluzioni, alla preghiera blasfema, fino al lamento di uno spirito segregato in una carne marcia. Senz’alcuna concessione alla compiacenza – così tipica degli scrittori di estrazione borghese, dardo scagliato contro lo stesso amato Baudelaire – Scalesi scrive: «Maurice Olivant è uno di quei poeti puramente parnassiani, innamorati del verso chiaro e semplice, che, tenendosi lontani dalla virtuosità di Hugo, dal sentimentalismo oltranzista di Musset, dalla stupida isteria di Baudelaire, dall’insopportabile freddezza di Leconte de Lisle, si sono applicati a fare versi soltanto perché essi amano i versi» (“ChroniqueLittéraire”, 14 dicembre 1919).
La lingua che non dimentica del poeta sa screziarsi di timbri violenti, come nel sonetto Communion:
L’anima mia, un tempo, in un sospiro
con fiori ingenui volava ai tuoi piedi,
Signore! Avevo la fede degli avi
e ti credevo buono, o Dio crudele.
Ti insegnò, Giuda, l’arte del tradire.
Il cielo, il sole e le false dolcezze
riflettono il suo bacio dal Getsèmani….
Ho bisogno d’aver fede e di odiare.
Ingelosendo Maria e i suoi angeli,
dove il pane eucaristico si serve
attenderò, sornione, inginocchiato.
Imboccherò quell’ostia immacolata,
e insanguinando l’istante sacrilego
ti spezzerò come tu m’hai spezzato.
O di fraterna pietà per la sorte dell’uomo, impotente dinnanzi all’indifferenza divina, come in La robe blanche:
Indossa l’anima, nascendo, un abito
ordito da celesti dita magiche,
etereo e puro, dall’aerea trama,
più bianco d’una candida gelata.
Ma ai primi passi nell’aspra vallata
dall’aria infetta da antichi peccati,
come giglio affondato nel canile
s’annerisce la fibra immacolata.
Viandanti in preda a cecità, sacrileghi,
del tutto profaniamo il bel vestito
per ripartir coperti d’ombra e fango.
Perciò, nell’ora triste dei rimorsi,
mentre l’eternità specchia cupezza,
dimora orrore negli occhi dei morti.
«L’Africa del Nord», ebbe a scrivere il poeta in un articolo pubblicato su “La Tunisie Illustrée”, il 24 dicembre 1918, «è letterariamente inesauribile. Cento scrittori non basterebbero a evocare il suo prestigioso passato o a sfruttare i suoi aspetti pittoreschi. Ci restano molte cose da dire; quasi tutto. E noi arriveremo a dirlo».
Nel 1922 il corpo di Mario Scalesi venne gettato in una fossa comune del cimitero di Palermo. La sua voce randagia non cessa di risuonare tra le rene e le onde.
Luca Ormelli
Editing Matteo Fais e Luisa Baron
Bibliografia:
*Mario Scalesi, Les Poèmes d’un Maudit – Le Liriche di un Maledetto, a cura di Salvatore Mugno, ISSPE, Palermo 1997. Si tratta dell’unica traduzione in lingua italiana di parte del suo corpus poetico, arricchito con dovizia di contributi, saggistici e biografici, cui ho attinto nella stesura di questo articolo.
*Giovanni Antonelli, Il libro di un pazzo, Giometti & Antonello, Macerata, 2016.
Il mio ringraziamento a Salvatore Mugno e a quanti, nel corso degli anni, hanno soffiato sulla brace di Scalesi per tenerne viva la memoria.
**In copertina: Mario Scalesi in un ritratto di Fichet del 1920