“Abituarsi agli addii, alla finitezza delle cose, alla volgarità con cui ogni faccenda si estingue”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Nel 2015 la prestigiosa Yale University Press pubblica, con il titolo Please Talk to Me, un ciclo di “Selected stories” di Liliana Heker. A guidare la traduzione, Alberto Manguel, amico di Jorge Luis Borges, tra i più autorevoli intellettuali e scrittori argentini viventi. Straordinaria interprete del racconto breve, audace nell’arte da miniaturista di vite altrui – genere specificamente argentino, e questo (il tema dell’elusione e dell’allusione, del gioco d’ombre, dell’improvvisa coltellata verbale, del passo rapido e della vibrazione repentina) sarà forse un simbolo – la Heker, all’uditorio americano, è presentata così: “Durante gli anni della repressione violenta (1976-83), ha continuato a scrivere e a ideare riviste di resistenza che hanno contribuito a dare voce ad autori silenziati dal regime”. Per molti scrittori argentini la salita al potere del generale Jorge Rafael Videla significò la scelta, manichea: restare nel proprio paese, e patire, o partire. Alberto Manguel partì. Julio Cortázar, il maestro ideale di Liliana Heker, aveva lasciato l’Argentina molto prima, nel 1951, trapiantandosi a Parigi. Liliana Heker aveva 33 anni quando si insediò Videla. Precocissima – comincia a pubblicare neppure ventenne, nel 1961 fonda insieme ad Abelardo Castillo la rivista letteraria “El Escarabajo de Oro”, ha risolto i primi due libri, Los que vieron la zarza e Acuario – decide di restare a Buenos Aires. E di non abbassare la testa.
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Durante gli anni del regime militare, Liliana Heker fonda una rivista – El Ornitorrinco, insieme ad Abelardo Castillo e a Sylvia Iparraguirre – sostanzialmente non pubblica (Un resplandor que se apagó en el mundo esce nel 1977), intervista Borges e litiga con Cortázar. In qualche modo, sembra che la scrittrice – che sotto il regime vive il ‘fiore’ dei suoi anni – senta l’urgenza di confrontarsi con i giganti della letteratura argentina contemporanea. E di incenerirli, di incenerire tutto. Nel 1980 la Heker va a stanare Borges. Nell’intervista – pubblicata in Italia come Jorge Luis Borges. “Diffido dell’immortalità”. Conversazione con Liliana Heker, Castelvecchi, 2019), la Heker interroga Borges in merito all’aldilà, alla speranza, alla resurrezione. L’idea è quella di costruire un libro di “Dialoghi sulla vita e sulla morte”, interpellando i massimi studiosi, filosofi, psicologi, antropologi, artisti argentini. “Come altri intellettuali e scrittori, ero stata allontanata dal mio lavoro con l’accusa di essere una sovversiva”, ricorda la Heker. Il libro non si farà, gli eventi precipitano, Diálogos sobre la vida y la muerte sarà pubblico molti anni dopo, nel 2003. La Storia è una ustione che fatica a sanarsi.
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Piuttosto, quarant’anni fa Liliana Heker ingaggia una battaglia etica con Julio Cortázar. Ancora oggi, ne parla con tramortita dolcezza. “Ero una amica personale di Cortázar, lo ammiravo e lo ammiro ancora come scrittore… la sua morte è stata vissuta da me come qualcosa di desolatamente ingiusto e irreparabile”. La polemica, che ha un interesse ben più vasto dei confini argentini, passa sotto il titolo “Exilio y literatura”. Gli interrogativi, gridati ed esasperati in quella cronaca di dispersi, di imprigionati, di ammazzati (pensiamo anche soltanto ad Haroldo Conti, lo scrittore di Sudeste, il giornalista, sequestrato appena dopo il golpe e svanito nella gola degli infami), sono i soliti: che rapporto c’è tra la letteratura e il potere, tra l’atto letterario e la Storia? In che posizione deve porsi lo scrittore e che rischio è disposto a percorrere per la salvaguardia della propria scrittura? Che rapporto ha il verbo con la morte, con la vita? Che senso hanno parole come ‘etica’ ed ‘estetica’ in un tempo che tritura e uccide i propri poeti? Quelle stesse parole di ogni giorno, ‘vita’, ‘morte’, che ormai si scambiano caratteri e criteri, che senso hanno?
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Per Cortázar la questione è semplice: il regime è responsabile del “genocidio culturale” che vive il paese; per lo scrittore, l’unica via è l’esilio, sola condizione per essere libero e scrivere ciò che il cuore e l’intelletto detta. Liliana Heker fa un’altra valutazione, che flirta con l’imponderabile, con il fatto che lo scrittore, in ogni circostanza, soprattutto in era orrida, debba disciplinarsi alla libertà interiore. “No, Cortázar, un intellettuale non è così ingenuo; non si aspetta che nessun governo gli dia il permesso di esprimere le proprie idee, né che i supplementi domenicali lo invitino a manifestare il suo pensiero. Quando i mass media accettano di diffondere parte del suo pensiero, buon per lui. Ma anche se ciò non accade, c’è sempre modo per divulgarli. Ed è in momenti come questo che diventa necessario creare strade marginali e sfruttare tutte le risorse possibili – la sottigliezza, ad esempio – nonostante i decreti ufficiali… Un’altra cosa. Da Parigi mi spieghi cosa è successo in Argentina. Mi spiace, Cortázar, che tu dimentichi il fatto che alla fine del 1978 io ero in Argentina. E la mia situazione era meno confortevole di quella che avrebbe potuto essere la tua, qui. Non importa. Questa scomodità è ciò che la maggior parte di noi ha scelto. Molti di noi hanno scelto la resistenza. Altri, più tardi, verranno a fare festa”. Più che sulla censura, la Heker ha sempre posto lo sguardo sull’autocensura che troppi scrittori si impongono, che esista un regime militare o che si subisca l’egida del successo. Un mattatoio accade anche nell’anima dello scrittore.
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Come scrivere la ‘cronaca’, come domare il ghepardo della Storia, come dire, della vita, la delazione e il delitto, l’orrore che non è solo nel corpo scomparso e squartato, nel censimento della tortura – e c’è la tortura, vaginale, medioevale, bastarda, in questo libro – ma nel clima, nell’intruglio del sospetto, nella trama tortile del tradimento. Perché bisogna dire anche questo: l’atto d’amore tra la vittima e il carnefice. Anche l’amore va detto, già, mentre ovunque è il regno della morte. Le possibilità, in superficie, sono due: il romanzo canonico, ‘realista’ – esempio: Vita e destino di Vasilij Grossman, che racconta Stalingrado e il regime sovietico rievocando l’affresco e il pathos tolstojano. Oppure, comprimere il barbarico con il magico, shakerare la Storia nell’imbuto della metafora, del simbolo. Regola, per altro, in cui i romanzieri sudamericani sono geniali. La Heker non segue né l’una né l’altra via. Pensa. Guarda. Si lascia falciare e fecondare dai fatti. Attende alla stagionatura della Storia.
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Bisogna considerare il tempo. La Heker lavora ai suoi “Dialoghi” dal 1979, sotto la stortura militare. Li pubblica quasi 25 anni dopo. “Non c’erano morti, malgrado tutti sapessimo, o sentissimo, che la morte ci accerchiasse da ogni lato. Era dunque necessario strapparla a quegli specialisti della morte, recuperarla come una questione esistenziale, filosofica, biologica, che ci riguardava; ripensare alla morte per motivi ideologici, riparlare della trascendenza, dell’angoscia, del sogno di essere immortali, di una morte degna. Almeno su quel terreno che gli assassini non avrebbero potuto sottrarci, quello intellettuale. Dovevano restituirci la vita, la morte”. Così scrive nell’introduzione a quel libro. La Storia corre, ma è chi resiste al suo massacro che ne sa definire il tratto e destinare il tracciato. Da dietro, armati di cerbottana, colpire l’occhio a spirale della Storia, sbandarla.
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Allo stesso modo, il primissimo nucleo de La fine della storia (ora edito da Theoria) nasce nel 1971, sotto l’onda letteraria de Il gruppo di Mary McCarthy. Cinque anni dopo la Heker perde un’amica, caduta nel gorgo del regime. Guarda. Resiste. Scopre. Non esistono innocenti, purezza è il modo in cui gli assassini giustificano i loro atti. Come i grandi scrittori, Liliana Heker fa del suo corpo una cattedrale di fantasmi. Ricomincia a pubblicare. L’idea di quel libro erode il tragitto onirico. “Un giorno di aprile del 1994 mi sveglio alle quattro di mattina, perché queste cose accadono così, improvvisamente, e ho capito che cosa avrei dovuto scrivere. Alle cinque e mezza ho cominciato la scrittura de La fine della storia”.
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Il titolo dice di una forza e di una resa. El fin de la historia. Della Storia dice una fine – la fine del regime militare – ragionando sul suo fine – esiste una ragione che agita la Storia o è il fragore del caos, e perché ogni ordine diventa una ordalia del bene? D’altronde, il libro indaga l’impossibilità di raccontare una storia, la tensione di una storia a protrarsi all’infinito. E il modo in cui, come una mandorla, la storia di certe amiche s’incastri nella Storia – e da essa è irrimediabilmente alterata. La fine della storia è che ogni storia è infinita; e che non ha un fine.
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Il regime militare argentino si è caratterizzato per l’enorme massa di ‘dispersi’. Il corpo non viene ucciso e messo in piazza, visto, pianto. Il corpo scompare. Come se il quaderno su cui hai scritto, in inchiostro scuro, improvvisamente sbiancasse, tornasse nudo. Non c’è segno del tuo passaggio – e neanche una viltà, ma il vuoto. Del corpo scomparso non si può reclamare il corpo, non si può pronunciare il nome: esso non c’è, non è mai esistito, è obliato. Buenos Aires è una palude: improvvisamente, puoi sparire. Necessaria, qui, è una scrittura che sappia dire questa assenza, questa confisca dei nomi. Per questo, la Heker scova una lingua che tiene in una più storie, che non dice e non denuncia e non declama, ma trascina, con una polifonia di protagonisti. Il tempo, d’altronde, serve a questo: per riprenderlo, tutto. Non può essere una scrittura ‘facile’, perché la vita si è svolta tra le maschere e i vuoti, tra sorrisi sacrileghi e trabocchetti. Non battaglia a viso aperto, ma sotterfugio, catacomba dove il corpo viene marcato: verità e tortura adempiono lo stesso omicidio. A volerne suggerire la fisiologia, si tratta di una lingua ‘modernista’, con sinuosità, certezze e agnizioni micidiali – come se Henry James sapesse disossare gli occhi dal viso di Videla, lanciandoli come dadi nell’ego del caos.
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Dire l’indicibile dell’uomo, squartarne il cuore fino alla camera della tortura. “Io cercavo una storia, figlia, andavo alla ricerca di una storia che avesse una trama tranquilla, quotidiana, però al tempo stesso lasciasse filtrare, come un tenue bagliore, la follia, la ferocia e la magia che segretamente incoraggiano gli atti degli uomini. Ma loro hanno raso al suolo l’intera fragile trama”, è scritto nel gorgo limpido del romanzo. Di lato, ricordano le parole di Vasilij Grossman, dopo il sequestro di Vita e destino, chiamato a giustificare il suo romanzo ‘antisovietico’. “Facendo del mio meglio con le mie limitate capacità, scrissi sulle persone comuni, il loro dolore, le loro gioie, i loro errori e le loro morti. Scrissi del mio amore per gli esseri umani e della mia solidarietà con il loro dolore”. Lo scrittore penetra nei cerchi oscuri dell’uomo perché è certo che, nascostamente, ci sia una gioia, un amore, da estrarre anche là dove è l’orrore. Perché basta il frinire di una amicizia a riscattare un’epoca di strazio.
Davide Brullo
*In copertina: Liliana Heker e Abelardo Castillo fanno a pugni; insieme, con Sylvia Iparraguirre, hanno fondato “El Ornitorrinco” , rivista di resistenza culturale durante il regime militare argentino