Qualcuno dice che Ernesto Aloia non sia un tipo simpatico, affabile. Io invece lo trovo così sincero e trasparente fino alla scontrosità da essere per me impossibile non andarci d’accordo. È quasi sempre alla letteratura straniera che guarda, alla narrativa internazionale, e meno alla nostra, così spesso ombelicale. Dagli scrittori stranieri accettiamo tutto, da quelli italiani no. Lì subentra tutta una serie di seghe mentali ataviche, di ridicole puzze al naso. Aloia sa di correre questo rischio perché quasi nessuno in Italia può dirsi uno scrittore dal respiro internazionale come lui. Eppure, al tempo stesso, così italiano; di quella italianità dotata di una vocazione cosmopolita. Dopo aver scritto una serie di romanzi e racconti molto originali (Chi si ricorda di Peter Szoke?, Sacra fame dell’oro, I compagni del fuoco, Paesaggio con incendio) eccolo ora con la sua prova più impegnativa e grandiosa: La vita riflessa (Bompiani, pp.300, euro 18), che potrebbe essere, per tema ed esecuzione, uno dei romanzi dell’anno. Anzi, quasi sicuramente lo sarà (salvo scherzetti del destino). Scrittura elegante e intelligente, sempre tesa e razionale, Aloia ci regala un romanzo geniale. L’idea infatti ci è parsa così forte che crediamo non stenterà a trovare estimatori all’estero e a venire tradotta. E, perché no, a finire sul grande schermo. Di cosa parla il suo romanzo? Al centro c’è l’idea di due amici che realizzano un social di seconda generazione, Twins, che finirà per condizionare pesantemente le vita di tutti, con esiti drammatici (tra suicidi e stragi). Ma lasciamo che a spiegarcelo meglio sia l’autore.
Il tema dell’identità è al centro di tutto il romanzo. E in particolare quello dell’identità sui social. Puoi dirci in cosa consiste l’identità della generazione web e in cosa consisteva prima, per le generazioni analogiche (se vi è una differenza)?
Sì, il tema dell’identità è il vero motore del romanzo, perché tutto nasce da due personaggi che a un certo punto della loro vita si chiedono: chi sono diventato? Cosa sono diventato? Si potrebbe dire, parafrasando: a chi parliamo quando parliamo da soli? Ma è una questione che nella Vita Riflessa esiste prima dei social media. Al di fuori del romanzo, potremmo dire che per la prima volta è diventato possibile per tutti costruirsi un’identità alternativa che, per quanto frammentaria, limitata, tendenziosa, sarebbe ingenuo definire fittizia. La differenza tra le generazioni è soprattutto nella scomparsa progressiva della distinzione tra ciò che avviene nel web e ciò che avviene fuori. Tutto ciò che avviene fuori si riversa nel web, e viceversa: e allora, se tutto si rimescola, dov’è il confine? Forse si può parlare di identità ibride.
Tu fai dire al protagonista che nei social i giovani non cercano relazioni ma la propria identità. In che senso? Puoi approfondire?
Questo è vero per Twins. Ma anche, parzialmente, per i social esistenti. E non riguarda solo i cosiddetti nativi digitali. Ogni personalità ha tratti narcisistici, cioè cerca di rafforzarsi e definirsi in base a stimoli esterni che si auspicano positivi. Siamo tutti ansiosi di ridefinirci ogni mattina, quando sui social pontifichiamo sui massimi sistemi per una platea di sconosciuti. E soprattutto quando spiamo le notifiche.
I due personaggi principali, Marco e Greg, creano un nuovo social, o meglio un ultrasocial (un social di seconda generazione) che si chiama Twins, con profili profondi, proiessenze ecc. puoi spiegarci in cosa consiste questo social e come funziona? Dove sta la novità?
Cito dal romanzo: Un uomo davanti alla propria immagine che impara e che muta, un riflesso vivo in grado di lasciare lo specchio e andare per il mondo. Twins riunisce informazioni provenienti da ogni possibile fonte (e sappiamo che oggi le persone sono disposte a lasciare libero accesso a una quantità impensabile di informazioni) per creare una proiezione che è letteralmente affamata di te, ti interroga, ti lascia raccontare i tuoi sogni, i tuoi segreti. E tu, che sei affamato di identità – e di ascolto – gli fornisci quello di cui ha bisogno. Le capacità relazionali di Twins, per quanto avanzate e polivalenti al punto da modificare i comportamenti collettivi e ridefinire aspetti della socialità, in fondo sono una sorta di effetto collaterale.
Potrebbe esistere davvero un social come Twins?
Non mi interessava l’ennesima distopia ma l’evoluzione dei personaggi, i loro rapporti – il lavoro del narratore è quello. La vita riflessa è un romanzo e Twins è definito in primo luogo in rapporto con il mondo raccontato, la sua plausibilità dev’essere valutata all’interno di quel mondo, che è opera di fiction. Vogliamo provare a immaginarlo nel mondo reale? Secondo me sarebbe tecnicamente possibile a patto di disporre di un dispositivo in grado di rendere la connessione e la condivisione ancora più fluida e continua di quanto facciano gli smartphone: il progetto Google Glass andava in quella direzione, ma credo sia stato abbandonato. Se poi sarebbe redditizio dal punto di vista commerciale – in fondo è questo che davvero determina la sua plausibilità al di fuori del romanzo – è impossibile dirlo.
Senza svelare troppi retroscena e far perdere la sorpresa al lettore, possiamo anticipare che Twins produrrà una serie di suicidi a catena e altre conseguenze ancor più drammatiche tra i più giovani, appartenenti alla generazione web: pensi sia uno scenario realistico?
Gli studi di psicologia si occupano dei social già da qualche anno, e non mancano le attestazioni di una relazione positiva tra l’uso compulsivo dei social network da parte delle personalità narcisistiche in senso clinico (ma una componente narcisistica esiste in ognuno di noi) e il progressivo ritiro dal mondo delle relazioni “reali”. Si tratta di persone fragili che si ritirano perché temono il raffronto tra le perfette, smaglianti, incorruttibili identità digitali che con tanto impegno hanno costruito e nutrito e le loro identità, diciamo così, reali e corporee. Che sono, naturalmente, imperfette ed effimere. Sono gli anacoreti della fragilità. Il suicidio, come ritiro estremo, nel romanzo è la rappresentazione in forma narrativa e drammatica di una tendenza. Ma, in fondo, rispetto al chiudersi in una cameretta e non uscirne più, è solo un passo avanti.
Cosa pensi dei social? Come hanno cambiato il mondo e come lo cambieranno? Quali sono i pericoli che vedi nel mondo dei social? In parte li ha raccontati nel romanzo, ma immagino ci sia molto di più (anche se di meno drammatico)…
Quello che vedo è che il confine tra la nostra vita nell’ambito social e la nostra vita al di fuori si sta facendo sempre più poroso, con la conseguenza che il modello di relazione frammentaria sviluppato sui social ha iniziato a proiettarsi sulle nostre relazioni “normali”. Faccio un esempio. La progressiva scomparsa della classica telefonata tra gli adolescenti (e non solo) sostituita dal ricorso alla varia messaggistica e dall’abitudine ai messaggi vocali unidirezionali. Il messaggio vocale significa: io ti rendo pubblico un certo contenuto in modo che tu non possa interloquire, ma solo ribattere o commentare successivamente, il che in fondo non può più modificare quanto ho già detto. Questa è una modalità di comunicazione che dai social è passata quasi senza modifiche nella vita quotidiana “reale” (uso le virgolette perché, ovviamente, anche la nostra esperienza sui social è reale). Il futuro, chi può dire cosa succederà? Forse si diffonderà una controcultura davvero alternativa basata sulla disconnessione e sul recupero della centralità dell’attenzione e della concentrazione, concetti che cominciano ad apparire rivoluzionari.
Qual è il rapporto che vedi tra social e libertà individuale, tra social e politica, tra la rete e l’idea di verità? Cosa pensi del dibattito che si è sviluppato intorno al concetto di postverità?
Ci sarebbe da scrivere qualche volume… Credo sia necessario distinguere due fenomeni. Il primo è la confusione tra fatti e opinioni. Prima le persone si accontentavano di avere un’opinione, ora pretendono di avere i loro fatti. È scontata l’obiezione che non esistono fatti ma solo l’interpretazione dei fatti, ma il punto è che i fatti esistono ed esiste la metodologia della ricerca storica perfezionata in due millenni (gli archivi, le fonti contemporanee, la memorialistica, le testimonianze) per accertarli. L’esempio classico è quello della Shoa. Possono ingegnarsi a relativizzare, sminuire, negare e falsificare, ma il fatto resiste ed è come una montagna gigantesca al centro di una pianura, non puoi nascondere l’Everest sotto il tappeto come si fa con un po’ di polvere. Il web, in generale, rafforza la tendenza alla confusione, perché se tu sostieni che la terra sia piatta nella tua vita quotidiana avrai difficoltà a trovare chi sia del tuo stesso parere, mentre sul web puoi venire in contatto con i terrapiattisti di tutto il mondo e la tua credenza ne uscirà rafforzata. Il secondo fenomeno è lo sfruttamento cosciente per fini politici di questa velleità generalizzata a crearsi, o scegliersi i fatti propri. La menzogna politica ha raggiunto una diffusione e una virulenza che non si vedeva dagli anni Trenta, alimenta ondate di irrazionalità che rendono problematico il funzionamento di una democrazia. Secondo me la democrazia può sussistere fino a una certa soglia di irrazionalità diffusa – o, se vogliamo, di imbecillità – ma raggiunta quella massa critica finisce per implodere. Onestamente, siamo molto vicini al limite.
Il tuo è senz’altro un romanzo di respiro internazionale: ci sono già state proposto di tradurlo all’estero? Trovo che anche il cinema potrebbe interessarsi alla tua idea, che ne pensi?
Che invidia per quei romanzi che escono già con la loro fascetta “venduti i diritti in tredici paesi! Io, invece sono qui che aspetto. Ma sono fiducioso. Un po’ meno riguardo al cinema, che si troverebbe di fronte un testo stratificato in cui il tema diciamo così tecnologico rappresenta solo un elemento della macchina narrativa, mentre il cinema rispetto ai romanzi lavora sempre per semplificazione e focalizzazione. È un romanzo con molte propaggini, in cui le sottotrame si rispecchiano una nell’altra: ce ne sarebbe di lavoro, per uno sceneggiatore!
Ti sei ispirato a qualche modello? C’è qualche romanzo internazionale che presenta analogie col tuo o che ha immaginato scenari simili al tuo? Io ho in mente alcuni nomi, ma vorrei sapere come la pensi…
Credo che i modelli servano nella fase di elaborazione della propria scrittura. Ci si sforza di avvicinarli, gli si va incontro per poi sterzare all’ultimo momento – se tutto va bene – verso i nostri esiti personali. A un certo punto ci si rende conto che non si hanno più modelli, o meglio che tutti i libri (anche i brutti libri) hanno qualcosa da insegnarci. Scrivendo si perde l’innocenza nella lettura, ed è un dispiacere, ma si acquista questa capacità di imparare dal lavoro altrui, di rispettarlo anche quando fallisce. Romanzi internazionali? Credo che uno scrittore italiano debba muoversi in una duplice direzione: imparare dalla grande capacità del romanzo anglosassone di essere storico e sociale, cioè di costruire quel gioco di specchi tra vicende dei personaggi e riflessione sul contesto che genera un enorme potenziamento di significato (penso, per esempio, a due monumenti come Pastorale americana e Il Falò delle vanità, ma anche a quel compendio dei decenni della Guerra Fredda che è Underworld, un libro che è sul mio comodino da vent’anni). Allo stesso tempo, dicevo, uno scrittore deve immergersi nella dimensione storica della nostra lingua. La vita riflessa è un libro che si tuffa nella storia della lingua, e solo dopo riemerge nella contemporaneità: non per niente il protagonista è un umanista tormentato dal senso di colpa per aver tradito le proprie aspirazioni. Questa la considero un’esperienza irrinunciabile. I libri degli autori che si sono formati solo sulle traduzioni si riconoscono subito, e sono deprimenti.
Rispetto ai tuoi romanzi precedenti, qualcosa in te è scattato? O si tratta di una normale evoluzione come autore?
Scatta sempre qualcosa, tra un libro e l’altro. Se non scattasse non mi metterei a scrivere. Tra l’altro, sono lento, fatico molto sulle pagine. E per cominciare un nuovo libro devo liberarmi completamente da quello precedente. I personaggi continuano ad abitare a lungo nella mia testa: non è una favola romantica, per fare spazio ai nuovi devo cacciare i vecchi, che sono tenaci, possono infestarti la casa come fantasmi e rimanerci per tempi incredibilmente lunghi, e talvolta quando credevi di essertene sbarazzato ritornano. Nella Vita riflessa ci sono diversi personaggi ripresi dal mio racconto Locuste, del 2006. Sono cambiate molte cose, sono cambiato io (e quanto!), ma loro erano rimasti lì, nascosti, ad aspettare. E il momento alla fine è arrivato: hanno vinto loro.
E dopo questo, che altro ci riserverai? Che altro aspettarsi da te? Questo è un romanzo che connota in modo marcato: non ti sentirai obbligato a dare corso sempre di più a questa tua feconda vena?
Sono uno scrittore che dopo ogni libro ha bisogno di rielaborare la propria vocazione, riorientarsi, riprendere fiato. Non faccio progetti. Anche quando inizio a scrivere un libro parto da una scena, un movimento, una frase, e non faccio mai schemi perché uno schema può renderti la vita comoda ma blocca il vero lavoro della tua mente, quello che svolge quando non stai scrivendo e non stai pensando, almeno a livello conscio e volontario, a quello che scriverai. Questo dà un grande senso di libertà, ma non mi permette di fare previsioni.
Gianluca Barbera