25 Novembre 2019

Paolo Di Paolo, porca miseria, sbilanciati un po’ di più! Matteo Fais legge & commenta l’ultimo romanzo dello scrittore che tutti vorrebbero sposare (pare Morandi da giovane)

Premessa. Mettiamo le mani avanti: a scanso di equivoci, quanto segue non costituisce una critica a Luca Doninelli, verso il quale non ho alcun rancore personale e sulle cui doti di narratore e critico letterario non ho niente da eccepire. (Qui l’articolo di Luca Doninelli, comparso su “Il Giornale”, il 23/11/2019)

Motivi per cui concedere a Di Paolo il beneficio del dubbio. Devo ammettere che Paolo Di Paolo si è, per così dire, guadagnato uno spazietto nel mio cuore. Non che sia improvvisamente diventato il mio autore preferito, ma quel bravo ragazzo – ha proprio la faccia del fidanzato ideale da portare a casa, un po’ come Gianni Morandi a inizio carriera – un qualche merito ce l’ha rispetto alla pletora progressista che lo circonda e di cui comunque fa parte. Almeno lui non è un invasato. Non grida ogni due per tre al fascista e non ammette fascistometri. Non è neppure il solito femministo che si prende a pugni sui coglioni dicendo che tutte le donne sono brave, belle e buone e i maschi tutti patriarchi mafiosi. Ha inoltre curato diverse raccolte di testi montanelliani. Sembrerà poco, ma di questi tempi in cui la ragionevolezza a sinistra latita, Paolo Di Paolo quasi assurge a esempio di sana e democratica contrapposizione dialettica. Ergo, non si poteva fare a meno di concedergli il beneficio del dubbio e leggere il suo nuovo libro, Lontano dagli occhi (Feltrinelli, 2019).

Il testo in breve. Lontano dagli occhi è, in estrema sintesi, la storia di tre maternità difficili, in una Roma del 1983, che vede come protagoniste una liceale, una giornalista e una punkabbestia. Accanto a loro, nei ruoli maschili, un giovinetto sempre del liceo, uno svalvolato, e un dipendente di una rosticceria.

I meriti di Di Paolo. Se dietro la sua modestia – non dico falsa, ma forse da ragazzo troppo ben educato –, Di Paolo desidera essere un grande narratore, allora la scelta del tema da lui fatta – la maternità – è indiscutibilmente giusta. Un vero autore affronta i grandi temi (seppur declinati entro un certo contesto temporale e antropologico, e non in astratto). Rispetto a tutti i vari intrattenitori, il nostro Paolo ha il pregio di scrivere una storia forte e drammatica, da far tremare i polsi. Da questo punto di vista, direi che è anche molto commovente leggere di come nel suo libro, per citare Doninelli, “la vita si afferma come un atto di totale, quasi demenziale libertà”. Non concordo invece con il critico quando asserisce che “non sono le storie e i personaggi in sé a colpire: questo è se mai il punto debole del libro (più tipologie che veri personaggi e vere storie)”. Mi domando francamente cosa vorrebbe leggere Doninelli: duecento pagine in più, in cui si accumula carta affastellando particolari che diano spessore psicologico ai protagonisti? Che palle! Con rispetto parlando, risponderei alla sua notazione citando il Houellebecq di Estensione del dominio della lotta: “Tutta questa mole di dettagli realistici, questo dar vita a personaggi plausibilmente differenziati, m’è sempre sembrato, scusate l’ardire, una grande stronzata […] invece, occorre sfrondare. Semplificare. Smantellare a uno a uno un’infinità di dettagli. In questo, peraltro, mi aiuterà il semplice meccanismo della progressione storica. Sotto i nostri occhi, il mondo si uniforma; i sistemi di telecomunicazione progrediscono; l’interno degli appartamenti si arricchisce di nuovi congegni. I rapporti umani diventano progressivamente impossibili, e questo riduce in proporzione la quantità di aneddoti di cui si compone una vita”. Inutile precisare che, negli anni Ottanta in cui è ambientato il romanzo, tale processo di uniformazione era già ampiamente e tragicamente avanzato – lo sviluppo tecnologico, nel giro di pochi decenni, ci avrebbe portato all’appiattimento mondiale odierno. Tra parentesi, vorrei precisare che, pur provenendo dall’area progressista, che del femminismo e della lotta al maschio ha fatto la sua bandiera, i personaggi di Di Paolo sono tutto fuorché una riproposizione dei soliti abusati stereotipi di genere. Il narratore ha il coraggio di tracciare profili psicologici di donne che, tra le altre cose, sono anche delle colossali stronze egoiste. E i maschi – anche questo bisogna riconoscerglielo – manifestano non poca umanità, almeno nella maggior parte dei casi. Insomma, grazie al cielo, spesso tornano sui loro passi, sentono il legame del sangue, non picchiano le loro compagne, e non si limitano a farsi una sborrata – scusate il francesismo.

Di Paolo narratore non narrativo? Ma quando mai! Sempre secondo Doninelli, il problema di Lontano dagli occhi starebbe nel fatto che “la fabula rimane sullo sfondo quasi come un pretesto”. A fare la differenza in Di Paolo sarebbe la “cifra catalogatrice, il vero tratto originale”, data la bravura dell’autore nel ricreare tutta la congerie di quegli anni. La sua “forza”, in sostanza, “non sta nel testo così come appare ma nel lavoro che lo produce” ed egli sarebbe “un narratore originale per ciò che ha di non-narrativo”. Insomma, “Di Paolo costruisce romanzi come fossero saggi, perché questa è la sua natura: quella del critico e, più ancora, dello studioso, del teorico della letteratura”. Adesso, se c’è una riserva che non si può avanzare sui libri di questo autore è proprio quella di non basare tutta la loro forza sull’incalzare della narrazione. Casomai, quello in questione è proprio il grande limite di Di Paolo. Per chiarirci: va molto bene che lui racconti delle storie, ma non si può certo dire che faccia una narrativa di contenuti, che prenda posizione su quel periodo storico, che si arrischi a dire cosa è meglio e cosa peggio. Se l’avesse fatto, non sarebbe stato Paolo di Paolo ma Michel Houellebecq. Diversamente da quest’ultimo, il primo si guarda bene dal dare al suo libro quella struttura a metà tra il romanzo e il saggio, al mescolare sociologia e colpi di scena. Francamente, ci vorrebbe ben altra faccia tosta – o da cazzo, decidete voi. Non è nel suo stile e nelle sue corde, e questo infatti fa un po’ saltare i nervi. Penso per esempio alla vicenda dei due liceali. Un tempo, soprattutto in determinati luoghi dello Stivale, chi avesse messo incinta una ragazza se la sarebbe anche dovuta portare all’altare, o in alternativa prendersi una fucilata in petto dal padre di lei. Di Paolo non fa paragoni di questo tipo, però, non dice mica cosa è meglio dal canto suo, se essere una ragazza madre o ricorrere a un matrimonio riparatore. Più in generale, su quello spartiacque in cui la famiglia tradizionale stava già mestamente venendo giù a pezzi non ci sono prese di posizione nette da parte sua. Che poi lui ricostruisca bene certi suoni, sapori e situazioni di un’epoca che oramai sembra distante anni luce sai quanto me ne fotte! Quella è proprio una cornice narrativa che resta sullo sfondo e fa folclore, ma certo non si risolve in un’analisi dei disgraziati anni ’80.

Per concludere. Doninelli ha ragione: Di Paolo sa scrivere, anche se non direi che “scrive benissimo” – simili elogi li riservo a pochissimi tra i viventi e i morti. Sottoscrivo inoltre il consiglio di non abbandonare “l’austera prosa”, ma aggiungo: Paolo, porca puttana, sbilanciati un po’ di più e, soprattutto, parla dell’oggi, di fecondazione assistita e uteri in affitto, che gli anni ’80, a paragone, sono un’epoca felice e da rimpiangere. Forse, per valutare il presente, serve più un romanzo che un articolo su “La Repubblica”.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG