“Viviamo nell’epoca del prenotato – e attendiamo l’apocalisse”
Politica culturale
Paolo Grasso
Alla fine ti sei pentita di avermelo detto. Te la sei presa con me, neanche fossi io lo stupratore. Mi hai detto che non ne volevi più sentire parlare, che ogni volta il dolore si rinnova. Che non aveva più senso, dopo un anno. “Ho i farmaci contro l’ansia, quando mi torna il pensiero, e tanto basta”. Mi hai fatto indignare. Ti ho presa a urla. Ti ho detto che è inaccettabile lasciare impunito un gesto simile. Ma tu hai insistito. Ero talmente schifato che a mezza voce ti ho insultata dicendoti “magari ti è anche piaciuto”. Poi me ne sono pentito, ma era troppo tardi.
Lo so, tu a quel punto non c’entravi più niente. Era una questione tra me e lui. Roba da maschi, uno scontro tra cani per il territorio. Lui che invade il mio e io che vorrei morderlo per mandarlo via. Tu eri passata in secondo piano. “Sono io quella violentata, non puoi decidere per me”. Avevi ragione, ma come potevo… Sono un maschio e a te ci tenevo. Se penso a lui che abusa di te, qualcosa di incontenibile e furioso mi si agita dentro. La vendetta è il primo pensiero. Immagino di bere il suo sangue, come si faceva un tempo con i nemici uccisi. Vorrei farlo soffrire lentamente. Tagliargli il cazzo e metterglielo in bocca. Quella è la nostra natura, o almeno la mia. Il tuo tenerti il torto, senza reagire, mi faceva saltare i nervi e ti avrei presa a schiaffi.
No, non ce la farò mai a capirti! Ti attribuivi anche delle colpe. “Forse sono stata io. In fondo, abbiamo parlato tante volte di persona e al telefono. Devo avergli lanciato involontariamente un segnale”. Mi sentivo frastornato ascoltandoti. “Ma che cazzo dici? Se una donna parla con me, mica mi sento autorizzato a fotterla contro la sua volontà”. Lo so, i rapporti sono sempre difficili da inquadrare in modo netto e ogni atto carnale ha in sé una misura di violenza. Eppure… una violenza è una violenza. Infatti, adesso hai paura degli uomini. Non riesci neanche a starci vicino, a farti abbracciare, ad avere rapporti sessuali.
Hai avuto pure il coraggio di dirmi che “in fondo è stato gentile. Dopo mi ha portato lui stesso al pronto soccorso e mi ha fatto fare un’iniezione di calmante”. Stronzate! Da dove cazzo viene questa sindrome di Stoccolma? Era un tuo superiore. Aveva trent’anni più di te quel figlio di puttana. “Sì, ma adesso è tutto finito e non succederà più. Ha chiesto il trasferimento. Non lo rivedrò”. Io cercavo di spiegarti che se un bastardo del genere riesce a farla franca, nove volte su dieci ripeterà il gesto. “E sarà colpa tua, se un’altra ragazza dovrà subire la stessa esperienza”. Non è stato carino dirlo, ma a quel punto era una questione di principio.
Non mi hai neanche voluto rivelare chi fosse. “Ci vado io a trovarlo. Tranquilla che quello ha finito di divertirsi con il cazzo”. Ma non c’è stato verso di estorcerti il nome. Non ti capirò mai. Come ci si può tenere un simile affronto? Cosa c’è di male nella vendetta? Come puoi attribuirti delle colpe per aver “parlato” con lui?
Alla fine, non ne hai voluto sentire e oramai era già troppo tardi. Bastano pochi giorni, di solito, perché un gesto simile si perda tra i tanti che sono stati perpetrati nella storia. “Tu non pensarci, sono io a essere stata stuprata”, l’hai chiusa così. Ho cercato di farti capire che non è vero, che la cosa toccava anche me, ma niente. Tu non ci hai voluto credere, quando ti ho detto che ognuno soffre a suo modo. In ultimo, anche io ho desistito. Mi sentivo in colpa per aver trasformato tutto in una lotta tra me e un fantasma. Ma non si può fare violenza a sé stessi, far finta di non provare ciò che si prova. Credo ancora nell’“occhio per occhio dente per dente”. Solo la vista del sangue mi avrebbe riconciliato. Tu, invece, hai continuato come se niente fosse. Non so come possa. Non me lo spiego e un po’ dell’odio nei suoi confronti l’ho riversato su di te. Mi spiace. Per quanto paradossale, vorrei che fossi tu a comprendermi questa volta.
Matteo Fais