
“Scrivere è un’eroica caccia: richiede lealtà”. Un testo di María Zambrano
Filosofia
María Zambrano
Vorrei tanto gettarmi in un voto. Lasciare il corpo lì, perché sia il voto a divorarlo, con raffinatezza di lince. Invece, c’è chi questo gusto ancora non può assaporarlo, e del voto avverte il veleno – qualcuno, l’altra sera, ha evocato il monastero della Trasfigurazione di Valaam, in Carelia. C’è chi spezza i nodi con la spada e chi, sulle sponde, li ricuce.
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L’avventura di Thomas Merton in Cristo parte dall’arte. Genitori pittori, scuole buone, prima in Occitania, poi a Cambridge, infine alla Columbia, un viaggio illuminante – ma non risolutivo – a Roma. Il profeta di Merton è William Blake, su cui scrive la tesi: “Che cosa fu per me vivere in contatto col genio e la santità di William Blake… come appaiono deboli e isteriche le ispirazioni degli altri romantici a paragone del fuoco spirituale terribilmente vivo di William Blake! Persino il Coleridge, nei rari momenti in cui la sua fantasia attingeva la vetta della vera creazione, rimaneva sempre e soltanto un artista, un poeta immaginoso, non un veggente; un costruttore, non un profeta… A dodici anni già scriveva poesie migliori di quante ne avrebbe scritte Shelley in tutta la vita. E questo probabilmente perché a dodici anni aveva visto Elia, ritto sotto un albero nei prati a sud di Londra”.
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Il rapporto di Merton con il sacro è mediato dai libri, dall’affanno a comprendere. Divora Sant’Agostino, percorre l’Imitazione di Cristo, cerca Aldous Huxley, studia Jacques Maritain. Quando riceve per la prima volta la comunione cattolica, il 16 novembre del 1938, a 23 anni, Merton è imbevuto dalle letture di Gerard Manley Hopkins (“Mi immersi nella sua poesia e nei suoi diari… Cosa facevano i Gesuiti? Che faceva un sacerdote? Come viveva? Non sapevo neppure dove incominciare a cercare cose del genere, ma esse ormai esercitavano su me una misteriosa attrazione”), ha vangato dentro James Joyce (“Continuai a leggere Joyce sempre più affascinato dalle figure dei sacerdoti e dai quadri di vita cattolica che di quanto in quando prendevano rilievo nei suoi libri”). L’inquietudine di Merton – la stessa che lo porterà in Asia, esattamente trent’anni dopo, affascinato dal buddismo, e a morire, tragicamente – è al principio speculativa: vuole possedere Dio, circoscriverlo e azzannarlo. Per questo, probabilmente, ha scritto così tanto.
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Attratto dalla Trappa di Gethsemani, Kentucky, Merton vi entra il 10 dicembre – giorno della morte, dell’altro ingresso – del 1941, pronunciando i voti sei anni dopo. Nel 1949 diventa sacerdote. L’anno prima aveva pubblicato La Montagna delle Sette Balze, libro autobiografico di culto; la bibbia di chi preferisce le vite altrui al cospetto di Dio piuttosto che esercitare la propria, fino a sputtanarla, a raderla al suolo. Il libro – appassionante, sia chiaro, benché viziato da eccesso di eloquio – continua a essere stampato da Garzanti. Merton, però, è primariamente poeta – in quel linguaggio dell’eccedenza s’avverte meglio l’Eccedente. Nel 1944 New Direction, che ha in catalogo i suoi libri maggiori, pubblica Thirty Poems; due anni dopo A Man in the Divided Sea. Pubblicato a lungo, in lungo e in largo, in Italia, ora, editorialmente, Merton pare più che altro un pio saggista animato da vigore ecumenico.
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Le poesie di Thomas Merton, scomparse dagli orizzonti librari, hanno una furia totalmente contemporanea, propria di un Isaia metropolitano, di uno che mescola le visioni di Enoch ai clangori di Pound. In Italia, Merton ha un traduttore d’eccezione, Romeo Lucchese, amico di Ungaretti e già traduttore di Saint-John Perse, che così, in Cablogrammi e profezie (Garzanti, 1972), ne riassume l’indole lirica: “All’origine del mondo spirituale di Merton stanno Villon e Rimbaud; il primo per il suo cattolicesimo amaro, ma umano, umile e pieno di speranza nella redenzione; il secondo per le sue innovazioni universali sul piano del pensiero e dell’espressione… Spesso negli ultimi anni della sua attività il poeta-trappista ha usato forme libere assai efficaci quali gli intarsi di Pound, il continuum di Joyce, la fusione tra passato e presente di Williams, gareggiando per il ritmo e nelle immagini con Dylan Thomas e tenendo presente, nel rappresentare il mondo odierno dominato dalla tecnocrazia, le visioni di William Blake”.
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La poesia di Merton ha tratti da rotolo dei profeti impazzito nella fornace odierna: “I libri sacri vengono confiscati dalla polizia per mantenere gli occhi sotto una cupola cieca. Si studia il famoso testo in tribunale. Le parole sacro conservate in una camera blindata. Conservano i miei romanzi in una scatola di cioccolatini… Gli ultimi libri sotto chiave sono conservati in gelosi Senati della memoria per futuri godimenti in tempi più prosperi. Tenete gli occhi fissi davanti a voi, è sparita la vecchia cupola: una lucida Chiesa calva con un buco in testa un vero pantheon”. Anche quando il poeta salmeggia, l’ossessione è quella: la dissoluzione del sacro. “Preghiamo che gli occhi dei nostri figli/ Possano un giorno leggere ancora/ Gli scritti sacri”.
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Antico il monito di non accettare il creato ma di uncinarlo con i verbi, per accelerare la giustizia. Di Merton sorprende la rapidità epigrafica, la lirica come lapidazione. “Nelle vie sante non vi è mai tanta necessità”; “Nelle vie sacre non vi è mai un comando/ Mai un fardello”; “Il Salvatore fermo attraversa il cielo su una tromba”; “Il segno R del Redentore/ Regala a Marte l’ultima guerra”. Risuona l’interrogativo primordiale: bisogna interpretare la parola o generare parola verminante dal Verbo? I Trappisti, come si sa, si attengono alla pratica del silenzio.
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A volte ci accontentiamo di ‘spiare’ Dio al posto di espiarlo; siamo dei voyeur del sacro più che degli avventurieri. Le poesie di Merton – perché non le ristampano? – non dicono la pace, ma una rettitudine nell’inquieto. “Ciò che vidi mi penetrò come un coltello”, scrive Merton dopo aver scoperto l’esistenza dei Trappisti. “Che meravigliosa felicità esisteva nel mondo! Su questa terra miserabile, rumorosa e crudele, v’erano dunque ancora uomini che assaporavano la gioia stupenda del silenzio e della solitudine, che abitavano in remote celle sui monti, in monasteri appartati, al riparo dalle notizie, dai desideri, dagli appetiti e dai conflitti del mondo. S’erano liberati dal peso della tirannia della carne e i loro occhi limpidi, purificati dal fumo del mondo e dal suo irritante sentore, si elevavano al cielo e ne penetravano gli abissi infiniti, e la luce salutare. Erano poveri, non avevano nulla, e perciò erano liberi e possedevano ogni cosa, e tutto ciò che toccavano emanava una scintilla del fuoco divino”.
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In Emblemi di un’età di violenza (Garzanti, 1971), un poema in prosa, Hagia Sophia, conclude così: “Le ombre cadono. Appaiono le stelle. Gli uccelli cominciano a dormire. La notte abbraccia la metà silenziosa della terra. Un nomade, un misero vagabondo impolverato, trova la sua via lungo una nuova strada. Un Dio senza dimora, perduto nella notte, senza documenti, privo di identità, senza neppure un numero, un fragile esule stremato giace disteso nella desolazione sotto le dolci stelle del mondo e affida Se stesso al sonno”. Certo, la lotta – con anca storpia e scale al contrario – inizia nella gola di Dio; il resto, non è legge ma lettura, letteratura. Vanità. (d.b.)
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Cactus che fiorisce di notte
Io conosco il mio tempo, che è oscuro, silente e breve
Perché io sono presente senza avviso per una sola notte.
Quando il sole si leva sulle bronzee valli divento serpente.
Benché mostri il mio vero io solo nel buio e a nessuno
(Perché io appaio di giorno come serpente)
Non appartengo né alla notte né al giorno.
Il sole e la città mai vedono la mia profonda e candida campana
Né conoscono il mio immemore momento di vuoto:
Non ci è risposta alla mia munificenza.
Quando arrivo io elevo l’improvvisa Eucarestia
Alta sull’impenetrabile gioia della terra
Chiaro e totale obbedisco al corpo del mondo
Io sono complicato e intatto, non manierata ma violenta passione
Eccelso profondo piacere di acque essenziali
Santità di forma e minerale gaiezza:
Sono l’estrema purezza della casta sete.
Io non mostro la mia verità né la celo
La mia innocenza è scoperta oscuramente
Soltanto dal dono divino
Come una caverna bianca senza spiegazione.
Colui che vede la mia purezza
Non osa parlarne.
Quando apro una volta per tutte la mia impeccabile campana
Nessuno interroga il mio silenzio:
L’onnisciente uccello della notte s’invola dalla mia bocca.
Lo avete visto? Benché la mia gaiezza finisca presto
Voi vivete per sempre nella sua eco:
E non sarete più gli stessi.
Thomas Merton
(traduzione di Romeo Lucchese)