28 Marzo 2021

Regola e deserto. Catabasi nella poesia di Gian Ruggero Manzoni

La poesia, anzitutto, è regola – cioè, regolamento di conti. La regola è cosa regale, non un reggimento: se parla a tutti, pretende proprio te; sancisce una disciplina, dunque il principio di un’evasione. La poesia necessita di essere messa in atto, di essere agita, fino alla soglia illecita del rischio – in massimo grado la poesia di Gian Ruggero Manzoni.

La regola non regolamenta le masse, non è una costituzione; la regola sconfigge le moltitudini che ci abitano, torma di iene, azzerandole. Riduce l’ego in ago; ammette uno spiraglio, per atletica ambizione all’obbedienza. Lo spiraglio, da lì, dilaga, diventa fuga, falò – questo libro, in effetti, è una consegna: una regola, una torcia.

La regola non è enciclopedica – non è neppure un decalogo. San Paolo riassume la regola agli accoliti di Tessalonica così: “State nella gioia. Pregate ininterrottamente. Di tutto ringraziate”. Che questa gioia sia raffinata come un coltello è un fatto – ininterrottamente significa: levigare il verbo fino alla sua sete. Quando Francesco è da Innocenzo III non porge un catechismo. La formula vitae che esprime al papa si fonda su tre versetti evangelici, questi:

se vuoi essere perfetto

va’ – vendi ogni bene

dà tutto ai poveri

in cielo è il tesoro

e vieni

e seguimi (Mt 19, 21)

*

afferrate nulla

né bastone né sacca

né pane né denaro (Lc 9, 3)

*

se vuoi seguirmi

annientati

perditi

abbraccia la croce

rintracciami (Mt 16, 24)

Più che altro, è una latitanza da segugi nel nulla. Sequela di diseredati. La sola regola è perdersi.

*

Il deserto è il luogo dove l’uomo incontra se stesso, dunque il demonio – dove Dio può essere confuso per l’Avversario, e viceversa – dove la morte appare, a tratti, come un balsamo. L’uomo costruisce città, questi lebbrosari di vetro, ma anela al deserto: perché vuole vedere il mondo prima del primo giorno. “La terra era informe, deserta, stretta tra tenebre” (Gen 1, 2). Questo è libro di deserti, interstellari e letali, dove vince l’ordalia delle promesse e il roveto non rivela nomi ma scorpioni, e i favi sono avvelenati.

Come si sa, l’esistenza del Nazareno è scandita dal deserto. I suoi genitori ripercorrono l’esodo, da Israele a Egitto e ritorno, quando Egli è bimbo, educandolo all’espatrio, allo spargimento; il battesimo assegnato dal Battista deve il sigillo al deserto, dove Gesù incontra il diavolo; spesso, durante la sua missione, il Cristo si ritira nei deserti – tra le rocce, dove abbaglia l’ombra dello sciacallo e si apprende l’etica del cobra – perché le folle, e perfino i discepoli, lo stremano. Gesù, davanti a chi accusa l’adultera, redige la propria regola sulla terra, scrive sulla sabbia. Mi colpisce sempre un versetto di Marco, che chiude la ‘vignetta’ della tentazione di Gesù nel deserto. “Era con le fiere, e gli angeli lo servivano” (1, 13). Come se tra bestie e angeli vi fosse prossimità e l’uomo sia l’anomalo, l’impotente, quello che si ciba di patti, di disfatte. Il Figlio ha casa lì, nel deserto, tra le fiere – theríon, le bestie selvatiche, non addestrate dall’uomo – e gli angeli: sottrarlo da quel tempio è una lacerazione.

L’uomo è fatto per il deserto, dove proliferano gli idoli che fermentano nella solitudine, pattugliano le ammissioni inadeguate. Nella profusione di deserti allineata da Gian Ruggero Manzoni – dacché il giorno, scuoiato fino al barlume più intimo, e ancora e ancora, è una sfilza fatale di deserti – vedo le comunità del lago Mareotide menzionate da Filone l’Alessandrino, vedo i deserti artefatti e cristallini di Cristina Campo, e le pianure percorse fino al sangue, azzurro, degli Sciti, adorati da Erodoto, e i deserti orientali di Dersu Uzala, il deserto interiore di Lev Tolstoj e di Kurtz, il sogno meridiano di Orfeo, le dune sessuate di Paul Bowles, i deserti miniati, cabbalistici di Edmond Jabés e la storia desertificata di René Char e il Gobi varcato da Saint-John Perse con un quaderno in tasca; Asterione, di fronte a cui il labirinto, Eden ipocrita dei re, è un deserto; l’estasi bianca di Antartide, dove si va per frugare il corpo – ostaggio del gelo – alla ricerca del più intimo desiderio di Dio, e a lui polarizzare i palmi. “Gli occhi si congestionano, danno la sensazione di avere della sabbia accumulata sotto le palpebre”, scrive Ernest Shackleton, raccontando la terribile “cecità delle nevi”: il sole, scheggiato dal ghiaccio, moltiplicato, scava l’iride fino a farla esplodere – non c’è rivelazione più piena del bianco. Il Polo Sud come il Sahara.  

*

La santità, qui, è il suo opposto: brama barbara, radiante rettitudine, cupa colpa, il colpo collaterale del tradimento, la congiura. La regola, così, si volta in vomito, vetrofania del caos; il deserto serve per la mattanza. C’è un momento in cui non bisogna più leggere Evagrio Pontico e Massimo il Confessore, ma divorarli, e stanare Borges dal suo mercimonio di specchi, dal sacrilegio delle spade spezzate e degli enigmi. Gian Ruggero Manzoni altera lo Zohar in pisciatoio, svolge ogni teologia in letamaio – perché così va fatto. Poesia non ammette dissolvenza – il grigiore dei cantori del comò, nebbia fetida, priva di agnizioni – semmai la dissoluzione, perché dalla propria caduta, infine, si arrivi al primo giorno. Il Nazareno sapeva modellare il legno: ha valutato la compattezza del tavolo su cui ha spartito il pane, della Croce, scissa in tozzi, han fatto sgabelli.

Se tutto è amore, tutto è capovolto. Che il santo sia immondo, smodato, audace all’incredibile, lo scrive Isacco di Ninive, così: “L’amore è qualcosa di bruciante per sua natura e quando penetra senza misura in un uomo, rende folle la sua anima… Di questa passione si sono inebriati i martiri, per essa gli apostoli hanno percorso la terra intera come folli, i santi sono stati tribolati, hanno ricevuto insulti, sono andati errando per i deserti. Da moderati, divennero smodati; da sapienti, volontariamente stolti; da misurati, stravaganti con discernimento”. Di notte il corvo, volatile amato da Dio – “Guardate i corvi: non seminano, non mietono, non anno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre”, Lc 12, 24 –, sembra un angelo.

*

“Io lascio che le cose seguano l’ottundimento delle cose, che la polvere si faccia catturare dalla polvere; in questo modo lo spirito non si inquina”, scrive Shitao, il grande pittore cinese vissuto nel XVII secolo. Eppure, l’uomo è polvere, Dio lo estrae dalla polvere (afàr), distratto al nulla, e il suo destino è polverizzarsi: per questo, nel deserto, dove aleggia Dio, l’uomo trova se stesso – e il diabolico desiderio di ricrearsi. Se Dio ci avesse fatto così, mutili, per mutarci? Quando Gesù scrive nella polvere, riavvia il mondo.

*

Gian Ruggero Manzoni non sarà buon compagno per i deserti. Dopo avervi illustrato le stelle miliari – l’Orsa, per i Berberi, è la Cammella, “l’occhio è la stella più brillante e indica alle carovane e ai viandanti del Sahara la via del settentrione” – saprebbe uccidervi, ricavando coltelli dalle vostre costole e una ciotola per i cani dal cranio. Un patto si sancisce per effrazione, un codice ha nel superamento la propria mistica e Dio appare soltanto a un prescelto. Se il deserto è un altare, questo libro ne è il sacrificio – a noi lettori, dunque, resta l’oracolo, che risuona fino alle vite ulteriori.

Davide Brullo

***

Si pubblicano per gentile concessioni alcune placche dal poema di Gian Ruggero Manzoni, “Ultramodum”, MC edizioni, 2021

1

Ai limiti del Sahara i mietitori innalzano cumuli di grano saraceno per ingraziarsi le passioni dell’estate.

Terminati i lavori, c’è chi spigola qua e là, per fare focacce con quei pochi chicchi rimasti. Le scafe dimenticate spuntano dai rovelli di polvere, sciolti dal rimestare delle scope di saggina.

Laggiù le nuvole avanzano. Lampi, rombi, ma ancora non piove.

In quel mare di sabbia e rocce, che da sempre conosco, dicono che i poveri che spigolano possono ritrovare l’anima, e chi non crede in essa il perdono o la pace, ma pare che nulla vale se si è soli. L’anima ritrovata… o l’armonia… necessita di un dire costante con l’altro, per tornare concreta presenza, in questa assente e ingrata dimensione.

*

11

Quaranta giorni nel deserto, o forse quarant’anni.

Il mio respiro è acido; è anidride solforosa allo stato puro.

Inutile, provoco l’edema polmonare a chi mi contrasta, e a chi mi sta dinnanzi, il metallo gli si materializza in gola, in essa fonde, poi cola rovente nella trachea e nell’esofago, e la maledizione lo avvolge.

Ora non raccontarmi che l’angelo del tuo signore mi trovò in un fagotto di cenci presso la sorgente che è sulla via di Sur; io non sono il capro che condurrà in spalla tutte le iniquità degli uomini, e che poi verrà lasciato libero, perché vaghi in quello spazio senz’erba né fiori.

Io non più racchiudo, in petto, quel popolo che partì da Aseròt per quindi montare le tende nei campi sassosi di Paràn. A quel popolo a cui l’egiziano sussurrava: “Chi non conosce il silenzio del deserto… non conosce il silenzio” per poi spronare il cavallo e fuggire al galoppo, in quel muto nitrire di fantasmi, e d’inviati del demonio. 

*

22

Nel suq di Porto Said si friggono fiori di zucca impastati con pane azimo e jben di capra.

I tosatori si adoperano con le pecore; i pappagalli ti chiamano; al mercato degli uccelli puoi trovare ibis impagliati, nonché odi il flauto del giovane Zìbar, che addomestica lucertole e ramarri.

A queste latitudini si respira ogni giorno quel tanto di assurdo e di confuso.

Mai ci si libera dalla sensazione che il tutto sia falso, che la commedia perduri a oltranza, che dall’inganno o dal palcoscenico mai si possa evadere.

Il ghibli fa vibrare poi suonare le baionette, mentre le cicale segano e risegano in calma di vento, quando la calura consuma, e la cometa ancora ci attende.

*

33

Angoscianti le tracce dell’amore andato… quei panni, quegli oggetti, quelle statuette, quei cuscini.

Lasciarsi è difficile, in compenso, la solitudine, è verità nel porsi come la natura richiede.

Forse che lo stare assieme implichi una buona dose di banalità e la monogamia sia un’altra delle tante invenzioni dell’uomo che venera l’invenzione dell’unico dio?

Dove e quando quel momento originale che è in noi?

Comunque, ancora preferisco il teatro dell’amore, più che il riconoscermi per quel che sono… cioè un’assenza… cioè un grido, soffocato dalla creta, dal forse, a dall’incestuoso accoppiarmi con un altro me stesso… e con un altro me stesso… e con un altro me stesso… e con quel molteplice dio, astuto consesso di tutte le cosmiche e ridicole blasfemie, costruite sul nulla… edificate sul niente… abortite dall’insapere come dall’insuccesso.  

Gian Ruggero Manzoni

Gruppo MAGOG