Per la presente trattazione, è bene prendere le mosse da un’affermazione del filosofo tedesco Fichte, contemporaneo di Hölderlin, e padre dell’Idealismo Tedesco, tratta da Le basi dell’era attuale:
“Qualsiasi cosa realmente esista, esiste per assoluta necessità; ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste. È impossibile che non esista o esista in modo diverso da com’è”.
Curioso che questa affermazione di stampo quasi deterministico si sposi nella dottrina del filosofo dell’infinità dell’io, con un concetto di esso pensato come attivamente spontaneo e libero. Il fatto è che nella Dottrina della Scienza Fichte pone l’attività generatrice dell’intuizione intellettuale, ovvero il per sé autoevidente del soggetto pensante – ritenuta da Kant come incompatibile con i limiti costitutivi dell’intelletto umano e quindi comunque separata dalla realtà nel suo in sé – come caposaldo da cui dedurre, qui necessariamente, l’intero mondo del sapere e in definitiva il mondo nel solo avvenire che gli è necessario, ovvero necessariamente per l’io.
È intrinseca a questa concezione l’azione come fulcro della vita e il rifiuto della passività: una lotta incessante per annullare i limiti del reale, ovvero il non-io (oggetto, mondo) con la sua ottusa, opaca presenza di ostacolo… Particolarmente aggressiva, dominatrice e sdrucciola dal punto di vista etico si fa la dottrina di Nazione, in questo ambito: pangermanista, fondata sull’idea di primato della nazione tedesca e contrapposta a quella, ritenuta solo formale, di Stato. Parimenti la speculazione sembra essere l’opposto della vita. Scrive Fichte: “E la speculazione è questo uscir fuori dalla vita reale, questo luogo di osservazione esterno ad essa. All’uomo è possibile conoscere se stesso solo in quanto vi siano due differenti prospettive: quella alta sopra la vita accanto a quella della vita. Si può vivere e forse vivere in modo del tutto conforme a ragione, anche senza speculare; si può infatti vivere senza conoscere la vita; ma non si può conoscere la vita senza speculare […] Vita è, in senso del tutto specifico, non filosofare: filosofare è, in senso del tutto specifico, non vivere”.
Questo carattere di “attivismo” che sembra rifuggire il rovello del pensiero, risulta in qualche modo vicino alla concezione nietzschiana del rifiuto di una eccessiva interiorizzazione e del risentimento cui conduce necessariamente quando vi è un deficit di azione spontanea e non mediata. Ma qui bisognerebbe fare delle necessarie distinzioni che esulano da questa trattazione. E va aggiunto, che non si comprende bene la precedente citazione di Fichte se non si distingue tra intelletto e ragione, e non si coglie che l’idealismo tedesco ritiene (rovesciando Kant) che l’intelletto è una facoltà astratta, la quale irrigidisce, cristallizza le opposizioni della realtà e del pensiero, mutandoli in dualismi sterili, mentre la ragione è in grado di cogliere l’inesauribile movimento della realtà vivente.
Sembra, comunque, che vi siano due moti nell’Idealismo in esame: uno centripeto e uno centrifugo proprio nel dispiegarsi dell’io, e che l’autocoscienza sia il solo elemento capace di conciliarli senza una frattura non riassorbibile. Ma v’è sempre dietro l’angolo il pensiero della scissione, per cui l’io non è una sorta di monade, è piuttosto legato al limite e all’opposizione. Indubbiamente Fichte esalta la lotta indefessa e incessante dell’io contro gli ostacoli e i limiti della natura e privilegia una sola facoltà, ovvero la ragione.
Per Schiller, da cui Hölderlin si discosta in parte almeno quanto da Fichte, si tratta invece di sviluppare armonicamente un insieme di facoltà per un verso virtuoso che ne esalti il legame intrinseco e inscindibile, una visione integrata che rifiuta di mutilare la natura umana depauperandola della propria ricchezza originaria, ispirandosi per quanto possibile all’antichità greca. Ma scissione è di nuovo la parola chiave di un’epoca che impedisce questo concetto trasformandolo in utopia: la divisione del lavoro, la parcellizzazione delle facoltà e delle forze umane, un io in lotta per l’affermazione di sé che non esce dal gioco di specchi dell’idealismo fichtiano, la stessa scissione, già accennata, tra Stato e Nazione. A ben vedere, in Fichte, quanto al rapporto tra uomo e natura, non si va oltre l’idea di un imperioso dominio su di essa, esattamente come avviene nell’empirismo inglese e in particolare in Bacon. Hölderlin vuole invece recuperare una conciliazione e un’unione ataviche che si sono smarrite nella modernità: l’uomo moderno non è solo figlio delle scissioni di un’Epoca ma anche di un atteggiamento dominatore volto a trarre vantaggio dalla natura nel segno di una tracotante distanza dal sacro delle sue leggi sottili e dal senso panico; egli non la abita più, ne ha fatto un oggetto da indagare per meglio sfruttarlo traendone vantaggi esclusivamente materiali. Essa è divenuta Organon.
E veniamo finalmente a Hölderlin: l’alternativa suggerita da questi alle posizioni che si è or ora preso in esame, da una parte una presunta identità originaria priva di contrasti (Schiller) e dall’altra l’eterna teoria di specchi dell’io e del non-io in un alterno gioco di scissione e identità (Fichte), è anche una terza via rispetto a idealismo (dominio del soggetto sul mondo) e realismo (dominio del mondo sul soggetto), è una fusione con la natura come Tutto, nel segno di una unità vicina alla sostanza spinoziana così come all’Uno neoplatonico. In questo tempio, la sacralità della vita recupera la propria pace e armonia attraverso una fusione con la natura che è un rapporto vivificante, e se la dimensione eminentemente tragica si articola attraverso degli opposti è anche vero che essi non si risolvono nel dominio dell’uno sull’altro, ma in una complessa dialettica in cui negazione e affermazione generano un movimento incessante e poietico, pieno e non mutilo.
Ma qui non si tratta altro che del rapporto tra necessità e libertà, tra natura come limite e natura come unione originaria e armonica di Soggetto e Oggetto. La predilezione di Hölderlin per il tragico e la poesia diviene espressione massima di un plesso sacro tra uomo e mondo in cui si concreta una forma di panteismo entro la quale il poeta coglie attraverso l’intuizione intellettuale quanto falso sia il dominio della ragione e quanto sapidi i frutti di una unione vibrante e sensiva con una natura che è in incessante movimento e in cui gli opposti non sono qualcosa di statico e granitico. È questa una identità forte e non riflessiva (si intenda per riflessivo il Soggetto che torna su sé) che in origine sussisteva e in età moderna si è atomizzata e disgregata. V’è lotta, sì, tra morte e vita, e tra tutti gli opposti di cui il tragico è manifestazione, ma essa crea un dinamismo tale da essere incessante trasformazione ed espressione massimamente vitale. Si potrebbe dire quasi che il concetto di libertà si abbevera qui alla fonte del necessario in quanto espressione massima di una vita colma e traboccante, che eccede di sé per necessità intrinseca.
Si assiste a due paradigmi, entrambi ingannevoli: un eccesso di interiorità (sentimento) e un eccesso di penetrazione della natura (conoscenza); da un lato l’organico che segna un abbandono della propria essenza, della coscienza, per calarsi nella conoscenza oggettivante della natura, dall’altro una ipertrofia dell’io. In questa oscillazione tra due modalità contrastanti, l’uomo civilizzato (e qui rientrano la formazione e l’elemento ontogenetico figli di un’epoca, appunto, scissa) ha reso la natura più organica e se stesso più aorgico, universale, infinito. Hölderlin concepisce l’organico non come aggettivo relativo all’ambito biologico – come Schelling e Goethe –, ma come attributo del mondo storico. L’organico è la sfera dello strumento, della techne in senso ampio. L’organico è il modo in cui l’umanità edifica la propria immagine storica, politica, artistica: non la natura, il biologico, ma la cultura nel suo processo di natura plasmata. L’aorgico, invece, rappresenta pertanto l’alienazione a cui la natura è sottoposta, di necessità, per venire ad essere cultura, come ad esempio nella transizione dal naturale del sublime alla configurazione culturale del bello: dal caos alla forma. Sono quindi due nozioni ontologiche, volte a indagare la pensabilità stessa del tragico, e mimetiche, atte a disegnare la possibilità di rappresentazione della tragedia. Inizia attraverso l’enucleazione di questi due principi la speculazione hölderliniana sul tragico. Il destino nefasto dell’eroe tragico è l’espressione del rapporto dialettico dell’aorgico e dell’organico: la soggettività si fa aorgica proprio nella sua spersonalizzazione, quando la sfera del non-io soverchia l’individualità organica dell’io.
Per citare lo stesso Hölderlin del saggio Sul tragico:
“Al centro vi è la morte del singolo, ovvero quel momento in cui l’organico si spoglia della sua egoità, della sua particolare esistenza, divenuta un estremo, e l’aorgico si spoglia della sua universalità, non, come all’inizio, in una ideale mescolanza, ma nella realtà della massima lotta: mentre il particolare nel suo estremo deve sempre più attivamente universalizzarsi, sempre più staccarsi dal suo punto centrale muovendosi verso l’estremo dell’aorgico, l’aorgico deve sempre più concentrarsi verso il particolare, raggiungendo sempre più un punto centrale, divenendo qualcosa di estremamente particolare, in cui allora l’organico divenuto aorgico sembra ritrovare se stesso e ritornare a se stesso, acquisendo individualità, e l’oggetto, l’aorgico, sembra trovare se stesso, incontrando al tempo stesso l’organico al massimo estremo dell’aorgico, sicché in tal momento, in questa nascita della massima ostilità, sembra davvero esserci una massima riconciliazione. L’individualità di questo momento è tuttavia soltanto il prodotto del massimo conflitto; la sua universalità soltanto il prodotto del massimo conflitto”.
Ma dalle parole dello stesso Hölderlin, apprendiamo di più intorno alla sua concezione peculiare della tragedia: “…La tragedia è drammatica per la sua materia e la sua forma… Contiene una terza materia estranea, diversa dall’animo e dal mondo propri del poeta, che egli ha scelto perché l’ha trovata sufficientemente analoga per trasporvi il suo sentimento totale e conservarvelo come in un recipiente, e questo tanto più sicuramente quanto più la materia è estranea nonostante l’analogia; infatti il sentimento più intimo è esposto alla caducità nella misura in cui non nega le relazioni vere temporali e sensibili… E perciò è anche una legge lirica – se ciò che è interiore là è meno profondo in sé, e quindi più facile da mantenere – negare il nesso fisico e intellettuale”. Per Hölderlin l’ode tragica è, poi, figlia di un iniziale eccesso di interiorità che deve finire per varcare i suoi limiti, senza mantenere stemperate le relazioni tra coscienza, riflessione, e sensibilità fisica. “L’ode tragica comincia nel fuoco più alto…” E ancora: “Essa passa necessariamente dall’estremo della distinzione e della necessità, all’estremo della non distinzione di ciò che è puro, del soprasensibile che sembra non riconoscere alcuna necessità; di là quindi cade in una sensibilità pura, in una interiorità più moderata, giacché l’interiorità originariamente più alta, divina, ardita, là è apparsa come estremo… Dagli estremi della distinzione e della non distinzione essa deve passare in quella riflessività e in quel sentimento tranquilli in cui certo deve necessariamente sentire la lotta di quella strenua riflessività, e quindi il suo tono iniziale e il proprio carattere come opposizione, l’ideale che concilia queste due opposizioni risulta in modo più puro, il tono originale è ritrovato…”, ma a partire dall’esperienza di ciò che è eterogeneo, recuperando libertà e radicalità.
Se nel poema tragico spicca l’interiorità più profonda, è anche vero che ciò è nel segno della distinzione e nelle opposizioni, ma nella forma precisa di un linguaggio immediato del sentimento. Esprimendo esso un’interiorità più profonda e un divino illimitato quanto più abbandona il suo grado di immediatezza e trasferisce il proprio animo e le proprie esperienze in una materia estranea, analogica.
“Anche nel poema tragico drammatico, quindi, si esprime il divino che il poeta sente e sperimenta nel proprio mondo, anche il poema tragicamente drammatico è per lui una immagine del vivente, quale gli è ed è presente nella sua vita; ma come questa immagine della interiorità tanto più nega e deve negare ovunque il suo ultimo fondamento a misura che deve ovunque avvicinarsi al simbolo, quanto più l’interiorità è infinita, inesprimibile, e quindi più vicina al nefas…”
Qui la materia deve divenire un ardito ed estraneo paragone del sentimento, e la forma avere il carattere della separazione. Attraverso zone altre, estranee, l’interiorità si fa simbolo superando la sua contingenza storica, politica e persino artistica, e la stessa sofferenza diviene uno dei gradi più alti del sentire, proprio come avviene nell’Iperione: “La volontà che non soffre è sonno, e senza morte non v’è vita”. Ma lì troviamo anche un’altra sorprendente enunciazione:
“Scaturisce poi tutto dalla gioia e termina pur tutto nella pace”.
Pare che qui si tratti di un amore fatale per l’oblio, la quiete, l’annientamento, il ricongiungimento con quel Principio unico, indistruttibile e ammaliante che è tesoriere dell’Anima stessa e della bellezza del mondo. Come brillantemente suggerisce Benjamin, è nodale qui il problema del conflitto tra il momento “orientale” dell’illimitato e il “fenomeno delimitato dalla propria forma in quiete e in sé conchiusa”. È come se per approssimazione asintotica il poeta, cui Hölderlin conferisce un valore altissimo, potesse conseguire una condizione di pace, di quiescenza, di esito alla sofferenza stessa che implica la vita; in questo quadro sentire e sentire fortemente è certo un antidoto all’elefantiasi dell’intelletto e della razionalità indagatrice che oggettivizza qualcosa che non può essere ricondotto a mere elaborazioni apodittiche e dimostrative, o essere dipanato in via logica, non è ancora, però, coincidenza di scaturigine e fine. Intuire diventa, allora, romanticamente, il solo modo di attingere quella bellezza e quella possanza vitale di cui la natura è un tempio e in quanto tale attende il ricongiungimento del singolo con la sua necessaria infinitudine. La limitatezza, la singola soggettività, come ciò che è storicamente determinato, ciò che è inferibile e dimostrabile, non esauriscono il discorso sulla vicenda dell’uomo.
L’arte, la poesia, sono un ponte verso l’inattingibile (inattingibile in forma compiuta), sono figli di un raptus, di una intuizione non sensibile (valga sensibile come empirico), un “conatus” verso ciò che non è enunciabile né descrivibile se non per analogia, per similitudine, e questo perché è necessariamente e naturalmente dislocato da un principio d’identità descrittivo (assimilabile a un soggetto col suo predicato). Scrive Hölderlin nella sezione Il divenire e il trapassare:
“Di qui l’assoluta originalità di ogni linguaggio autenticamente tragico, la perenne creatività… Il nascere dell’individuale dall’infinito e il nascere del finitamente infinito o individualmente eterno da ambedue, il comprendere e vivificare non ciò che è diventato incomprensibile, funesto, bensì ciò che nella dissoluzione è incomprensibile e funesto, il conflitto della morte stessa, mediante ciò che è armonico, vivo. Qui non si esprime il primo, grezzo dolore della dissoluzione, ancora troppo ignoto nella sua profondità per chi soffre e contempla; in esso il nuovo che nasce, l’ideale, è indeterminato, più un oggetto di timore, mentre la dissoluzione stessa in sé sembra più realmente effettuale, un qualche cosa che sussiste, e ciò che si dissolve si trova in una condizione tra essere e non essere, nella necessità”.
Ma nella condizione tra essere e non essere l’ambito del possibile in sé diventa ovunque realmente effettuale e il veramente effettuale ideale proprio nel libero dispiegamento della produzione artistica, essa è “un sogno terribile ma divino”.
Il momento iniziale e quello conclusivo sono già posti, e tale dissoluzione è più sicura: “un atto riproduttivo, per il quale la vita percorre tutti i suoi punti e, per guadagnare l’intera somma, non si sofferma su nessuno, si dissolve in ognuno di essi per riprodursi nel seguente…”. Questa dissoluzione ideale determina una compenetrazione vicendevole di tutto, e in cui dolore e gioia si congiungono, così pure conflitto e pace, moto e quiete, forma e assenza di essa, e lì “invece di un fuoco terreno opera un fuoco celeste”. In questo, morte e vita sono in un sodalizio indiscernibile e ciò che è finito e determinato, individualizzato, sembra anelare all’infinito di nuove e inedite possibilità che attingono a una forma di vitalismo senza soluzione di continuità.
Dalla tragica unificazione di infinitamente nuovo e finitamente vecchio scaturisce una nuova individualità, poiché il primo ha assunto la forma dell’altro, si individualizza nella sua forma. Ora, la nuova individualità aspira a isolarsi distaccandosi dall’infinità, e analogamente l’isolato, l’individualmente vecchio vuole generalizzarsi e dissolversi nel sentimento infinito della vita. Il primo periodo, in quanto dominio dell’individuale sull’infinito, del singolo sulla totalità, si oppone al secondo, in quanto dominio dell’infinito sull’individuale, della totalità sul singolo. Il terzo periodo (qui ancora una triade) è quello in cui l’infinitamente nuovo, in quanto sentimento della vita (io) si comporta verso l’individualmente antico in quanto oggetto (non-io).
È, poi, come se l’originario fosse forza assoluta ed essa risultasse distribuita in facoltà secondo un principio equo e uniforme: la luce della vita e il fenomenico sono come una debolezza della totalità. Ogni segno deve essere posto uguale a zero, essere riconosciuto come insignificante, e solo allora può affiorare il celato fondamento di ogni natura.
Se in una prima fase del pensiero di Hölderlin l’esperienza tragica consiste nella riunificazione del finito e dell’infinito nella morte, in una fase più tarda, dopo il 1800, maturata attraverso la attenta riflessione sui testi sofoclei, il rapporto tra la finitezza dell’uomo e l’infinito divino propende verso la finitezza, quale allontanamento del divino, abbandono dell’uomo nella sua condizione di essere mortale. La rappresentazione tragica non ricorda più dunque, la fusione del particolare (umano) con l’universale (divino), ma l’impossibilità di superare il limine della finitezza.
E nell’Iperione, Hölderlin, sembra oscillare tra questi due assunti apparentemente inconciliabili… Nel Canto di Iperione sul destino silegge:
“Circonfusi di luce,
per morbide plaghe,
voi vi aggirate lassù,
Numi beati!
E vi disfiorano
le fulgide brezze celesti
lievi
come musiche dita
le sacre corde dell’arpa.
Non oppressi dal Fato
respiran gli Dei
col dolce respiro
del tenero bimbo nel sonno.
In umile boccio raccolta,
immacolata,
eternamente fiorisce
l’anima loro:
e gli occhi beati
guardano sereni
in una imperitura chiarità.
Ma la sorte, ai mortali,
destina
non trovar pace
in alcun luogo, mai.
Scompaiono
cadendo ciechi
da un’ora nell’altra,
com’acqua montana scagliata
di rupe in rupe
pel corso degli anni
verso l’Ignoto
laggiù”.
Nell’ultimo canto di Iperione, invece, appare una speranza come uno squarcio di luce in un cielo torvo, per cui vengono paragonate alle discordie tra amanti le dissonanze del mondo, e sembrano solo destinate a far germogliare una novella unione, cosicché tutto ciò che prima era scisso può diventare uno. Come le vene che diramano dal cuore e al cuore tornano, tutto, nel mondo, è “perenne ardore”.
Da notare come in questi opposti non v’è a seguire un momento di sintesi, ma se la sofferenza, l’inquietudine, il tormento sono espressioni del destino umano, l’amore, la speranza, la gioia, sono anch’esse parte e viatico dell’umano consorzio ed è legittimo anelarle e sognarle perché nel sogno v’è una strada presaga, e nel desiderio ardente una via verso la fusione con il Tutto di cui è traccia. Scrive Hölderlin:
“Un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando pensa”.
Questo non significa, banalmente, che è lecito sognare nel senso povero di fantasticare, vagheggiare qualcosa, ma che, forse, come scriveva Shakespeare, noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.
Vogliamo concludere con un passo delle Note a Sofocle: “La rappresentazione del tragico si fonda principalmente sul fatto che il portentoso – il modo in cui il dio e l’uomo si accoppiano e la forza della natura e l’intimità dell’uomo diventano illimitatamente uno nella collera – diventa comprensibile perché l’illimitato diventar uno è purificato dall’illimitato scindersi…” E ancora, in merito all’Edipo:
“In questo momento l’uomo dimentica sé e il dio e si converte in un traditore, ma di specie sacra. Al limite estremo della sofferenza, infatti, non vi sono che il tempo e lo spazio. In questo limite l’uomo si dimentica, perché è tutto intero nel momento; il dio perché non è niente altro che tempo; e ambedue sono infedeli, il tempo perché in tale momento si svolge in modo categorico e non permette in nessun modo che l’inizio e la fine si accordino in lui; l’uomo perché in questo momento deve seguire il rivolgimento categorico, e così nel seguito non può più somigliare a ciò che era all’inizio”.
All’opposto di ogni individuazione v’è un sacro smarrirsi e l’eroe tragico ne fa esperienza, ma anche il poeta, il quale diviene diapason di una natura conflittuale che pure agogna un ricongiungimento e una dialettica più alta, tale però da non annullare gli opposti ma da essere espressione del loro movimento incessante.
Per rimontare all’inizio di questa trattazione, potremmo affermare a chiusa che libertà e necessità non sono antitetiche ma espressione l’una dell’altra: la libertà è il destino ultimo dell’uomo, l’uomo è necessaria espressione di essa entro i conflitti della storia e dell’esistenza.
Massimo Triolo