Luis de León starebbe bene in un romanzo di Marguerite Yourcenar. Nato a Belmonte, Spagna, tra il 1527 e il 1528, in una famiglia di ebrei convertiti al cristianesimo, rappresenta il punto d’unione tra la cultura biblica e quella classica, tra Atene e Gerusalemme. Uomo arguto, tenace, dall’intelligenza ferrea, preferì la pazienza alla rivolta, la prova bianca agli eccessi d’abisso. Divenuto maestro teologo all’Università di Salamanca, da ragazzo si era fatto Agostiniano, lavorando, negli anni, a una riforma dell’ordine, di cui scrisse la nuova regola di vita. Con la stessa acribia, traduceva i libri biblici e le poesie di Orazio, Virgilio, Pindaro. Nel suo poetare, il senso della solitudine, lo stile austero, schietto, ‘latino’ si mescola al ritmo del salterio: Luis de León fu, allo stesso tempo, poeta cortese e profeta. Un umanista in pieno, insomma.
Tra i sommi poeti spagnoli dell’era aurea, elogiato per “il suo lavoro di pulizia, di cura della parola” per “la costruzione esatta della strofa e per l’uso di un linguaggio preciso, levigato, assolutamente efficace in bellezza e armonia” (Rosa Navarro), Luis de León va letto in contrasto al suo più noto contemporaneo, Juan de la Cruz. In Luis de León la vita nascosta ha il privilegio sulla notte oscura, lo studio primeggia sulla mistica, la leggerezza sulla genuflessione, la costanza sulla fuga, la pura forma sulla smisurata purezza, l’ascesa sull’ascesi. La prigione, piuttosto, relega entrambi tra i grandi fustigati della loro epoca. Luis de León subisce il carcere nel 1572, nel contesto delle diatribe legate alla Controriforma. Il poeta e teologo aveva osato tradurre il Cantico dei Cantici in volgare, riferendosi all’ebraico antico e non alla canonizzata traduzione latina. In realtà, era poeta notissimo, sotto spettro d’invidia. I domenicani adottarono ogni stratagemma giudiziario per impedire l’insegnamento al poeta: l’Inquisizione lo bloccò nelle carceri di Valladolid fino al dicembre del 1576. Ottenne la cattedra in Sacra scrittura a Salamanca nel 1579: tra gli allievi figurava proprio Juan de la Cruz. Alla prima lezione, dopo quattro anni di carcere, il poeta e teologo esordì con una locuzione passata alle cronache: Dicebamus hesterna die, dicevamo proprio ieri…
In Italia, l’opera di Luis de León è per lo più assente: Einaudi ha tradotto il suo lavoro più complesso, I nomi di Cristo (1997), mentre Città Nuova ha pubblicato il suo Commento al Cantico dei Cantici (2003); una raccolta delle Poesie è stata resa in italiano da Oreste Macrì, per Vallecchi, era il 1964. Così, nell’edizione del 1934 dell’Enciclopedia Italiana, scriveva di lui Salvatore Battaglia:
“La sua anima si riconosce e si effonde nelle ore notturne, quando tace l’assillo delle passioni e riposano le lotte degli uomini; egli sogna e percorre nella sua lirica esaltazione le profondità della vòlta celeste, le luminose armonie stellari, il murmure dell’acqua che scende a valle, la vaghezza musicale che desta indefinite risonanze di pace; ma soprattutto misura la propria ansia di ascesa verso le mistiche altezze: Luis de León è il poeta dei silenzî e delle solitudini, sempre inseguito dalla nostalgia di spazî interminati e di oasi spirituali”.
Uomo d’infiniti orizzonti, ammirava Petrarca e il Bembo: nelle sue poesie l’angoscia non ha mai il sentore del cilicio, non è a servaggio della rinuncia; la via nuda, la vita spoglia è sempre misurata: persegue il cliché classico, la sequela stoica, il lirico afflato che da Seneca e da Agostino giunge, appunto, a Petrarca e all’Ariosto. L’ebbra mattanza di sé è aliena al geniale Luis de León, il poeta che desidera vivere con se stesso, a suo modo – Vivir quiero conmigo – nella grazia dei giusti.
Nel suo “Libro degli uomini illustri” il pittore Francisco Pacheco descrive Luis de León in un cammeo significativo:
“Era piccolo di corpo, ben proporzionato; la testa grande, armonica, ricoperta di ricci; vasta la fronte; il viso più rotondo che aguzzo; bruno l’incarnato; verdi e vivaci gli occhi. Per costume, è stato l’uomo più quieto che abbia mai conosciuto, benché le sue parole fossero dotate di singolare spigolosità. Sobrio nel bere, nel mangiare, nel sonno, era pudico, fedele, puntuale nella promessa esposta, composto. Di rado rideva”.
L’iconografia ce lo mostra come un uomo pronto a tutte le prove, mai prono; di quell’umiltà che posseggono senza gara le orgogliose nature. In un’era di preziosismi e di maldicenze, di lussi e di mendicanti, di incanti e di disincantati, preferì l’equilibrio, la bella misura, il sole da tenere in mano, come una mela. Tra i suoi capolavori, va ricordata l’ispirata traduzione – con commento – del libro di Giobbe. Morì mentre agosto sfioriva, nel 1591, pochi giorni dopo essere stato eletto priore agostiniano della provincia di Castilla.
La maggior parte delle poesie più note – a cui dava poco peso, per retrattile perfezionismo – Luis de León le scrisse in carcere. Fa parte anche lui della specie dei poeti reclusi, che tramutarono la propria cella in una galassia.
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Quando contemplo la mia vita
Quando contemplo la mia vita e mescolo occhi e pensieri vedo membra sfibrate e senza fiato: la robusta età è finita,
la giovinezza, così ricca, è stata pari a una candela nel cuore del vento, falciata con tale forza da perdersi quasi subito –
condanno la mia vita tiepida il disorientamento che mi ha tradito e messo in pericolo.
Con velocità e leggerezza voglio fuggire questo stato, a cui mi costringe la continua colpa.
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Amore mi ha preso in un volo
Amore mi ha preso in un volo dove alcun pensiero arriva; ma tutta questa grandezza al contempo mi intristisce e turba:
chi non è rovesciato a terra per infecondo fondamento e ascende ad alti seggi, presto subisce di sé rapida rapina.
Ma mi consola, illustre signora, non essere altro che un ricamo della vostra grazia – confido in voi:
la vostra supremazia mi risarcirà dalle mie colpe, il vostro bene saprà rendere duraturo il mio.
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A Francisco Salinas, musicista cieco
Si rasserena l’aria ammirando la bellezza e la cieca luce di Salinas, quando suona la sua musica estrema governata da sapienti mani.
Divina è la mia anima, annegata nell’oblio: riscopre i pozzi della memoria perduta l’origine che la ha generata.
Accade, così, che nel pensiero e nel destino si eleva; disconosce l’oro che il cieco volgo adora bellezza ingannevole e caduca.
Tutto traspira nell’aria e raggiunge la più alta sfera dove si ascolta in altro modo una musica che non muore, la primizia.
Quel sommo maestro con destrezza crea su questa immensa cetra il suono sacro che sostiene il nostro eterno tempio.
Composto di numeri concordi, a cui lega consonante risposta con profitto entrambi sensali di una dolce armonia.
L’anima vaga nel mare della dolcezza, finalmente lì annega nessun accidente estraneo o improvviso si avverte.
Ebbro svenire! Morte che dona la vita! Dolce oblio! Tienimi in tale riposo non restituirmi mai a questo vile sentire!
Tienimi nel bene gloria di apollineo coro insieme agli amici, a ciò che amo sopra ogni tesoro: il resto non è che triste decoro.
Suona di continuo Salinas, le tue orecchie sono le mie: il divino bene dà fuoco ai sensi e lascia chi non gli appartiene nel sonno.
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In carcere
Invidia e menzogna mi hanno incarcerato. Lode all’umile stato del saggio che si ritira da questo mondo malvagio e dalla povera casa sceglie la via dei campi per stare con Dio il solo compassionevole e la vita passa solitario né invidioso né invidiato.
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Vita nascosta
Che vita felice quella di chi fugge i rumori mondani e segue la via nascosta il sentiero percorso dai rari saggi che abitano il mondo!
Non intorbida il suo cuore l’orgoglio dei grandi di Stato il dorato frontone degno di lode, costruito dai supremi mori, sorretto dal diaspro.
Non si cura della fama che grida il suo nome non si cura se scocca la lingua delle lusinghe perché la verità la condanna.
Perché dovrei essere felice se un vano dito mi indica se preso da questo vento mi scopro inerme torturato da desideri mortali?
Oh campo, monte, fiume! Segreto delizioso e fermo! La nave rischiò di spezzare il riposo dell’anima: fuggo dal mare in tempesta.
Sogno ininterrotto, voglio, un giorno puro, felice, libero; non mi importa del viso inutilmente severo che esalta il sangue e il denaro.
Mi farò svegliare dagli uccelli il cui canto non ha legge non mi lascio imbrigliare dalle convenzioni da chi dipende dall’arbitrio altrui.
Voglio vivere a mio modo voglio godere del bene che devo al cielo solo, senza testimoni, privo di amore e di zelo, di odio, di speranze, di ricatti.
Sul crinale della montagna ho piantato un giardino: in primavera si ricopre di fiori è già il frutto della mia speranza.
Desidero che la sua bellezza si accresca in questa ombrosa valle: per questo corro verso la fontana limpida.
Seguo la sinuosa spirale degli alberi: i sentieri ricchi di verdure e di fiori che si diffondono ovunque.
Nel giardino, il vento è in preghiera: offre mille odori ai sensi; gli alberi tremano con rumori morbidi dimentichi dell’oro e dello scettro.
Ha il suo tesoro anche chi confida in un legno debole: ma non baderò al pianto di chi diffida quando il vento insiste.
Per me, una povera mensa, fornita di amabile pace è migliore dei piatti d’oro finemente decorati: sono di quelli che non temono l’ira del mare.
Miserabili, gli uomini arsi da una sete implacabile, da un comando che non dura. Sdraiato all’ombra io canto.
Sdraiato all’ombra coronato di edera e allora tendo l’orecchio al dolce suono, armonico, del plettro mosso con sapienza.