02 Aprile 2024

“La poesia non devi capirla ma riceverla, come un bacio”. In memoria di Guy Goffette

Probabilmente, c’entra anche il fatto che da ragazzo voleva fare il pugile – o il pittore. Conquistare il proprio territorio a pugni – e dipingerne – con il sangue, semmai. “Volevo diventare Modigliani, suppongo”. Nato a Jamoigne, un piccolo borgo belga, nel 1947, il maggiore di quattro figli di un operaio, Guy Goffette ha votato la vita alla poesia. cioè, alla lotta. “In casa mia non c’erano libri. Mio padre diceva che i libri ‘sono per quelli che non hanno niente da fare’. È stato un padre terribile. Soltanto alla sua morte ne ho capito la grandezza, la debolezza”.

Da bambino, andava nel bosco – “era tutta lì la mia libertà” – faceva a pugni con il vento. Sapeva, per ispirazione, che la poesia nasce tra gli ostacoli, tra traumi e fratture: “sedersi alla scrivania per scrivere una poesia è ucciderla”, diceva ripetendo Henri Michaux. La poesia più bella, dice, l’ha scritta appena sveglio, faceva colazione, insegnava ad Harnoncourt. La ha abbozzata sulla tovaglia, in prosa corsiva: “…e mi sono detto: vivere non è dimenticare il tempo che passa, le devastazioni dell’amore e dell’usura – ciò che facciamo da mattino a notte: spezzare il mare…”. Ne è venuto fuori uno dei suoi libri miliari, La Vie promise, edito nel 1991 da Gallimard, Prix Henri-Mondor dell’Accademia di Francia (andato, tra gli altro, a Bonnefoy), una consacrazione. Vent’anni fa, per le edizioni Gedit, è stata Chiara De Luca ad aver tradotto quella raccolta.

E qui veniamo al primo punto. Morto il 28 marzo scorso, sulla soglia dei giorni pasquali, Guy Goffette è stato tra i grandi poeti francesi del nostro tempo. Se i premi importano, nel 2010 Goffette ha conquistato il “Goncourt de la poésie”. Io l’ho letto la prima volta nella versione di Danni Antonello – che su Goffette ha discusso la laurea –, in un piccolo aureo libro, I canti del pescatore d’acqua, stampato nel 2006 da Carte di fumo, con una nota di Andrea Ponso. Nel 2013 ancora Chiara De Luca ha tradotto per Kolibris Elogio per una cucina di provincia, altro libro pilastro di Goffette, uscito in origine nel 1988. Nessun editore italiano ‘di pregio’ se lo è filato. “Poesia” gli ha dedicato alcuni ‘speciali’; uno, uscito nel 2014 come Alla ricerca delle parole definitive, reca alcune traduzioni di Gio Batta Bucciol; eccone una:

È troppo poco dire che non viviamo
nella luce, che ogni passo
è una caduta d’Icaro e neppure un giorno,
neppure un rumore, neppure un passo
che non ci consacrino possessori di
nulla – gli dèi stessi hanno perso il retaggio
del vento e ormai le loro voci girano a vuoto
quando il cielo si apre le vene
ai quattro orizzonti della camera
e già le foglie si tendono
a ricevere con l’oro e la mirra
l’incenso blu che sale dalla terra.

L’ultimo libro pubblicato da Goffette s’intitola Paris à ma porte, lo ha pubblicato l’anno scorso Gallimard, per cui il poeta era ‘lettore’ dal 2000. Pain perdu è uscito nel 2020; Petits riens pour jours absolus nel 2016. Il suo lirismo ha la nitidezza di un’aggressione.

Negli anni Ottanta, Goffette ha dato vita a “L’Apprentypographe”, una tipografia d’arte di piccoli libri composti a mano. Tra gli altri, ha pubblicato Umberto Saba. L’idea, forse, è che la ferocia della poesia è acquattata là dove non te lo attendi. Vetro che scarnifica l’occhio in conchiglia. Ha scritto romanzi, Goffette – Un été autour du cou, 2001, Géronimo a mal au dos, 2013, tra gli altri –; si è occupato, soprattutto, di Verlaine; ha scritto di Wystan H. Auden e di Robert Frost, ha curato un “Album de la Pléiade” dedicato a Paul Claudel, amava Flannery O’Connor.

“Cosa possono fare i poeti, oggi? Non sono un teorico… direi che è sufficiente esistere. Tutti esistiamo ma, come diceva Rimbaud, ‘La vera vita è l’assente’. Noi siamo, ma dobbiamo essere di più, conquistare l’anima, senza che ci sfugga. Cosa significa vivere? Impariamo vivendo. So che la poesia non pensa, ma respira, sente, non devi comprenderla né spiegarla, essa si riceve come un bacio, come una carezza”.

Così ha detto il poeta, in una intervista rilasciata a “L’Echo” qualche anno fa. Un poeta, diceva, “vede con le orecchie e sente con gli occhi”. In questa dislocazione degli elementari sentimenti, sfugge la briciola-vocale, la parola canina che muta il valore delle cose – le avvelena nell’inaudita ombra, facendo rantolare il ‘senso comune’. Amava il blues e i libri illustrati, che si regalano ai bambini.

“Tutto è lì, nella domanda che ci pone l’infanzia, a cui non abbiamo dato risposta. Corriamo dentro una specie di innocenza ferita”.

Diceva che “il meglio, l’oro del nostro dire” accade quando “perdiamo il dominio su ciò che stiamo scrivendo”. Ciò che disincastra il ‘canone’; ecco il secondo punto: la mania della lingua, l’incauto della danza.

Anche qui: essere poeta significa invischiarsi in un voto – senza resa. Dunque, vivere al vento, nell’insussistenza. La morte di un poeta non fa ‘notizia’: notorietà non riguarda il notevole. Dicono: annotare i frangenti della notte per esplicare il paradiso del vicino di casa.

**

Ulisse nel bagliore

Fiero nella casa invernale
arde il mar morto
dei giorni dell’ipocondria

può finalmente mollare
gli ormeggi della maschera
da bandito alla finestra

e come il prodigo poeta
trovare al trogolo delle cancellature
la sua via verso Damasco

ora apre le porte all’alba
segue la verecondia ebbrezza
del cane verso le placide colline

le vertebre di un cielo
bloccato ai cancelli da troppe
foreste – è felice se può

affrontare senza rimpianti
alla luce della stanza
il cumulo di nere carte

e toccare lentamente
sotto il murmure mormorio
dei mari e il canto delle sirene

il filo d’oro
caduto agli dèi
che porta al poema

fino al delta dell’ombra
e convertire la notte

come alla fine dell’odissea
Ulisse per sempre bloccato in un bagliore

*

Possibilità di oblio

Ciò che ho visto, l’ho scritto
come la pioggia sui vetri
e le lacrime delle rose – tutto
ciò che ho dimenticato dimora

lì, in quel grande sacco di vocali
appoggiato ai piedi del tavolo
dove il tempo passa tra la mia vita
e me senza ferire nessuno.

Quando più nulla canta
scavo nel sacco, semino
sulla pagina un po’ di polvere
d’oblio e il giorno mi appare come

un suonatore che tende il cappello.

*

Ciò che ho sempre voluto con te, è partire
e che la terra ricominci

sotto altra luce, con l’erba ancora nubile
e un sole che non prema troppo

sul cuore e poi del blu intorno a me come
un dolore che si può levare

dagli occhi con un resto d’infanzia, che il tempo
si arresti proprio quando tutto

se ne è andato, quando partire non era che
un altro modo di restare

come l’acqua nel fiume, le parole in un poema
e io, pronto ad andarmene,

tra stille d’inchiostro e stelle, risalendo senza fine
il sentiero delle tue lacrime.

*

Per Kavafis

Tanta impazienza: e se il domani non fosse che una barca
senza vele né remi, una rotta sul vuoto?
Pensa al vecchio di Alessandria, ai suoi tesori sepolti

in un cassetto tra le chiavi, un residuo di tabacco,
il profilo consunto di un re in minore, detronizzato.
Bastava un clacson sulla via, una corsa sulle scale

per risvegliare nella stanza il voluttuoso corpo
dell’angelo, la fragile e spinosa bellezza dell’amore,
la sua voce in nero, come del sale

gettato su una ferita, di sfuggita.

*

“Offerta”

Parliamo di agosto
che brucia la lingua.

Isso al sole
il figlio della febbre
sanno di sale
le rade parole che il mare
in risacca mi lascia
parlano di uccelli
che ravvivano il mio fuoco

Non sono che un solco
in mezzo al deserto.

*

All’alba, quando ancora vibrava
la gloria del mondo, siamo discesi
lungo le scale del sogno per cercare
nell’erba del giardino

l’uovo azzurro delle promesse e in cielo
un residuo di vertigine ci ha attratti
nell’urlo, ma tutto si è placato d’improvviso
e l’orizzonte ha preso

il suo vero volto: chiuse, barriere, concessioni.
Siamo ritornati con il nostro bottino
gli occhi tra le ombre come se
un’ala o un angelo

potesse apparire e incagliarsi sullo scafo.

*

“Il sole debutta nel vento
con le mondate mandrie
riapprende passo per passo la rotondità del mondo”.

Guy Goffette

Gruppo MAGOG