Il carattere si rivela nella fine. Dottie Parker passò gli ultimi anni in un residence newyorchese, snervando una specie di rabbiosa nostalgia nell’alcol, per lo più sola. Morì ai primi di giugno, nel 1967, a 73 anni; trent’anni prima era stata ‘nominata’ agli Oscar per la sceneggiatura di È nata una stella: per Hollywood aveva scritto una manciata di film, tra cui Sabotatori di Alfred Hitchcock e Il ventaglio di Otto Preminger, la porzione meno importante della sua opera polimorfica, che gli concesse svago e guadagni. Secondo testamento, lasciò le sue proprietà a Martin Luther King e alla sua fondazione; l’epigrafe è celebre: Excuse my dust, scusate le ceneri.
Preferiva sparire, forse, Dottie, più che morire, creatura del tutto verbale: negli ultimi anni, le sue recensioni pubblicate da “Esquire” sfioravano la glossolalia, lei, geniale, sfrenata, sfiorì in un tripudio di improperi. Si era data, tempo prima, alla causa antifascista, aveva supportato la “Hollywood Anti-Nazi League”: schedata tra i comunisti, l’FBI la onorò con un dossier di oltre mille pagine. Per lo più, Dottie era ossessionata dalla forma: la crudeltà esige eleganza, il talento non permette altra ammenda che la raffinatezza, ferocia eminente. Negli ultimi anni, appunto, Dottie sputò in faccia al suo passato, glorioso: unica donna dell’esclusivo “Algonquin Round Table” – per ineffabile intelligenza –, il club di umoristi, sceneggiatori, giornalisti rapaci che reggeva, letteralmente, le sorti del tempio culturale di New York, finì per dire, “Quelli non erano titani, ma solo un mucchio di chiacchieroni e di esibizionisti, che aspettavano il momento adatto per far esplodere la loro gag… Penso a chi scriveva davvero in quegli anni: Fitzgerald, Faulkner, Hemingway…”. Era ossessionata dalla tenuta dei racconti di Hemingway, dalla loro tensione, dal suo giudizio.
Aveva lavorato come pianista per guadagnarsi da vivere; a vent’anni vende la prima poesia a “Vanity Fair”; comincia a scrivere sostituendo P.G. Wodehouse, i suoi pezzi sono graffianti, magnetici, hanno successo, ma Dottie perde il posto perché la sua irriverenza pesta un piede di troppo. Poco importa, la fama, sull’onda degli “anni ruggenti”, è segnata, sgargiante: la Parker scrive per “Vogue” e per “Life”; Harold Ross la vuole nel suo giornale, “The New Yorker”, che qualificherà uno stile in leggenda.
Era amata da uno scrittore dai gusti aristocratici come William Somerset Maugham – “Dorothy Parker ha scoperto una verità grave e salutare al tempo stesso: in quasi tutte le nostre più sentite disgrazie, si annida qualcosa di irresistibilmente assurdo, se non addirittura comico” –; scrisse una manciata di racconti che fanno storia – il più noto, Big Blonde, ottenne, nel 1929, un O. Henry Award, andato, negli anni, a William Faulkner, Flannery O’Connor, Joyce Carol Oates –, in Italia trovò un ammiratore in Eugenio Montale, che l’ha tradotta per Bompiani, nel 1941 (Il mio mondo è qui). Tuttavia, “nelle poesie si rivela la quintessenza del suo talento” (ancora Somerset Maugham): effimere come un batticuore, rapide come una rapina, illuminanti, piene di aghi. Enough Rope (1926) fu un successo clamoroso, misurato in 47mila copie vendute; seguirono Sunset Gun (1928) e Death and Taxes (1931). In Italia, le poesie di Dorothy Parker hanno, da tempo, un complice in Silvio Raffo (di “humour irresistibile delle poesie, tradotte con grande destrezza da Silvio Raffo” ha scritto Nadia Fusini, in un articolo pubblicato su “la Repubblica” nel 1993): per questo, Veleni & Champagne, che raduna le “Poesie dell’età del jazz”, l’opera in versi della Parker, edito da De Piante è un piccolo libro-evento.
Per lo più dimenticata in questo Paese dal bislacco, obliquo femminismo, la fama ‘pop’ di Dorothy Parker – nel 1987 Prince realizza una Ballad of Dorothy Parker –, autentica bad girl della letteratura americana, è santificata dal cinema: nel film agiografico Mrs. Parker and the Vicious Circle (1994) è Jennifer Jason Leigh a interpretare Dottie; in Ragazze interrotte (1999) Angeline Jolie recita la sua poesia più nota, Résumé:
I rasoi fanno male,
i fiumi sono freddi,
l’acido lascia tracce,
le droghe danno i crampi,
le pistole sono illegali,
i cappi cedono,
il gas ha un odore nauseante…
Tanto vale vivere.
Qui un dialogo fitto con Silvio Raffo.
Intanto: dettaglia Dorothy Parker in un cammeo, chi è?
Dorothy Parker, americana, o meglio, newyorkese alla Woody Allen, inizia la sua carriera come giornalista: la sua penna feroce si esercita sulle pagine di “Vogue”, “Vanity Fair”, “The New Yorker”. Assidua frequentatrice del mitico Algonquin Hotel, dove è la sola donna della ‘Round Table’, si guadagna la fama di ‘Regina dell’Arguzia’ per le sue battute salaci. Fernanda Pivano tra i suoi Mostri degli Anni Venti la collega alla New York ruggente dei Twenties e alla Hollywood laminata d’oro degli anni Trenta: “…lusso e frivolezza, sbronze più o meno festose e amori più o meno discutibili, cronache maligne e recensioni canzonatorie, grandi feste fitzgeraldiane in cui si fabbricava il gin nelle vasche da bagno”. Dawn Powell la annovera tra le file dei cosiddetti ‘distruttori’, “quel gruppo di individui crudeli, infelici, perennemente insoddisfatti che si nutrono di frustrazioni e ambizioni piuttosto infantili nella distruzione delle ambizioni e della felicità altrui”. In realtà Dorothy (Dottie) Parker è uno spirito cronicamente melanconico e il suo cinismo è, come spesso accade, una difesa dalla disperazione: appartiene a quella categoria di (apparenti) nichilisti nel cui pensiero si cela sapientemente un romanticismo tenero e incapace di rassegnarsi al naufragio dei sogni e degli “ameni inganni” giovanili. I suoi folgoranti racconti, capolavori di ironia e disincanto, denunciano la precarietà dei piaceri e dei desideri umani, la necessità di una corazza invulnerabile per chi cerca di rendere tollerabile, se non divertente, ogni attimo di una vita coraggiosamente vissuta allo scoperto. Ma sono le sue poesie, sotto la veste di una frivolezza ostentata e tragica, a mettere a fuoco le verità esistenziali più sottili e profonde. È, in effetti, il suo, un ininterrotto dialogare con sé stessa per scoprirsi alla fine inadatta al cimento troppo arduo del vivere: “Questa vita, ti giuro, questa vita non è stata idea mia”. Così nell’eloquente impietoso autoritratto (genere poetico in cui ben pochi superano la nostra spumeggiante e geniale “bad girl” con cui abbiamo a che fare), Inventario:
Quattro cose conosco molto bene:
ozio, dolore, un amico e un nemico.
Di quattro cose avrei poi fatto senza:
amore, curiosità, lentiggini e dubbio.
Tre cose non potranno esser mai mie:
soddisfazione, invidia, e champagne a sufficienza.
Tre cose avrò finché rimango in vita:
riso, speranza ed un pugno nell’occhio”.
Poi: cosa c’importa oggi di Dorothy Parker, cosa ci dice la sua vita, che icona di donna raffigura, esemplifica, sovverte?
A circa cento anni di distanza, Dorothy Parker ci comunica un messaggio molto chiaro: che l’intelletto, l’ironia, la lucidità e la leggerezza sono le qualità che garantivano ai suoi roaring twenties spumeggianti e disperati come oggi ai nostri squallidi orizzonti postmoderni l’unico approdo a una “coscienza dignitosa e netta”, all’autenticità e a quei pochi lacerti di Bellezza che ci sono concessi nel corso di un’esistenza terrena che possa dirsi ‘evoluta’. Fermo restando che dall’imbecillità umana nemmeno gli dei più generosi potranno salvarci, almeno cerchiamo di conservare l’unico valore prezioso, quello della creatività ‘divertente’. Nessuna icona di donna Dottie rappresenta o sovverte: è semplicemente una bad girl che non sopporta etichette, ipocrisie, melensaggini e sudditanze. Non è pazza come Zelda né vanagloriosa come TallulahBankhead né pettegola come Hedda Hopper. L’unica a cui assomiglia è Edna St. Vincent Millay. Gli spiriti liberi hanno una sola tessera di riconoscimento: quella della sincerità più spietata con se stessi e con gli altri.
Poi: rapido – e sapido – giudizio sulla sua poesia. Perché leggerla oggi?
Perché leggerla oggi? Lapalissiano: per sopravvivere (sor) ridendo dell’“infinita assurdità del tutto” (parafrasando Leopardi). In una straordinaria intervista il genio misconosciuto Juan Rodolfo Wilcock definisce totalmente folle il comportamento altrui: “follia è ciò che fanno tutti. Basta osservare il comportamento della ‘common people’ per capire cos’è la follia”. La pensa allo stesso modo Dorothy, che non si stanca di sottolineare la demenza del prossimo (oltre che ammettere, a tratti, la propria).
Infine: a) La poesia della Parker che ami di più.
Difficile scegliere. La penso come Somerset Maugham. Sono fantastiche tutte. Ma se proprio si devono ricordare le primae inter pares, citiamo la stranota Résumé che indica i motivi per non suicidarsi, e Osservazione, satira perfetta contro il buonismo il perbenismo il carrierismo degli ebetini per bene e degli arrampicatori seriali:
Se non vado a passeggio per il parco,
nelle alte sfere potrò aprirmi un varco.
Se ogni sera alle dieci vado a letto,
non dovrò consumare il mio belletto.
Se gli stravizi riuscirò a evitare,
qualcuno forse potrò diventare.
Ma rimarrò quel che sono al presente,
perché non me ne importa un accidente.
b) La poesia della Parker per le anime in amore.
Drothy va letta a tutte le creature innamorate del sesto/settimo mese (prima di un salvifico aborto). Alle donne naturalmente, Sfortunata coincidenza, ad esempio:
Nel momento in cui giuri con ardore
d’essere solo sua, folle d’ebbrezza,
e lui pure promette che il suo amore
durerà eternamente –
sappi una cosa, cara, con certezza:
uno o l’altro dei due mente.
Gli uomini quando mai leggono o apprezzano le poesie che dicono la verità su di loro? A proposito, vale la pena imparare a memoria Uomini, eccola:
Proprio perché sei come sei, ti chiamano
la loro buona stella del mattino.
Se tu ricambi il loro sentimento,
cercano di rifarti differente;
non appena di averti son sicuri
ti vogliono cambiar completamente.
I tuoi vezzi, i tuoi modi maledicono;
dovresti diventare un’altra donna.
Non possono lasciarti camminare
al tuo passo, ti devono educare.
Odiano tutto ciò che prima amavano.
Mi rattristano, quando non mi stancano.