Aveva tutto del predestinato – la bellezza, anzi tutto. Una bellezza già rifinita, senza complicanze di crescita, senza ambiguità né promesse: pronta. La precocità, in lui, giungeva esatta, longeva, si direbbe – il maturo estro della secolare poesia inglese. Che potesse apparire ‘fuori tempo’ – fu installato, con ambigua preveggenza critica, da Edward Marsh nel repertorio Georgian Poetry, tra Chesterton, D.H. Lawrence, Walter de la Mare e John Masefield – era il calcolato martirio di un ragazzo, per lo più, inclassificabile.
“Forse la cosa più ovvia di lui era la sua bellezza: c’era qualcosa in lui impossibile da dimenticare”, scrisse ‘Gwen’ Darwin, artista, nipote di Charles. Visse “nella velocità della cometa”, Rupert Brooke, consapevole di recare matasse di luce tra le dita. Piaceva pressoché a tutti; a tutti si avvicinò senza appartenere a nessuno. La natura retrattile di Brooke, gli ambigui tratti – l’atletismo, le nuotate nel fiume Cam, le gite nei Mari del Sud alternate alla nevrosi, alla facondia nell’inquietudine –, la solarità associata a una levatura lunare gli conferiscono un fascino corrosivo, alieno ad accigliarsi in un aggettivo, in un singolo, microlitico giudizio. Nel suo corpo di lignaggio byroniano, covava l’usignolo di Keats, è stato il poeta dell’onnipotente quiete, dal nitore meridiano:
“Molto ho amato: ho riempito la mia vita Con orgoglio allo splendore delle lodi d’Amore, Il dolore, la calma, e l’incanto, Il desiderio senza limiti o l’appagata quiete, E tutti i nomi usati per truffare la disperazione Nelle confuse, invisibili correnti che ci spingono Il cuore a caso lungo le tenebre della vita”.
Di lui si innamorarono tutti; Virginia Woolf per prima – ma lui, Rupert, non si accasò mai al ‘Bloomsbury’. Gli furono affibbiate diverse storie, a volte fittizie, con attrici (Cathleen Nesbitt, ad esempio) e scrittrici; la donna più importante della sua vita fu senz’altro Katherine Laird ‘Ka’ Cox (tra l’altro, amica della Woolf). Attraeva frotte di ragazzi; colui che avrebbe potuto accontentarsi della nomea di un Antinoo, scrisse alcune delle poesie più belle del Novecento inglese. La perfezione formale, appena screziata, la scapigliata classicità le rendono, oggi, più radiose di allora, quando ci si trastullava con le avanguardie. Nel 1911 pubblicò la prima raccolta, Poems, che ne consolidò il talento; 1914 and Other Poems, stampata nel 1915 da Sidgwick & Jackson, uscì che il poeta, ventisettenne, era già morto.
Rupert Brooke in una incisione di Gwen Darwin
In molti videro in lui l’incarnazione del puer virgiliano, il ragazzo d’oro giunto a indicare la via della poesia inglese. Artisti altrimenti arcigni – Ezra Pound, Vladimir Nabokov – riconobbero in Rupert Brooke lo stigma del genio. La sua fama – ineguagliabile in terra d’Albione – nasce, tuttavia, da un frainteso. Rupert Brooke, arruolatosi nei reparti della Royal Naval Division, vede poca guerra, muore il 23 aprile del 1915, a causa di un’infezione, in Grecia, come Byron, a Sciro. Ha tempo di intuire, in versi folgoranti, l’orrore del conflitto, la gioventù sacrificata sull’altare impuro di un’era tagliagole: “Continuavo a vederli – in controluce – passare/ Come ombre colorate, più sottili del cristallo/ …Cose periture e strane ombre – prossime a morire/ In altre ombre – questo, o quello, o io”. A St. Paul, a Westminster, in ogni pieve inglese risuona la poesia più nota di Brooke, una delle più citate del secolo, The Soldier, con quell’ingresso, tonante:
“Se dovessi morire, pensate solo questo di me: Che c’è un angolo di campo straniero Che sarà per sempre Inghilterra..”.
Rupert Brooke, poeta di indocile veemenza, diventò l’emblema dei ragazzi che onoravano l’identità del proprio paese. Fu Winston Churchill, all’epoca Primo lord dell’ammiragliato, ad attizzare il mito con un articolo – scritto, in verità, da Edward Marsh ma siglato “W.S.C.” – uscito sul “Times” il 26 aprile del 1915:
“Rupert Brooke è morto. Abbiamo sentito una voce… la più atta a rendere giustizia alla nobiltà della nostra gioventù in armi… Quella voce è stata messa a tacere. Ne rimangono solo gli echi e i ricordi, ma questi dureranno…”.
Sulle spoglie di un grande poeta – effigiato in marmo nel “Poets’ Corner”, in Westminster – si edificò l’epica della Grande Guerra.
“Informato della sua morte, Henry James mormora qualche parola, poi piange”. In questa frase – nel mormorio che prelude al pianto – è riassunto, in chicco di riso, il genio per la biografia di Paola Tonussi. Di Rupert Brooke, poeta tra i grandi del canone anglofono, che reca, in sé, direttamente o meno (per dire: Thomas S. Eliot ‘scopre’ i metafisici grazie ai suoi studi), l’iliadico estro di una generazione, in Italia non si sa quasi nulla. A lenire la pena, giunge, ora, per le Edizioni Ares, la biografia di Paola Tonussi, Rupert Brooke. Lo splendore delle ombre. Il sottotitolo è azzeccato. C’è chi si perita di vivere, chi sopravvive e chi dedica il tempo della propria vita a dissotterrare le vite altrui, a purificarle dal frastuono del frainteso, dalla palustre maldicenza. È l’opera di ripulire l’icona. Lavoro di per sé impervio, impossibile se non si entra – con pudore mantico – nell’anima altrui, almeno dalla finestra, da un singulto pertugio. Paola Tonussi, traduttrice eccellente – per la Ares ha tradotto i War Poets, 2022; per De Piante La casa di Claudine di Colette, 2022– autrice di una mirabile biografia di Emily Brontë (Salerno, 2019), sa ricondurre la mole di documenti scoperti (cinquanta pagine del libro sono dedicate a note, indicazioni bibliografiche, indice dei nomi) in una struttura narrativa impeccabile. La biografia di Rupert Brooke, insomma, è prima di tutto il romanzo di una vita, un libro da leggere con agio, con gioia. A questo punto, è necessaria una raccolta delle poesie di Brooke, speriamo di prossima pubblicazione.
Tra i capitoli più affascinanti del libro, quello dedicato alla parentesi tahitiana di Rupert Brooke ha un fervore edenico. Inviato dalla “Westminster Review” a scrivere un reportage tra Usa e Canada, Brooke segue la scia di Gauguin e Stevenson e si avvia nei Mari del Sud. Siamo nel 1914, “l’Europa recede da me, smodatamente”, scrive il poeta. Creatura nata nell’anfratto fra il sole e la volpe, Rupert Brooke si lascia cullare dall’idea dell’annichilimento: “Ho cercato di essere poeta… in parte ci sono riuscito… sono diventato un personaggio minore di un racconto di Kipling”. È amato da una ragazza del luogo, Taatamata, scrive poesie di imperiale malinconia (“Ma il meglio che ho conosciuto,/ Rimane qui, e cambia, s’infrange, invecchia sparso/ Dai venti del mondo, e svanisce dalla mente/ Degli uomini, e muore./ Nulla rimane”). In quella “Grecia senza l’intelletto”, scevra dal mondo delle idee, monda di cultura, puro mondo, lo chiamano Pupure, “il biondo”. Poi sarà il ritorno, la turpe guerra, la morte. Per un attimo, la cometa ha trovato posa al suo fiammeggiare.
Qui, un dialogo con Paola Tonussi.
Vorrei partire dal ‘mito’ di Rupert Brooke, per capirne il frainteso. L’autore di “The Soldier”, idolatrato da Churchill è forse il meno ‘militare’ dei “War Poets” britannici, eppure è diventato un simbolo dei poeti della Prima guerra. Come mai?
Annoverato tra i war poets britannici, Rupert Brooke non ha mai conosciuto la guerra vera, se non durante la ritirata da Anversa in Belgio: muore infatti mentre sta andando ai Dardanelli, nel corpo anfibio creato da Churchill. Poco prima, a Londra, il decano della cattedrale di San Paolo William Inge legge però dal pulpito il suo sonetto The Soldier: Inge vi ha ben individuato i riferimenti biblici e ad ascoltarlo ci sono centinaia di padri e madri inglesi i cui figli sono già caduti, vedove e orfani che nel giovane soldato Brooke trovano un figlio, un marito, un padre da piangere. Brooke stesso non pensava granché dei suoi “sonetti di guerra”, “bambini da accampamento” come li definisce in una lettera. Eppure, oltre la retorica patriottica, in The Soldier riorganizza con tocco magico la visione di un’Inghilterra ideale che riporta a casa i propri figli dopo la morte. A parlare può essere uno dei moltissimi soldati inglesi caduti al fronte: l’avvenenza e il genio del ragazzo poeta destinato di lì a poco a morire, come Byron in Grecia, e la lettura di Inge danno inizio al mito, che entra nell’immaginario emotivo degli inglesi. Uno dei suoi biografi riporta un aneddoto significativo: richiesto a dieci persone di nominare uno dei war poets, nove tra loro rispondono Rupert Brooke. D’altronde uno dei significati della parola mito non è forse “favola”? Una meravigliosa favola è l’intera vita di Rupert Brooke.
Quali sono le caratteristiche che definiscono l’originalità lirica di Rupert Brooke?
Come scrive Nabokov su di lui, Brooke ama “guardare nel crepuscolo dell’altrove”: tipiche della sua lirica sono una consapevolezza acuta della fugacità della bellezza, la sensazione dell’istante che s’incenerisce proprio nel momento in cui il poeta lo celebra. Quindi un senso della morte vicina ma che non sgomenta, non dà angoscia sebbene sia sempre presente. Rupert Brooke poeta si può considerare un Marvell minore: “Se non possiamo fermare il nostro sole,/ possiamo tuttavia farlo correre”. Ecco, questa potrebbe essere anche la sua filosofia.
Che rapporto ha Brooke con Virginia Woolf e in generale con i poeti-totem del suo tempo?
Brooke ha frequentato tutti i grandi della sua generazione, molti appartenenti al gruppo di Bloomsbury – Virginia Woolf, Lytton Strachey, Duncan Grant, Maynard Keynes e altri. Rupert conosce Virginia bambina in Cornovaglia, dove i Brooke e gli Stephen (questo il cognome di famiglia di Virginia e Vanessa) ingaggiano interminabili partite a cricket sulla spiaggia. In futuro Virginia s’invaghirà di Rupert, ma i due caratteri e gli stili di vita sono troppo diversi. Brooke frequenta Edward Thomas, con cui intrattiene un bellissimo scambio poetico e personale malgrado la differenza di età (così come con John Masefield, anche lui di un’altra generazione), ha rapporti di più stretta amicizia con i poeti dell’antologia georgiana, Wilfred Gibson o Lascelles Abercrombie. Lo ammirano Ezra Pound, che lo considera “il migliore tra i georgiani”, e T.S. Eliot, che s’ispirerà ai suoi versi. Ma Brooke sembra attraversare la vita di ciascuno di loro e rimanere sempre isolato, pur circondato da decine di amicizie e ammiratori – di uomini e donne – sembra vivere tutta la vita da clandestino della fama.
Quali sono i lari di Brooke, i poeti che sente affini, necessari alla sua originale ricerca lirica?
Sicuramente Shakespeare e gli elisabettiani, Webster in particolare: la sua tesi su Webster è tuttora citata negli studi websteriani specialistici e l’avrebbe destinato a un brillante futuro accademico a Cambridge. Poi Milton, Marlowe e Donne: i suoi scritti su John Donne contribuiscono in modo decisivo a fare scoprire il genio del metafisico, anche in ambito accademico, allora considerato poco più che un poeta eccentrico.
A contrasto con gli orrori della Grande Guerra, il viaggio nei Mari del Sud, non una semplice ‘parentesi’ nell’esistenza di Brooke. Che cosa scrive Brooke lontano dalla patria, incastonato nel Pacifico, e come finisce lì?
A fargli lasciare l’Inghilterra è la “Westminster Review”, che gli commissiona una serie di articoli-impressioni di viaggio negli Usa e in Canada. Scritti gli articoli, Brooke decide di continuare il viaggio nei Mari del Sud e lì, a Tahiti, trova il “paradiso in terra”: un paesaggio da favola e una ragazza del luogo, Taatamata, di cui s’innamora. Vive mesi trasognato, da figlio del sole: Tahiti ha una bellezza onirica, la dolcezza polinesiana di Taata – come la chiama, o Mamua nelle liriche che parlano di lei – è un balsamo per la sua inquietudine. Il soggiorno tahitiano rimarrà il periodo più felice della sua vita e l’esito sarà una sequenza di liriche splendide, che traforano la luce del Pacifico in versi tinta madreperla. Dopo aver conosciuto “questo lato del paradiso” e un equilibrio perfetto – l’istante estatico sotto le palme, davanti al mare turchese, Taatamata accanto a lui – la sua vita subirà un’accelerazione drammatica verso la fine.
L’amore. Brooke è un poeta straordinariamente bello – levità dell’incarnato che si riflette nel corpus poetico? – a cui sono ascritte diverse relazioni più o meno presunte. Quali sono le donne della sua vita? E cosa ne sappiamo della sua omosessualità?
Già adolescente Rupert colpisce chiunque lo avvicini per la sua avvenenza, a cui lui non ha mai dato molta importanza – come d’altronde capita a chi è davvero fuori dalla norma. Se è vero che si è dentro come si è fuori, allora sì, la “levità” di molti suoi versi può in parte venire dall’armonia del suo aspetto. Nonostante tutto, Brooke è comunque una personalità complessa, a tratti direi persino nevrotica, e accanto a liriche di serenità straordinariamente limpida ce ne sono altre che ricordano gli elisabettiani cruenti che amava. Di donne ne ha amate tante, Noel Olivier (cugina dell’attore) e Katherine Cox sono gli amori più lunghi, difficili e sofferti, l’interludio tahitiano con Taatamata è la sua relazione più semplice nella sua naturalezza, poi sono venute l’attrice Cathleen Nesbitt e Lady Violet Wellesley. Da ragazzo ha avuto amicizie affettuose per compagni di scuola, è stato molto desiderato da James Strachey, fratello minore di Lytton, da Forster e altri. Persino Henry James resta folgorato dalla sua prestanza. Le lettere raccolte da Geoffrey Keynes riferiscono di un solo episodio della sua bisessualità, ma sappiamo che Keynes ha “selezionato” molto le missive dell’amico ed ex compagno di scuola. Mi piacerebbe dare una sistemazione il più possibile definitiva a una messe incredibile di corrispondenza. Quando sono stata al King’s College a Cambridge – le ricerche d’archivio per questo libro sono state appassionanti –, ho espresso questo pensiero-desiderio. L’epistolario di Brooke “è un ginepraio”, mi è stato risposto, “impossibile da districare”. Chissà, forse un giorno ne sapremo di più. A noi resta in ogni caso la sua poesia, e secondo Croce l’opera “parla” di per sé.
Vorrei ragionare sulla composizione di una biografia come questa. È un libro, cioè, anomalo per la saggistica storica italiana: ha la natura mobile del romanzo. Come è possibile entrare nei ‘pensieri’, finanche nei sogni dell’autore di cui si scrive, come è possibile rischiarare gli esuli dettagli? Insomma: come è stato composto il libro?
È un’esperienza che ho già provato scrivendo di Emily Brontë, se posso parlare direttamente in prima persona. Scelgo solo autori che amo molto e che conosco molto bene: esempi di lunga fedeltà letteraria. Spesso, come nel caso di Brooke, poeti che comunque mi accompagnano da decenni. Se amiamo molto un autore, ne leggiamo e rileggiamo l’opera. A forza di leggere tutto minuziosamente, opera, lettere, biografie, si “entra” nel suo mondo, nell’atmosfera poetica, ma anche dell’ambiente che lui frequenta, nel caso di Brooke Cambridge e Londra in particolare, città che conosco bene. Diari, lettere, testimonianze dei contemporanei scavano sempre più in profondità, e con la poesia (o la narrativa) di quell’autore mi portano a un personaggio. Anche di più: a una persona che conosco. Scrivendo questa biografia ho vissuto a lungo con Brooke, l’ho guardato leggere, la mano che gira la pagina, camminare sul prato a The Orchard (la sua casa fuori Cambridge) o presso le guglie del King’s, mettersi spesso le mani fra i capelli, parlare con Virginia, con James, con Ka. Nuotare nel Cam alla Byron’s pool e comporre i suoi versi ferventi con la concentrazione dei bambini, una lieve increspatura sulla fronte. Al King’s la sua grafia a matita negli autografi che ho avuto la fortuna di tenere tra le mani mi ha precisato – un altro dettaglio – che l’indole dell’uomo è tenace, in apparenza semplice ma intimamente stratificata: Rupert dal viso angelico, Rupert di byroniana aura, il fanciullo accerchiato di luce, il soldato che va cupamente incontro alla morte – solo una questione di tempo per lui e per i compagni partiti con lui. Mi ha commosso l’infelicità di Ka quando si sono lasciati, quel dolore sordo e senza speranza. Ho accompagnato Rupert nella notte illuminata dalle bombe ad Anversa, poi sulla nave che ha attraversato l’Egeo e ho molto amato la fedele amicizia di Denis Browne, che gli è stato vicino fino all’ultimo e l’ha sepolto nell’isola greca.
Isolata con i miei cani, vivo una specie di vita parallela accanto alle figure di cui scrivo (Emily, Rupert, Virginia…), così mi capita di trascorrere giornate intere con loro, ridere e penare con loro, parlarci e scambiare pensieri – mi sforzo di entrare dentro i versi, dentro una pagina, finché dentro credo di esserci davvero, nella stessa stanza con loro. Infine – forse il passo più difficile – bisogna lasciarli andare: anche questo meraviglioso ragazzo adesso dovrà camminare nel mondo. E se ne sentirò troppa nostalgia il rimedio sarà chiudere la porta alle spalle, rispondere solo alle telefonate vitali, e tornare a immergermi nei suoi versi, nelle sue lettere, nel suo mondo di meraviglie e incantati sogni. Ombre più splendide della realtà – da qui il sottotitolo del libro.
Una poesia di Brooke a tuo avviso esemplare – e perché.
È Dining Room Tea, Tè in salotto, il suo tentativo proustiano di bloccare la felicità di un momento prima che il tempo annienti la strana combinazione di luoghi, persone, emozione, «beata fuggevolezza» e «mutevoli volti che amavo»:
“Quando tu eri lì, e poi tu, e anche tu, La felicità ha coronato la notte… […] anch’io Ho visto la luce della lampada tremare e cadere Sul piatto, i fiori e il tè versato, La tazza e la tovaglia; e insieme Abbiamo lanciato in aria la danza degli istanti…”
La lirica descrive occhi e sorrisi che brillano «a sprazzi come una fiamma» e «la luce delle risate che andava e veniva». Finché l’attimo si ferma, il poeta vede il Tempo rallentare e fissa nell’eterno della poesia l’istante destinato a svanire: «d’improvviso […] Ho guardato l’immobilità e la luce». Per pochi secondi i visi «accesi» e i corpi «immoti» degli amici sembrano «liberati dalla maschera della transitorietà»: così una goccia nello zampillo di una fontana, il flusso del te che esce dalla teiera si bloccano in aria. Solo lui ha l’ha colto.
Fatale, il Tempo riprende poi «a strisciare». Torna la realtà, l’istante scivola tra le dita, il sempre si spacca in un prima e un dopo: «Il petalo alla deriva cadde a terra». La scena si anima di nuovo di risa, parole, gesti normali. Dopo la bolla d’immobile sospensione che gli ha rivelato l’attimo assoluto anche lui, il poeta, è ripreso da spazio e tempo. Nessuno degli amici saprà mai che è andato «mille miglia lontano», e ci è «rimasto / un milione di anni».
Da quella lontananza ha afferrato la coda della cometa e vi ha ancorato – anche per noi – la sua visione.