“Assisto alle mute lotte degli squali”. Sia lode a Sbarbaro, il poeta che voleva diventare albero
Poesia
Valerio Ragazzini
L’avevano chiamato la Caffeina d’Europa. E Filippo Tommaso Marinetti, nato in una casa sul mare, ad Alessandria d’Egitto, “col preannunzio sciroccale”, il 22 dicembre 1876, con la sua dirompente carica rivoluzionaria e geniale, in effetti, aveva saputo infiammare lo scenario culturale dell’epoca, riuscendo a rompere la grammatica della tradizione letteraria, esaltando i nuovi miti della modernità, la macchina, i valori della potenza e del coraggio, e della guerra. La sua creatività e la sua originalità erano, a suo dire, patrimonio genetico: “Mio padre m’infuse nel sangue la sua tenacia piemontese – aveva scritto – Gli devo la sua grande forza di sanguigno volitivo e dominatore, ma fortunatamente non ho il fitto intrico dei suoi cavilli spirituali, né la sua memoria stupefacente”.
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L’avvocato, il padre, Enrico Marinetti è nato in una famiglia di piccoli trasportatori a Pontecurone, tra Tortona e Voghera, dove porta avanti uno studio legale ben avviato, si legge nella biografia Filippo Tommaso Marinetti. Invenzioni, avventure e passioni di un rivoluzionario di Giordano Bruno Guerri (Mondadori, 2017). Ad un certo punto, però, il padre del grande futurista si innamora di Amalia Grolli, che, purtroppo, è già sposata e pure triste. Così i due innamorati scappano ad Alessandria d’Egitto per vivere il loro amore autentico ma troppo anticonvenzionale, per l’epoca. La madre di Filippo Tommaso “fu tutta una poesia delicatissima e musicale di tenerezza e lagrime affettuose” e, prima dell’artista, nel 1874 aveva messo al mondo il primogenito, Leone. La casa natale sul porto antico di Alessandria è colma di arredi orientali e altrettanto abbondanti sono i nomi di Filippo Tommaso: Susù, Tom, Thomas, anche se, al consolato e all’anagrafe di Milano, è registrato soltanto come Emilio Angelo Carlo e dice di chiamarsi Filippo Achille Giulio, ma poi, dal momento in cui inizia a scrivere, sceglie Filippo Tommaso e per i più intimi, semplicemente “Effetì”. Una marea di nomi a cui votarsi.
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“Quando appariva distratto, preoccupato da problemi di difficile soluzione o non risolti secondo la sua direttiva – scrive di lui Aldo Palazzeschi – con la sigaretta in bocca si sedeva all’organo per eseguire una sonata che faceva assurgere al massimo livello l’atmosfera da Harem-Moschea di quella casa. Eseguita la sonata si alzava ridendo: ogni dubbio dileguato, ogni difficoltà risolta, il suo ottimismo era di tale lega che nulla riusciva a scalfirne la buccia”. L’appetito futurista, poi, è proverbiale (si ricordano ancore certe mangiate di pastasciutta al Savini di Milano) e ben alimentato con “costolette ampie come bandiere formaggio gorgonzola e vino Grignolino” servito dalla cuoca Marietta. Palazzeschi ricordava: “All’ora del pranzo e a quella della cena appariva Nina giovanissima cameriera azzurra e dalla grazia squisitamente goldoniana, con la massima spigliatezza e quasi con sdegno toglieva da quella tavola, divenuta una fucina, tutto quello che c’era di più per poterla restituire, almeno provvisoriamente, alla propria natura”. Un eccentrico e un dandy che, nonostante le numerose amicizie, incontra anche non poche polemiche e riceve curiosi epiteti: “una nullità tonante” lo definisce Gabriele d’Annunzio (del resto Effetì lo chiamava vecchio trombone e lui gli rispondeva: cretino fosforescente), “poeta degli imbecilli” fu invece il lieve soprannome affibiatogli da Antonio Fogazzaro. Ma la sua vitalità è incontenibile e passa volentieri dalle parole (e dai versi e dagli insulti), ai fatti.
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Nel 1905, appunto, pubblica l’inno, in francese, A l’automobile e pochi anni più tardi, si compra un’Isotta Fraschini da quasi cento cavalli, nomen omen. Ma guidare un “automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia” (il vocabolo è maschile, si sa, all’inizio, fino al 1923, quando d’Annunzio, in una lettera a Giovanni Agnelli, decide di cambiargli il genere) non è così immediato per Marinetti, che si domanda: “se un po’ alla volta riesco a imparare i rudimenti della lingua cinese, volete che non riesca infine a pilotare una Isotta Fraschini?”. Eppure, proprio mentre prende lezioni di guida dall’amico meccanico Ettore Angelici, il 15 ottobre 1908, in via Domodossola, il fattaccio. Gli compaiono davanti due ciclisti, “titubando come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contradditori” e il futurista sterza bruscamente, precipitando, con qualche ammaccatura, nel canale. Da allora, il futurista si fa accompagnare sempre da uno chauffeur. “Noi vogliamo inneggiare inneggiare all’uomo che tiene il volante” si legge, curiosamente, nel celebre Manifesto del Futurismo, ma l’uomo in questione è quindi l’autista, se vogliamo leggere alla lettera la sua vita. Il Manifesto appare in prima pagina su Le Figaro di Parigi, quello storico 20 febbraio 1909. Ma non è il solo giornale ad ospitare il Manifesto del futurista che dichiarò guerra al chiaro di luna, e non è il primo.
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“Marinetti aveva inondato i giornali italiani – scrive Guerri – di volantini con il testo e sono state rintracciate, finora, otto edizioni a stampa precedenti Le Figaro: sulla Gazzetta dell’Emilia, su Il Pungolo di Napoli, sulla Gazzetta di Mantova, sull’Arena di Verona, sul Piccolo di Trieste, a Napoli su Tavola rotonda, poi sul Giorno di Roma”. I quotidiani locali accolgono il progetto futurista con “il coraggio, l’audacia, la ribellione”, mettendo, in prima pagina, un articolo dalla potente carica esplosiva. Un articolo, in undici punti (tremila battute, spazi inclusi) destinato a “inventare” il giornalismo moderno, come ha scritto Pontus Hulten: “Marinetti ha inventato il giornalismo moderno. Ha capito che l’informazione precede gli avvenimenti. Quando ha pubblicato il Manifesto, il Futurismo non esisteva ancora”. Anche Marinetti, come molti scrittori, ha con sé un’arma carica, in punto di morte. Qualche mese prima di morire, Marinetti, che si è ormai trasferito a Como, vicino al Lario, riceve in dono una rivoltella da parte dell’ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka. Grazie all’amico nipponico sono stati salvati anche cinque grossi faldoni di documenti, manoscritti, lettere e inediti di Marinetti. Ancora una volta, l’ambasciatore giapponese interviene nella vita del futurista, invitandolo a trasferirsi in due stanze all’Hotel Splendido, l’attuale Excelsior, di Bellagio. La vita abbandona il futurista, ormai sconfitto, magro e malato, davanti ad un lago, quello di Como, luogo di passaggio più che mai in quell’istante, da un mondo all’altro, dall’Italia del nord ferita sotto i bombardamenti alleati. La Caffeina d’Europa si spegne allo Splendido di Bellagio, il 2 dicembre 1944, dietro i monti del lago di Como. E si chiude così il Futurismo, per Marinetti, quel gelido giorno d’inverno.
Linda Terziroli