“Ho bisogno di essere amato”: l’incontro tra Marcel Proust e Reynaldo Hahn, il “piccolo Mozart”
Cultura generale
Marilena Garis e Riccardo Peratoner
Il décalage tra la materia biografica e la produzione artistica è annoso problema dibattuto in discussioni secolari, problema che ancora non ha avuto e forse non avrà mai una definitiva sistemazione teorica. Quanto l’arte attinge realmente dall’uomo empirico, dal referto biografico nudo e crudo, e quanto invece essa è il prodotto imponderabile di un misterioso io “altro” che travalica quegli stessi dati e addirittura li ignora, attingendo a qualcosa che invece di essere il diretto riflesso del vissuto è au contraire un’esistenza parallela, in dimensioni che le positivistiche raccolte di fatti non potranno mai nemmeno sfiorare?
Quanto la biografia di uno scrittore, di un pittore, di un compositore può davvero dire della sua arte e in che misura invece la sua produzione si sottrae a ogni indagine documentale, trascendendo i fatti? Nel suo celebre Contro Sainte Beuve, dato alle stampe postumo solamente nel 1954, Marcel Proust, con giudizio poi ripreso dalla critica stilistica, affondava il suo bisturi impietoso contro il massimo critico dell’Ottocento, Charles Augustin Sainte Beuve, giudicato proprio esponente di quel metodo biografico manchevole di profondità.L’opera d’arte, insisteva Proust, non può mai ridursi alla mera biografia, all’esistenza privata, e urgeva invece separare nettamente lo scrittore e l’uomo di mondo.
“Un livre est le produit d’un autre moi que celui que nous manifestons dans nos habitudes, dans la société, dans nos vices”.
Sainte Beuve veniva visto, e tale giudizio è stato ripreso poi senza preoccuparsi spesso di una revisione diretta, come un critico salottiero, tutto proteso nel raccogliere notizie, dati esteriori o, peggio, pettegolezzi, e in tale caricatura, frutto più che del genio di Proust dei suoi passivi ripetitori, l’autore del Port Royal finiva per apparire come un’Edda Hopper o un’Elsa Maxwell della critica letteraria.
Fu fatto notare che quasi con un’anticipazione della fenomenologia husserliana Proust effettuava un'”epoché”, una messa in parentesi della percezione esteriore, che egli legava invece inscindibilmente alla sua eco interiore; l’istante in cui le cose vivono non è un dato immediato della coscienza, ma è fissato dal pensiero che le riflette.
In verità l’enorme importanza del Contro Sainte Beuve, pur nella sua straordinaria lucidità teoretica e profondità, risiede non tanto nella stroncatura di Sainte Beuve, opinabile come vedremo, ma nell’elaborazione di alcune delle idee germinali della Recherche.
Proust addebita a Sainte Beuve di non avere compreso la grandezza di Baudelaire e di Balzac e di avere invece inneggiato a scrittori dimenticati e marginali. In realtà l’addebito di Proust riguarda il gusto di Sainte Beuve che, anche nei suoi giudizi più limitativi, tracciava invece le prime linee della decifrazione estetica di quegli scrittori, per quanto da lui non amati, con molta più profondità di quanto non appaia a prima vista.
Quando Sainte Beuve dice lapidariamente di Balzac che “scrive alla diavola per l’immortalità” egli condensa nella brevità di un epigramma proprio la natura demonica della Comédie humaine, come in quella prosa arruffata, in quelle costruzioni spesso caotiche, in cui il genio si mescola talvolta a cadute di stile feuilletonistiche, agli antipodi della scrittura infinitamente cesellata di un Flaubert, si celasse proprio la preoccupazione prima del riscatto della propria anima attraverso la creazione, la tensione verso l’ immortalità, verso la salvezza di sé attraverso la scrittura.
Criticando Balzac egli ne coglieva invece paradossalmente la cifra più segreta e potente.
E, ancora, quando sempre Sainte Beuve diceva de Les Fleurs du Mal che in essi Baudelaire “petrarcheggia sull’orribile” egli coglieva proprio con impressionante intelligenza la più segreta essenza della più grande raccolta lirica dell’Ottocento, il suo essere un petrarchismo rovesciato, che proprio da quel ribaltamento copernicano di prospettiva dischiudeva le porte alla poesia moderna. Il “frisson nouveau” che Victor Hugo scorse ne Les Fleurs du Mal è proprio quel ribaltamento antipodale del petrarchismo.
Anche nell’apparente affinarsi delle interpretazioni critiche, nella pretesa scientificità delle letture di poesia, sta di fatto che Sainte Beuve rimane, a dispetto del pur profondissimo e bellissimo saggio di Proust, il massimo critico che la storia abbia prodotto, intendendo dire con questo forse enfatico giudizio che in nessun altro prima o dopo di lui si è stati capaci di una tale divinazione psicologica degli scrittori (Sainte Beuve si definiva “un amatore d’anime”), delle più impercettibili sfumature dell’io, e di una simile fusione di tale indagine con il giudizio estetico e con la finale indistinzione tra critica e letteratura, tra soggetto giudicante e oggetto conoscitivo.
“Le critique n’est qu’un homme qui sait lire et qui apprend à lire aux autres” suona una delle frasi più ripetute di Sainte Beuve, facile all’apparenza e profonda invece nella sua essenza. La critica non è nulla di applicativo o di rigidamente meccanico, è qualcosa invece di fluido e di libero e disinteressato, che attinge direttamente alle impressioni della lettura elaborandole attraverso le categorie del gusto e dell’interpretazione estetica, ma da quella base sempre dipende e altra finalità non ha se non insegnare agli altri a leggere.
Come nelle tradizioni spirituali, in cui la figura dell’intermediario, del Maestro, serve solo a far diventare il discepolo Maestro di se stesso. Nelle Causeries du Lundi che per molti anni apparvero, ogni lunedì appunto, su alcuni dei maggiori giornali francesi del tempo, nella cadenza settimanale degli articoli Sainte Beuve discorreva con erudizione immensa sempre corretta e temperata dal gusto di scrittori grandi e piccoli, antichi e moderni, celebri e negletti, e la cosa impressionante è che quasi sempre dava vita a mirabili capolavori di stile anche occupandosi di libri brutti o raffazzonati.
La prosa francese ha in Sainte Beuve uno dei suoi vertici assoluti, in una lingua meravigliosa che trasfigura l’oggetto della propria indagine e che lo apparenta ai sommi critici ottocenteschi delle arti figurative come John Ruskin e Walter Pater. Come la scrittura di Ruskin e di Pater si sforzavano di ricreare nella materia verbale, nel tessuto fonico della parola le opere d’ arte da essi contemplate nelle loro peregrinazioni in Italia e in Europa, così la lingua di Sainte Beuve ricomponeva in un nuovo ordito un materiale che, in mano ad altri, sarebbe diventato polvere accademica, trastullo di eruditi.
L’artista in Sainte Beuve fa capolino sempre, indissociabile dal critico, e non a caso la sua attività giovanile fu primariamente di poeta, con versi talora di notevole grazia romantica, e di romanziere con la prova altrettanto rimarchevole di Volupté.
Apro a caso uno dei quindici volumi delle Causeries du Lundi e mi imbatto nello scritto sul Libro dei Re di Firdusi (Sainte Beuve ovviamente non conosceva il persiano e si affidava a un’imponente traduzione ottocentesca, quella dell’orientalista Jules Moul). Quel che in mano ad altri sarebbe diventato uno zibaldone citazionistico, un mosaico di riferimenti bibliografici per occupatori abusivi di cattedre, diventa nella penna di Sainte Beuve un ragionamento squisito su come la lettura dei libri, soprattutto dei libri di viaggio, debba servire a ridimensionare l’amor proprio e la futilità della gloria, “le grand mot” di Pascal.
“Combien des royaumes nous ignorent!”, volendo significare con tale esclamazione la relatività di tutti noi, poveri esseri empirici legati al condizionamento del nostro tempo e del nostro spazio, rispetto a un mondo ancora screziato dall’ infinità delle culture. Ad apertura di libro e con il più semplice dei carotaggi letterari ecco già ridimensionato il giudizio di Proust, posto in ombra dalla requisitoria di Sainte Beuve proprio contro la vanità personale e la vanità mondana. Si sa che il capolavoro di Sainte Beuve è il Port Royal, libro immenso e di storiografia totale che, se aveva Proust fra i suoi detrattori, era peraltro il libro preferito di Albert Thibaudet (“Port Royal c’ est le plus grand livre de l’histoire”) e di Gianfranco Contini, che nel libro-intervista a Ludovica Ripa di Meana Diligenza e voluttà faceva eco a Thibaudet definendolo il più grande libro mai scritto, il più nutriente per ogni momento della vita.
Enfasi fuori luogo, esagerazione sbilanciata? Non direi.
Senza impancarsi in inutili graduatorie fra i vertici assoluti della letteratura non esiterei a porre la monumentale storia dell’abbazia giansenista fra i massimi libri di ogni letteratura, in un esito in fondo inclassificabile perché si tratta insieme di un’opera di rigorosa storiografia, di altissima letteratura e di abissale indagine psicologica, in cui i fantasmi di Pascal o di Arnauld, di Racine, di Nicole o della Mère Angelique rivivono con una potenza ineguagliabile.
Le discussioni sulla Grazia e sulla predestinazione che sono il perno della dottrina giansenista, i dubbi e le estasi della fede trovano qui nuova linfa attraverso la penna di un non credente, di un laico che pure quelle vertiginose atmosfere dello Spirito sapeva divinare meglio di molti presunti credenti. Siamo per certi versi in atmosfere molto simili a quelle di Manzoni con la differenza che lo scrittore lombardo applicava il proprio scandaglio, così venato appunto di cascami giansenisti, dall’interno di una fede tormentata ma salda, mentre lo scandaglio di Sainte Beuve si esercitava, con contraddizione più fascinosa, fuori del suo compatto fortilizio. E con quale profondità toccava appunto i culmini della spiritualità e della psicologia la sua scrittura pur così a volte atrabiliare, impastata contraddittoriamente di tutti i veleni e le corrosioni dell’anima!
Non a caso un suo libro postumo, venuto in luce nel 1926, si intitola Mes Poisons, “I miei veleni”, e tali acidi corrosivi investivano alcune delle personalità più in vista del tempo, primo tra tutti il ciclope Victor Hugo, dapprima amico e poi “nemico” di Sante Beuve in parte per rivalità letterarie e in parte per la liaison che Sainte Beuve intessé con la moglie di Hugo, Adele.
I veleni di Sainte Beuve restano un utile correttivo al buonismo e al politicamente corretto dei nostri tempi, uno schermo psicologico contro le insidie di una cultura ormai deviata e incapace di formulare giudizi diretti e di chiamare le cose con il proprio nome. In parallelo, sul piano della psicologia, quanto si apprende di più sui moti dell’anima nelle pagine di Port Royal piuttosto che in tomi e tomi di psicologia clinica come di psicologia spicciola prete à porter!
La “scoperta dell’inconscio” della modernità ha consegnato definitivamente al giudizio la presuntuosa idea che la psiche umana sia oggetto di investigazione da Freud in poi e che una disciplina che dovrebbe avere, nella sua forma clinica, come oggetto l’uomo empirico debba invece rivestirsi di un’intelaiatura teorica che continuamente si frammischia e si sovrappone, appunto, a tale dimensione empirica. Ne consegue un perenne fraintendimento e gioco di scambi fra la teoresi e concetti pratici, ateoretici. E l’indagine della psiche è molto meglio e più perennemente svolta nei grandi moralisti francesi, da Montaigne in poi, tradizione di cui Sainte Beuve è l’estremo, splendido frutto.
Tornando a Port Royal, fu uno dei massimi esponenti dei “Doctrinaires”, Royer Collard, a dire che “chi non conosce Port Royal non conosce l’umanità”.
Nella storia del secondo monastero di Port Royal (il primo, Port Royal des Champs, sorgeva nella valle di Chevreuse) si riflettono come in un microcosmo chiuso, segnato dalla disciplina della regola monastica, tutte le passioni e tutte le vicende umane e l’affresco monumentale di Sainte Beuve è una comédie humaine in parallelo, spaziante in ogni possibile nuance dello Spirito. È con dolce malinconia, infatti, che oggi al visitatore si dischiudono le poche vestigia dell’abbazia, dove la rue Saint Jacques ha termine e si congiunge con l’eponimo Boulevard de Port Royal, frutto della risistemazione urbanistica haussmanniana. Chiuso nel 1790 e adibito durante la Rivoluzione a prigione (ospitò fra gli altri Madame de Tourzel, la governante dei figli di Luigi XVI e Maria Antonietta), il monastero fu in buona parte smantellato e oggi il cloitre de Port Royal è incorporato nell’ Hopital Cochin, nella parigina Ecole d’ accouchements.
Le rimanenze dell’abbazia hanno l’incanto fragile delle rovine, la grazia effimera delle testimonianze sopravvissute al naufragio dei secoli: i grandi spiriti che la popolarono, la sua vita, le sue vertigini ascetiche sopravvivono oggi non già in quelle poche vestigia ma nelle pagine dei suoi esponenti e nel capolavoro cui Sainte Beuve ne ha consegnato per sempre la memoria.
Alessio Magaddino