Dicendo di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, il pilastro dei poeti persiani, vissuto a Nishapur e morto, probabilmente, nel 627 dall’ègira, si rischia il sacrilegio. Come parlare del fuoco se ignoriamo l’ustione, le fenici del rogo, felici di vivere sott’acqua, con occhi corrosi dal sale? Secondo l’Encyclopædia Iranica, che esiste come centro di ricerca internazionale dagli anni Settanta e opera sotto gli auspici della Columbia University:
“La visione del mondo rappresentata nelle opere di Attar riflette l’intera evoluzione del movimento Sufi, nelle sue ramificazioni esperienziali, speculative, pratiche, di addestramento iniziatico. Il punto di partenza è l’idea che l’attesa liberazione dell’anima incarcerata nel corpo possa essere sperimentata in vita grazie all’unione mistica, a cui si giunge tramite la purificazione interiore. Aspetti e problemi di questa via purgativa sono al centro degli scritti mistici di Attar”.
Ciò che resta della vita reale di Attar – un uomo che ha cercato, misticamente, di annientarsi – lo dice un florilegio di leggende. Ciò che ci resta della sua opera, di innumerevoli volumi, dicono, è infimo: quell’infimo ha la violenza del cristallo.
Per lo più, di Attar è noto il poema mistico Manṭiq aṭ-ṭàir, “La conferenza degli uccelli”: in Italia esiste nella versione di Carlo Saccone, Il verbo degli uccelli, edita da Se. Si trovano anche – sempre per Se, a cura di Laura Pirinoli – le Parole di sufi e Il poema celeste (Rizzoli, 1990; a cura di Maria Teresa Granata), per farsi una idea di questo gigante del filosofare in versi. (È sempre sconcertante pensare che le cose determinanti, in grado di dare una svolta al nostro inquieto vivere, siano tenute ai margini, ritenute dai militi dell’oggi insignificanti).
Quanto alla “Conferenze degli uccelli”, ne facciamo dire a Jorge Luis Borges, lettore estremista della poesia sapienziale persiana:
“Il remoto re degli uccelli, il Simurg, lascia cadere nel centro della Cina una piuma splendida. Gli uccelli, stanchi della loro antica anarchia, decidono di intraprenderne la ricerca. Sanno che il nome del loro re vuol dire trenta uccelli; sanno che la sua reggia è nel Kaf, la montagna circolare che circonda la terra. si lanciano nella quasi infinita avventura; superano sette valli, o mari; il nome del penultimo è Vertigine; l’ultimo si chiama Annichilimento. Molti dei pellegrini disertano, altri periscono. Trenta, purificati dalle fatiche, giungono alla montagna del Simurg. La contemplano alfine: s’accorgono che essi stessi sono il Simurg, e che il Simurg è ciascuno di loro”.
Il testo non è tratto da un saggio di Borges, ma da un racconto, L’accostamento ad Almotasim, raccolto in Finzioni. Nel racconto – dalle volute saggistiche – si dice dell’“insaziabile ricerca di un’anima attraverso i delicati riflessi che essa ha lasciato nelle altre”. Il testo è del 1935, si cita – tra le tante cose – anche l’Ulisse di Joyce; il sunto del “Colloquio degli uccelli” è in una nota in cui ci cita, invece, Plotino. Secondo Borges – o meglio: secondo il narratore de L’accostamento ad Almotasim – Attar sarebbe morto per mano dei soldati “di Tule, figlio di Gengis Khan, durante il sacco di Nishapur”. Anche qui, sfoghiamo nella leggenda. Di certo, Attar è stato il maestro – mistico prima che carnale – di Jalal al-Din Rumi, forse il più importante dei poeti/teologi persiani.
Nella stessa nota, il narratore in cui s’intravede l’ombra tigrata di Borges, accenna alla traduzione del “Colloquio degli uccelli” in inglese, fatta da Edward FitzGerald. FitzGerald, poeta inerme, senza fegato, è l’autore della straordinaria traduzione delle Rubaiyat of Omar Khayyam, stampata da Bernard Quaritch nel 1859. Idolatrata da Rossetti e da Swinburne, quella traduzione è una delle chiavi di volta della nuova poesia in lingua inglese; FitzGerald impose alla proverbiale rugosità delle quartine una dolcezza da tè delle cinque, una sorta di bruma. Le sue traduzioni-reinvenzioni fornirono l’ancoraggio per esperienze analoghe (la più nota: Cathay, le poesie classiche cinesi tradotte da Ezra Pound). Atavico il tema: la traduzione è il terreno di duello tra il poeta che ha creato e il poeta che con-crea traducendo; gioco di specchi e stiletti.
Il tema del sangue e del labirinto dei riflessi, va da sé, non poteva non affascinare Borges, ancora lui, che all’Enigma di Edward FitzGerald dedica un saggio incorporato in Altre inquisizioni, tra un testo che parla di Paul Valéry e uno di Oscar Wilde.
“Intorno al 1854 gli viene prestata una raccolta manoscritta delle composizioni di Omar, disposte secondo l’ordine alfabetico delle rime; FitzGerald ne traduce alcune in latino e intravede la possibilità di intrecciarle in un libro continuo e organico, che potrebbe iniziare con le immagini del mattino, della rosa e dell’usignolo, per finire con quelle della notte e del sepolcro. A questo proposito improbabile e perfino incredibile, FitzGerald dedica la sua vita da uomo indolente, solitario, maniacale. Nel 1859 pubblica una prima versione delle Rubaiyat, a cui ne seguiranno altre, ricche di variazioni e perfezionamenti. Accade il miracolo: dalla fortuita congiunzione tra un astronomo persiano che si degna di scrivere poesie e un eccentrico inglese che sfoglia libri orientali e ispanici, forse senza comprenderne il senso, emerge uno straordinario poeta che non somiglia a nessuno dei due”.
Le traduzioni da Attar tentate in queste pagine dipendono, in parti quasi uguali, da FitzGerald e da Peter Lamborn Wilson, aka Hakim Bey, figura affatto diversa dal cupo e cauto studioso nato nel Suffolk più di due secoli fa. Anarchico sufi, amico di William Burroughs, PLW ha studiato in Iran negli anni Settanta, affiancando Henry Corbin. Poeta lunare, piaceva a Cristina Campo – che lo ha tradotto – e a Elémire Zolla (che lo ha pubblicato). Le sue peregrinazioni tra i poeti persiani sono raccolte in una antologia edita nel 1988 con un titolo esemplare, The Drunken Universe: An Anthology of Persian Sufi Poetry.
Il sole può essere scrutato soltanto dalla luce del sole. Più un uomo sa più cresce in smarrimento, più è prossimo al sole più ne è accecato: può arrivare soltanto fino a un certo punto.
Ma il mistico sa senza sapere, conosce privo di intuizione o informazione, non contempla non descrive né rivela. I mistici sono fuori di sé: di per sé, non esistono. Si muovono se sono mossi, dicono se gli è dettato il verbo vedono con una vista che dilata i loro occhi. Una volta ho incontrato una donna e le ho chiesto dove porta l’amore: “Pazzo, non esiste destinazione. Amore e Amato e Amante sono infiniti”.
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Un derviscio elettrizzato, pazzo d’amore per Dio cercò nudi colli, luoghi dove nessuno aveva mai messo piede. Leopardi selvaggi tenevano compagnia al folle – il cuore invischiato in un’irrequieta estasi: visse in tale stato per venti giorni danzando e cantando inni: “Divisione non esiste, esistiamo soltanto noi due – il mondo della gioia e del dolore svanisce”. Muori a te stesso – non essere più separato: l’uomo la cui felicità dipende da Lui rifugge dall’esistere, vive nell’oscuro. Rallegratevi sempre nell’Amico, gioite finché non sarete altro che una voce che prega.
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Eternità dello specchio
Non Tu ma Io ho visto, sono stato, ho agito… Chi nella tua Frazione di Me scorge il mio Io e nello Specchio tenta di intuire se stesso, in ogni sua parte, pur ammirandosi, annegando nell’immagine, mai si vedrà. Recupera gli Atomi del tuo decentrato Centro, diventa l’Eterno Specchio che hai scorto: radioso hai vagato nella selvaggia Oscurità – è ora che ritorni nella pace del tuo Sole.
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Né infinito né effimero il tuo volto è invisibile: non ne vedi che il riflesso.
Davanti allo specchio, sospira: che una coltre lo copra.
Meglio ancora: trattieni il respiro come se vivessi sott’acqua. Basta poco perché l’immagine sparisca.
Non sei morto né dormiente o in veglia: annientati.
Ciò che desideri non si trova affrontando lunghi viaggi: perditi come fanno gli amanti e tutto sarà tuo.
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Afferrerò con la mano un lembo dell’anima calpesterò il muso del mondo con questi piedi. Materia e Spazio rovinerò con il mio cavallo e al di là dell’Essere potrò gridare: quando resterò sola con Lui, bisbiglierò segreti a tutta l’umanità. Poiché non ho sigillo né nome, parlerò di cose senza sigilli né nomi. Non illuderli con un cuore in fiamme: il mio discorso è aduso alla lavagna e alla lingua. Il corpo, impura famiglia, va gettato: parla secondo la purezza dell’anima.
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Perduto riapparso non so dove goccia che risale dall’oceano in crollo e ancora si dissolve; ombra stesa dall’alba che svanisce quando mezzogiorno arriva. Non ho notizie della mia nascita della mia morte – l’intero tratto è stato più veloce di un respiro; non si discute con le falene. Nella candela del suo viso ho dimenticato ogni risposta. La via dell’amore è lastricata di conoscenza e ignoranza così sono diventato un cretino e un sapiente devi diventare un occhio eppure non vedere per questo sono cieco ma riesco a percepire la polvere sul mio cranio e posso dire per quali vie sconfitto dallo stupore ho vagato: Attar osserva il suo cuore che trascende i mondi alla foce della sua ombra egli è un folle d’amore