29 Aprile 2024

“Perditi come fanno gli amanti”. Le poesie di Attar, il folle sapiente

Dicendo di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, il pilastro dei poeti persiani, vissuto a Nishapur e morto, probabilmente, nel 627 dall’ègira, si rischia il sacrilegio. Come parlare del fuoco se ignoriamo l’ustione, le fenici del rogo, felici di vivere sott’acqua, con occhi corrosi dal sale? Secondo l’Encyclopædia Iranica, che esiste come centro di ricerca internazionale dagli anni Settanta e opera sotto gli auspici della Columbia University:

“La visione del mondo rappresentata nelle opere di Attar riflette l’intera evoluzione del movimento Sufi, nelle sue ramificazioni esperienziali, speculative, pratiche, di addestramento iniziatico. Il punto di partenza è l’idea che l’attesa liberazione dell’anima incarcerata nel corpo possa essere sperimentata in vita grazie all’unione mistica, a cui si giunge tramite la purificazione interiore. Aspetti e problemi di questa via purgativa sono al centro degli scritti mistici di Attar”.

Ciò che resta della vita reale di Attar – un uomo che ha cercato, misticamente, di annientarsi – lo dice un florilegio di leggende. Ciò che ci resta della sua opera, di innumerevoli volumi, dicono, è infimo: quell’infimo ha la violenza del cristallo.

Per lo più, di Attar è noto il poema mistico Manṭiq aṭ-ṭàir, “La conferenza degli uccelli”: in Italia esiste nella versione di Carlo Saccone, Il verbo degli uccelli, edita da Se. Si trovano anche – sempre per Se, a cura di Laura Pirinoli – le Parole di sufi e Il poema celeste (Rizzoli, 1990; a cura di Maria Teresa Granata), per farsi una idea di questo gigante del filosofare in versi. (È sempre sconcertante pensare che le cose determinanti, in grado di dare una svolta al nostro inquieto vivere, siano tenute ai margini, ritenute dai militi dell’oggi insignificanti).

Quanto alla “Conferenze degli uccelli”, ne facciamo dire a Jorge Luis Borges, lettore estremista della poesia sapienziale persiana:

“Il remoto re degli uccelli, il Simurg, lascia cadere nel centro della Cina una piuma splendida. Gli uccelli, stanchi della loro antica anarchia, decidono di intraprenderne la ricerca. Sanno che il nome del loro re vuol dire trenta uccelli; sanno che la sua reggia è nel Kaf, la montagna circolare che circonda la terra. si lanciano nella quasi infinita avventura; superano sette valli, o mari; il nome del penultimo è Vertigine; l’ultimo si chiama Annichilimento. Molti dei pellegrini disertano, altri periscono. Trenta, purificati dalle fatiche, giungono alla montagna del Simurg. La contemplano alfine: s’accorgono che essi stessi sono il Simurg, e che il Simurg è ciascuno di loro”.

Il testo non è tratto da un saggio di Borges, ma da un racconto, L’accostamento ad Almotasim, raccolto in Finzioni. Nel racconto – dalle volute saggistiche – si dice dell’“insaziabile ricerca di un’anima attraverso i delicati riflessi che essa ha lasciato nelle altre”. Il testo è del 1935, si cita – tra le tante cose – anche l’Ulisse di Joyce; il sunto del “Colloquio degli uccelli” è in una nota in cui ci cita, invece, Plotino. Secondo Borges – o meglio: secondo il narratore de L’accostamento ad Almotasim – Attar sarebbe morto per mano dei soldati “di Tule, figlio di Gengis Khan, durante il sacco di Nishapur”. Anche qui, sfoghiamo nella leggenda. Di certo, Attar è stato il maestro – mistico prima che carnale – di Jalal al-Din Rumi, forse il più importante dei poeti/teologi persiani.

Nella stessa nota, il narratore in cui s’intravede l’ombra tigrata di Borges, accenna alla traduzione del “Colloquio degli uccelli” in inglese, fatta da Edward FitzGerald. FitzGerald, poeta inerme, senza fegato, è l’autore della straordinaria traduzione delle Rubaiyat of Omar Khayyam, stampata da Bernard Quaritch nel 1859. Idolatrata da Rossetti e da Swinburne, quella traduzione è una delle chiavi di volta della nuova poesia in lingua inglese; FitzGerald impose alla proverbiale rugosità delle quartine una dolcezza da tè delle cinque, una sorta di bruma. Le sue traduzioni-reinvenzioni fornirono l’ancoraggio per esperienze analoghe (la più nota: Cathay, le poesie classiche cinesi tradotte da Ezra Pound). Atavico il tema: la traduzione è il terreno di duello tra il poeta che ha creato e il poeta che con-crea traducendo; gioco di specchi e stiletti.

Il tema del sangue e del labirinto dei riflessi, va da sé, non poteva non affascinare Borges, ancora lui, che all’Enigma di Edward FitzGerald dedica un saggio incorporato in Altre inquisizioni, tra un testo che parla di Paul Valéry e uno di Oscar Wilde.

“Intorno al 1854 gli viene prestata una raccolta manoscritta delle composizioni di Omar, disposte secondo l’ordine alfabetico delle rime; FitzGerald ne traduce alcune in latino e intravede la possibilità di intrecciarle in un libro continuo e organico, che potrebbe iniziare con le immagini del mattino, della rosa e dell’usignolo, per finire con quelle della notte e del sepolcro. A questo proposito improbabile e perfino incredibile, FitzGerald dedica la sua vita da uomo indolente, solitario, maniacale. Nel 1859 pubblica una prima versione delle Rubaiyat, a cui ne seguiranno altre, ricche di variazioni e perfezionamenti. Accade il miracolo: dalla fortuita congiunzione tra un astronomo persiano che si degna di scrivere poesie e un eccentrico inglese che sfoglia libri orientali e ispanici, forse senza comprenderne il senso, emerge uno straordinario poeta che non somiglia a nessuno dei due”.

Le traduzioni da Attar tentate in queste pagine dipendono, in parti quasi uguali, da FitzGerald e da Peter Lamborn Wilson, aka Hakim Bey, figura affatto diversa dal cupo e cauto studioso nato nel Suffolk più di due secoli fa. Anarchico sufi, amico di William Burroughs, PLW ha studiato in Iran negli anni Settanta, affiancando Henry Corbin. Poeta lunare, piaceva a Cristina Campo – che lo ha tradotto – e a Elémire Zolla (che lo ha pubblicato). Le sue peregrinazioni tra i poeti persiani sono raccolte in una antologia edita nel 1988 con un titolo esemplare, The Drunken Universe: An Anthology of Persian Sufi Poetry.

***

Farīd al-Dīn ʿAṭṭār

(Nishapur, Iran, 1145 – 1221)

Il sole può essere scrutato soltanto
dalla luce del sole. Più un uomo sa
più cresce in smarrimento, più è prossimo
al sole più ne è accecato: può arrivare
soltanto fino a un certo punto.

Ma il mistico sa senza sapere, conosce
privo di intuizione o informazione, non contempla
non descrive né rivela. I mistici sono fuori
di sé: di per sé, non esistono. Si muovono
se sono mossi, dicono se gli è dettato il verbo
vedono con una vista che dilata i loro occhi.
Una volta ho incontrato una donna e le ho chiesto
dove porta l’amore: “Pazzo, non esiste destinazione.
Amore e Amato e Amante sono infiniti”.

*

Un derviscio elettrizzato, pazzo d’amore
per Dio cercò nudi colli, luoghi dove nessuno
aveva mai messo piede. Leopardi selvaggi
tenevano compagnia al folle – il cuore
invischiato in un’irrequieta estasi:
visse in tale stato per venti giorni
danzando e cantando inni: “Divisione
non esiste, esistiamo soltanto noi due –
il mondo della gioia e del dolore svanisce”.
Muori a te stesso – non essere più separato:
l’uomo la cui felicità dipende da Lui
rifugge dall’esistere, vive nell’oscuro.
Rallegratevi sempre nell’Amico, gioite
finché non sarete altro che una voce che prega.

*

Eternità dello specchio

Non Tu ma Io ho visto, sono stato, ho agito…
Chi nella tua Frazione di Me scorge
il mio Io e nello Specchio tenta
di intuire se stesso, in ogni sua
parte, pur ammirandosi, annegando
nell’immagine, mai si vedrà.  
Recupera gli Atomi del tuo decentrato
Centro, diventa l’Eterno Specchio che hai
scorto: radioso hai vagato nella selvaggia
Oscurità – è ora che ritorni nella pace
del tuo Sole.

*

Né infinito né effimero
il tuo volto è invisibile:
non ne vedi che il riflesso.

Davanti allo specchio, sospira:
che una coltre lo copra.

Meglio ancora: trattieni il respiro
come se vivessi sott’acqua.
Basta poco perché l’immagine sparisca.

Non sei morto né dormiente o in veglia:
annientati.

Ciò che desideri non si trova
affrontando lunghi viaggi:
perditi come fanno gli amanti
e tutto sarà tuo.

*

 Afferrerò con la mano un lembo dell’anima
calpesterò il muso del mondo con questi piedi.
Materia e Spazio rovinerò con il mio cavallo
e al di là dell’Essere potrò gridare: quando
resterò sola con Lui, bisbiglierò segreti
a tutta l’umanità. Poiché non ho sigillo
né nome, parlerò di cose senza sigilli
né nomi. Non illuderli con un cuore
in fiamme: il mio discorso è aduso alla
lavagna e alla lingua. Il corpo, impura famiglia,
va gettato: parla secondo la purezza dell’anima.

*

Perduto
              riapparso
                            non so dove
goccia che risale
              dall’oceano in crollo
                            e ancora si dissolve;
ombra
              stesa dall’alba
              che svanisce
quando mezzogiorno arriva.
Non ho notizie
              della mia nascita
                            della mia morte –
l’intero tratto
              è stato più veloce
              di un respiro;
non si discute
              con le falene.
                            Nella candela
del suo viso
              ho dimenticato
              ogni risposta.
La via dell’amore
               è lastricata
                       di conoscenza e ignoranza
così sono diventato
           un cretino e un sapiente
           devi diventare
un occhio eppure
                       non vedere
per questo sono cieco
ma riesco a percepire
                       la polvere
           sul mio cranio
e posso dire per quali vie
sconfitto dallo stupore
              ho vagato:
Attar
        osserva il suo cuore
                 che trascende i mondi
alla foce della sua ombra
          egli è un folle
                d’amore

             

Gruppo MAGOG