Dopo lunga lettura e meditazione della sua opera, incontro Luciano Cecchinel in un sabato mattino d’agosto, a pochi passi dalla sua Revine-Lago, sulle Prealpi trevigiane, non distante da Pieve di Soligo, terra del suo predecessore, e amico poeta, Andrea Zanzotto, che vide in lui l’erede poetico.
Ne ho un’impressione intensa, quella che ti lascia chi non spreca le frasi, né eccede nei gesti e tratta il verbo come cosa sacra. Bisogna memorizzare all’istante quello che dice: siamo di fronte ad una parola poetica di speciale valore.
L’uomo cammina a grandi falcate, da alpinista, ma è il poeta che sopravanza su tutto, dall’alto di quei limpidi e seri occhi azzurri – che sanno leggere l’imponderabile. Le sue parole suonano come versi. Ascoltarlo è come leggerlo.
Nato a Revine-Lago (Treviso) il 15 giugno 1947, laureato in Lettere Moderne all’Università di Padova, Professore, Cecchinel è riconosciuto come una delle voci più alte della poesia italiana contemporanea. Al centro della sua lirica vi è il valore essenziale dell’esperienza, visceralmente radicata nel proprio territorio di appartenenza, intessuta di echi filosofici e offerta a chi è in cammino sui mille sentieri dell’esistenza, talvolta interrotti, talvolta sommersi dal dolore.
Cecchinel inizia a scrivere in un singolare codice linguistico: l’antico dialetto di una valle isolata, posta nel basso bellunese. Una lingua che è lo specchio del paesaggio che la ospita, scandito da ripidi sentieri ed erte cime, un lessico arduo da leggere e decifrare, che lui stesso traduce per i lettori. Attraversare i suoi versi è un po’ come ritornare al focolare di un camino d’altri tempi, e qui ritrovare preziosi valori, maturati nella dura fatica della montagna, nell’intimità con i suoi sacri silenzi. Il dialetto – lingua del sentire – diviene per Cecchinel cifra stilistica essenziale, minuziosamente approfondita; scelta ponderata, meditata e attraversata dal dubbio, ma sempre e di nuovo abbracciata, in coerenza al voler stare-sulle-cose-autentiche, di cui quel dialetto è espressione, nello stoico intento di preservarle dall’oblio.
La scrittura di Cecchinel, anche nelle raccolte in lingua italiana, muove da una profonda e personale tensione lirica che spesso sfocia in istanze collettive. Così, i ricordi, la terra, le radici, l’emigrazione, il dolore, il divino, divengono temi comunitari, attraversati da una forte connotazione morale e da una mirabile spinta di condivisione.
La sua lirica è rimasta volutamente sconosciuta fino alla pubblicazione della raccolta di poesie in dialetto veneto Al tràgol jért (1988), cui sono seguiti Senċ (1990), Lungo la traccia (2005), Perché ancora/Pourquoi encore (2005), Le voci di Bardiaga (2008), Sanjut de stran (2011), In silenzioso affiorare (2015), Da un tempo di profumi e gelo (2016), Da sponda a sponda (2019). Del 2018 è la sua prima prova in prosa, La parabola degli eterni paesani.
I suoi testi hanno ricevuto importanti riconoscimenti, tra i quali il Noventa (2006), il Pisa (2012) il Biagio Marin (2014) e il Viareggio-Rèpaci (2020); nel 2022 l’Università di Bologna gli ha conferito il premio Alma Mater-Violani Landi alla carriera per la poesia, ma il suo è sempre stato uno stare più fuori che dentro il mondo letterario. Essere nel verso, oltre il concetto, è il “risarcimento” della sua scrittura, come osserva Roberto Nassi, lontana dai riflettori, coraggiosamente e orgogliosamente controcorrente. La poesia
“ha sempre avuto per me a che fare con qualche ganglio nevralgico che, determinando dei traboccamenti emotivi, finiva per sedimentare progressivamente un pensiero dominante: il processo poteva essere innescato talvolta dal senso del bello o, come più spesso è avvenuto, dall’inclemenza del doloroso e del tragico. Nel secondo caso la scrittura è divenuta per me in fondo una terapia tesa a medicare gli effetti dell’incontro/scontro tra degli eccessi – o, ammettiamolo pure, delle storture interiori – e i mali esistenziali”.
La malattia e la prematura perdita della figlia primogenita Silvia, il 16 aprile 2001, è “la soglia sulla soglia” di Luciano Cecchinel, la porta stretta che sigla il senso della perdita come cifra essenziale della sua opera e della sua vita.
Tanta è la commozione che mi pervade nel sentire le sue parole, un’emozione profonda che diviene gratitudine per il dono ricevuto: “A datare dalla malattia di mia figlia ogni possibile ispirazione veniva immediatamente sopraffatta dal pensiero di quel disastro (…) Questa situazione, che ha a che fare col problema dell’ineffabile (…), mi inibiva la volontà di scrittura, per cui verso di essa avevo a un certo punto maturato una forma d’odio. Ma è anche vero che con quel pensiero a distanza di anni, seppur per episodi e lacerti, mi sono misurato, come se una evenienza così innaturale comportasse per me e per tutti quelli che l’hanno vissuta un dovere di testimonianza”.
Un “annoso cimento”, lungamente meditato e sofferto, come lo definisce lui stesso, vede così la luce sul finire dello scorso anno: Per i giovani figli perduti, Ronzani Editore, 2022, dedicato proprio a Silvia e in qualche modo preannunciato nel 2015 dalla delicata silloge In silenzioso affiorare. Si tratta di una ricchissima antologia di poesie e prose di vari autori della letteratura mondiale, accomunati dalla tragica perdita di un figlio o di un affetto caro. Uno straordinario lavoro – rimasto in cantiere per dieci anni – che si snoda in trentasei capitoli, tra cui figurano la Sacra Bibbia, Cicerone, Plutarco, Hugo, Whitman, Dostoevskij, Carducci, Mallarmé, Tagore, Ungaretti, Gatto, Zanzotto, Pasolini, Grossman, tanto per citarne alcuni. Un libro che si fa strumento di condivisione, mano generosamente tesa verso chi si trova nelle comuni sabbie mobili di un dolore straziante. È stato “come tagliarsi le viscere”, mi dice, raccontandomi la genesi dell’opera e la sua ricerca esiziale:
“Probabilmente nella vita non ci può essere sofferenza più grande di quella della perdita di un figlio, come senza proporzioni è la crisi che ne consegue: l’universo si sgretola, l’esistenza implode ed è risucchiata in un vortice confuso di impotente ribellione e insopportabile pena, che finisce per delineare la livida prospettiva di non poter reggere di fronte al presente e al futuro”.
(dall’introduzione di Cecchinel al volume)
Testimoniare e dire il dolore, universalizzare la propria dimensione personale come forma di conforto, condivisione e resistenza ai drammi della vita, è stato il faticoso cammino di collazione di poesie e prose curato da Luciano Cecchinel “il tutto alla ricerca di un nuovo, anche se mai pacificato, senso dell’esistenza”.
Tra gli autori che ha antologizzato, cerco la sua voce e la ritrovo, limpida, sul finire del libro:
“Grazie ma ancor più perdono
Perché un figlio che muore
ti dà la grazia
di non aver paura di morire,
anzi, poiché sei morta
piena di piaghe,
di non aver paura
di morire nel male.
La grazia di esser pari
al dignitoso orgoglio
che ti avevamo dato
senza sapere che sarebbe stato
sale sulle tue piaghe:
per finire come un’adulta,
poco più che bambina.
La grazia di morirci
lungo la tua via
di trafitture, squarci e ustioni
quasi che tutto fosse,
come già tu eri stata,
un confidente concordato
dono del cielo.
Grazie allora figlia
ma ancor più perdono”
(Luciano Cecchinel, In silenzioso affiorare, 2015)
Dolore e grazia camminano a fianco e si inchinano l’uno davanti all’altra. Le parole attraversano l’imponderabile e si fanno verbo dell’amore più grande. Trafiggono come saette che vanno dritte al cuore.
Aveva ragione Proust nell’affermare che “le opere, come i pozzi artesiani, salgono tanto più in alto quanto più profondamente la sofferenza ne ha scavato il cuore”.
Marilena Garis