12 Settembre 2022

“Nel terreno della supplica”. Leggere Eliot per scampare al pantano del nostro tempo

Che cos’è poi, l’azione, che cosa la gloria, il bene di un popolo?

Tempi di guerra e di elezioni, tempi scuri in cui l’aria, l’aria stessa che respiriamo è pesante e viscosa, unta di un male oscuro e inconfessato che ci imbratta le fibre, ci oscura la mente, ci schiaccia la volontà.

Tempi di guerra e di elezioni, e di promesse e grida: del vecchio che non vuole abdicare, del nuovo che vorrebbe ammazzare suo padre ma – non avendo un padre, e perciò un oggetto – altro non sa immaginare che la distruzione di tutto.

Tempi, infine, in cui chi scrive queste righe altra risposta non sa darsi se non piangere, pregare e aggrapparsi a quel poco di bene che la storia gli ha lasciato – la storia sua personale, la grande storia universale, quella che vista da lontano fa sembrare le parole «bene» e «gloria» come esperienze ancora possibili, dentro tutto e nonostante tutto, in spem contra spem.

Murder in the Cathedral – per le nostre latitudini Assassinio nella cattedrale – è uno di quei miracoli della storia che punteggiano un’epoca ma attraversano la linea del tempo e a cui in momenti – decenni? – come il nostro conviene sempre ritornare come a una fonte di sangue sacrificato, come a un abbraccio di ragione e di speranza che emerge dal tessuto stesso dei versi. Seconda opera teatrale di T.S. Eliot – considerando a pieno titolo come suo esordio il morality medievaleggiante The Rock, andato in scena due anni prima – Assassinio vede la luce del palco nel giugno del 1935 al Canterbury Festival, assumendo poi tra il 1937 e il 1938 la forma definitiva che ancora leggiamo. Nessun luogo più indicato, peraltro, perché proprio Canterbury e la sua cattedrale sono lo sfondo della scarnissima azione scenica: il ritorno dell’arcivescovo Thomas Becket dalla Francia e il suo assassinio.

E proprio Thomas col suo tormento interiore – la lacerante dicotomia tra intenzione e azione, tra potere e vanagloria, tra abbandono all’opera di Dio e orgoglio umano – è il centro dell’opera. Un dramma fortemente “di parola” e antinaturalistico, come tutto il teatro eliotiano, ma non per questo meno realista; un dramma, al contrario, che proprio per questo antinaturalismo è capace di bucare la superficie della carne e delle cose – la dura pellaccia che nasconde e spesso soffoca il nous, il cuore – fino a farci vedere come cosa viva e agente non l’azione che si svolge sul palco, come detto piuttosto statica, ma quella che si svolge nella mente di ogni agonista.

E la mente di Thomas è la mente di un uomo sensibile, dotatissimo, amante di Dio e della sua opera, e purtuttavia sempre lacerato – sottilmente, impercettibilmente – tra il servizio e il potere. I dati storici che precedono l’azione sono noti: cancelliere di Enrico II dal 1154 al 1162, appena nominato arcivescovo di Canterbury e Primate d’Inghilterra Thomas muta repentinamente il suo atteggiamento politico, divenendo uno strenuo difensore degli interessi del clero. Di qui l’inimicizia con il re e la fuga in Francia, finché – riconciliatosi con Enrico in una sorta di pace sfiduciata nel luglio del 1170 – Thomas rientra a Canterbury, dove verrà ammazzato durante gli uffici divini del 29 dicembre da quattro cavalieri, di cui mai si saprà con certezza se fossero esecutori di un mandato o semplici volenterosi più realisti del re.

Diviso in due parti inframezzate dal sermone di Natale, il dramma si apre con il coro delle donne di Canterbury che chiedono a Thomas di non tornare, di non tornare a turbare il fragile equilibrio delle loro vite schiacciate dall’onta e dal potere e dei loro piccoli godimenti. Donne meschine e calcolatrici, come quelle più avanti descritte in The Dry Salvages, vittime di un’intelligenza della carne mai vagliata dal respiro dell’eterno:

Sette anni e l’estate è finita,
sette anni da quando l’arcivescovo ci ha lasciate,
lui, sempre così caro con la sua gente.
Ma non sarebbe un bene se tornasse.
Domina il re, o dominano i baroni;
e spesso abbiamo sofferto l’oppressione,
ma per lo più possiamo farci i fatti nostri,
contente che nessuno badi a noi.
Teniamo – ci proviamo – le nostre case in ordine;
il mercante, schivo e cauto, prova a tirar su la sua piccola fortuna,
e il contadino si piega sul suo pezzo
di terra, colordellaterra
lui stesso,
sperando di passare inosservato.

(Assassinio nella cattedrale, prima parte, coro)

Donne meschine e calcolatrici, certo, ma che cos’è il potere, che cos’è l’esercizio del potere? Se la vita si conquista donandola, a quale ideale e per quale cammino si può consapevolmente offrirla, quando ogni progetto umano alla fine sembra mostrarsi intessuto di lussuria, orgoglio, vanità?

È la battaglia interiore di Thomas, che ben cosciente di sé teme le tentazioni del male, ma più ancora teme quelle del bene. I tre tentatori che entrano in scena l’uno dopo l’altro ricalcano così le tentazioni di Cristo nel deserto: il primo gli offre il benessere di corte; il secondo lo sollecita a usare il proprio potere «per trigare» (to manoeuvre), rinunciando al potere ecclesiastico per il potere temporale, più efficace, più diretto, più concreto; il terzo gli propone l’amicizia dei baroni, più sicura di quella ormai corrotta con il re: come Satana sempre fa con l’uomo – «diventa mio amico, che tanto marcio come sei non potrai mai più essere amico di Dio» – così il tentatore di Canterbury fa con Thomas.

Ma è il dialogo con il quarto tentatore, che Thomas diversamente dagli altri tre non si aspetta, a mostrarci il punto profondo in cui l’azione e l’orgoglio si intrecciano, il crinale in cui il bene, l’idea del bene e la violenza sull’essere si incontrano. Già rispondendo al secondo Thomas ci aveva avvertiti della distanza tra l’intenzione e l’azione, là dove – aveva scritto anni prima in The Hollow Men – «cade l’ombra»:

Potere temporale per fare un mondo buono,
per conservare l’ordine, l’idea che il mondo ne ha.
Chi mette la sua fede nell’ordine del mondo
non controllato dall’ordine di Dio,
in fiduciosa ignoranza, non ferma il disordine,
lo accelera, nutre la malattia mortale,
degrada ciò che esalta.

(Assassinio nella cattedrale, prima parte, Thomas Becket)

Il quarto tentatore, inaspettato, si radica nel cuore del potere: nell’orgoglio spirituale, nel potere di noi su noi stessi, nell’abnegazione che cerca la gloria propria e non quella di Dio. Gli uomini dimenticano, dice il tentatore, e anche le azioni politiche più ardite, nel tempo, diventano particolari di un palinsesto, righe di un racconto il cui protagonista è annientato nel tempo che consuma e svanisce:

Finiranno i miracoli, e i fedeli spariranno.
E gli uomini daranno il loro meglio per scordarti.
E peggio poi, quando nemmeno ti odieranno a sufficienza
per esecrarti o calunniarti,
ma peseranno ciò che ti mancava
e guarderanno solo al fatto storico.
Quando dichiareranno che non c’è mistero
in questo uomo, che ha solo fatto la sua parte nella storia.

(Assassinio nella cattedrale, prima parte, Quarto tentatore)

«Chi sei», risponde Thomas, «chi sei tu che mi tenti coi miei stessi desideri»? Il ben agire, l’essere amati, la gloria eterna: ciò per cui il cuore di ognuno è fatto e che anziché ricondurci a Dio ci disperde per le strade più depravate, nei tentativi più disperati di darci da noi ciò che non è in mano nostra: la pace, la salvezza. È questa la tentazione estrema di Thomas, è questa la tentazione estrema – il crinale costante su cui si muove ogni nostra azione:

Adesso è chiara la mia strada, adesso è chiaro il senso:
non tornerà la tentazione in questo modo.
L’ultima tentazione è il più grande tradimento:
fare l’azione giusta per il motivo errato.

(Assassinio nella cattedrale, prima parte, Thomas Becket)

L’azione come risposta, la contemplazione come primo agire fondativo nel mondo. In questi tempi di dolore e piagnisteo, di ansia sorda che non scoppia mai in un pianto purificante, è questo ciò che Eliot – e attraverso lui la bimillenaria tradizione cristiana – ha da suggerirci. La sola via – ce lo dirà reincarnando nel suo testamento poetico le parole di Giuliana di Norwich – perché tutto possa veramente andare bene: nella purificazione del motivo, nel terreno della nostra supplica.

E tutto andrà bene,
e ogni sorta di cose andrà bene,
nella purificazione del motivo,
nel terreno della nostra supplica.

(Little Gidding, III)

[Traduzioni a cura dell’autore]

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