“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Una wunderkammer, stanza delle meraviglie, può contenere di tutto: libri antichi, animali impagliati, collezioni di insetti, stampe giapponesi, teschi, incensi, statue, cristalli… tutto; è di solito lo specchio di chi l’ha costruita, pezzo dopo pezzo, rarità dopo rarità, secondo il suo gusto. Malizia Christi (Edizioni Croce, 2024) di Davide Cortese è un wunderbuch, un libro delle meraviglie, dove l’autore ci accompagna sotto il suo personale tendone, in mezzo a personaggi bizzarri dal cuore d’oro, o di pezza, come nel caso del conte Marsicano. Qualcuno lo ha definito gotico, ma qui troviamo suggestioni di un fantastico latino, come quello di Borges e Calvino, per citare i primi che saltano agli occhi.
La storia si svolge nel 1912 a Debrama, grigia cittadina inglese, dove il protagonista indiscusso è Adam Babelsberg, il quale ha appena sei anni ma è già l’autore di un’autobiografia di successo; Adam si muove come un adulto, parla come un adulto, veste in cilindro e scarpe di vernice, frequenta la crema artistica e stravagante della città e tutto è così soave. In questo uggioso sfondo incantato, Adam è un bambino già adulto di estrema gentilezza, come gentili sono gli amici di cui si circonda, e la sua vita fluttuante fra ricevimenti, musei, romantiche passeggiate nei cimiteri, ricorda un po’ La schiuma dei giorni di Boris Vian.
La narrazione è costellata di bellissime scene e invenzioni, come le chiacchierate fra Adam e l’amico centenario poeta Dorando Marradi (il cui cognome è, significativamente, il nome della città che diede i natali a Dino Campana) che vive in una casa/biblioteca. Tra i due amici, uno di sei anni, l’altro di cento, c’è un gioco finissimo: Adam ama domandare libri in prestito a Dorando, ma sono tutti libri inesistenti, tanto i titoli quanto gli autori; eppure Dorando non si sottrae mai al gioco e ama inventare lì per lì una trama inesistente per ognuno di quei libri. Questa è solo una tra le mille invenzioni di Cortese, il quale sembra suggerirci che l’amicizia sta proprio qui, cioè nella capacità di colmare le differenze (come quella fra l’età del protagonista e dell’amico poeta) utilizzando il prezioso strumento della fantasia. La finzione, il trucco, la maschera… tutti strumenti che siamo soliti coniugare in un’accezione negativa, legati solitamente alla malizia, possono invece trovare una loro dimensione felice e benefica.
L’inesistente, il fittizio, tornano sempre: lo sono i libri che Adam chiede in prestito; lo è il nome di un compianto poeta, costretto a vivere sotto pseudonimo; lo è la personalità di un pupazzo, inventata dal suo famoso ventriloquo. Il libro si presenta come una scatola di un prestigiatore ricolma di trucchi che ognuno può utilizzare per celare qualche insicurezza, qualche difetto, o addirittura il dolore. Perché sebbene ogni cosa sia squisita, sebbene gli amici siano davvero amici, il dolore c’è sempre, a volta nascosto dietro un bel viso imbellettato, a volte tenuto sotto chiave in una stanza segreta.
Cortese rinnova così il suo legame col mondo dell’infanzia, della favola, dell’invenzione, un legame che ricorda un Tonino Guerra o un Lucio Dalla. Come già lo erano le precedenti prove poetiche Zebù bambino e Tenebrezza, anche Malizia Christi è inequivocabilmente segno di quel privilegiato rapporto col mondo dell’infanzia; un mondo fatto di fantasie e invenzioni apparentemente futili, ma che in quel mondo diventano serissime questioni di vita o di morte.
«Cos’è che ti rigiri tra le dita?» chiese il signor Babelsberg a Dorando Marradi, sollevando lo sguardo dal libro di Bram Stoker. «Vieni a vedere», disse il vecchio poeta, «l’ho preso a casa di Martin Jarmud, quella volta in cui ci siamo andati insieme». Passò al signor Babelsberg un dado. «Anni fa andai a far visita a Martin e lo trovai con questo dado in mano. Sfregava una faccia del dado contro una pietra abrasiva. Era la faccia del dado con un solo puntino. Nessuno mai dovrebbe sentirsi solo, mi disse continuando a strofinare il dado sulla mola. Lo strofinò fino a far sparire il puntino e poi, compiaciuto, mi mostrò la faccia completamente bianca del dado. Non potevo credere ai miei occhi, quando, giorni fa, l’ho ritrovato nella sua baracca. L’ho sottratto senza farmi notare dal ventriloquo». «Sei un ladro, dunque!» disse il signor Babelsberg, ridacchiando.