02 Agosto 2024

“Osserva la voracità. Osserva il tuo stesso avvilimento”. Virginia Woolf: il corpo come opera aperta

VIRGINIA

Una mattina come tutte le altre Virginia Woolf si alza dal letto, dopo una delle sue solite, interminabili notti insonni, e si mette a spolverare con un panno che la governante le ha dato su suggerimento del marito Leonard. «Si faccia aiutare dalla signora – ha detto l’uomo alla domestica – così, per tenerla occupata». 

In realtà Leonard è preoccupato per lo stato mentale della moglie, poiché ha decifrato negli ultimi tempi i segni di un’altra, imminente crisi depressiva. Da quando i coniugi si sono trasferiti definitivamente nella dimora di campagna, la Monk’s House, dopo il bombardamento della loro casa londinese di Mecklenburgh Square, il 18 settembre 1940, la Woolf si sente infatti sempre più sola e isolata, sempre più stravagante, più imprevedibile, più paranoica. È stremata, non riesce a concentrarsi, ha improvvisi sbalzi d’umore e dice di sentire le voci. Trova insopportabile la casa, troppo umida, squallida. Odia la vita del villaggio e i suoi abitanti. È convinta che tutti parlino male di lei, che le vogliano male. La guerra, intanto, l’ha raggiunta anche lì, con le bombe tedesche che la svegliano in piena notte. La guerra, il cui pensiero la ossessiona. Ne ha parlato anche con Sigmund Freud, in un incontro avvenuto due anni prima, con il conflitto mondiale non ancora scoppiato, ma incombente. Nel gennaio del 1939 Virginia e Leonard hanno fatto visita al grande medico ebreo viennese nel suo studio di Londra, dove si è trasferito, in esilio dall’Austria, per sfuggire alle deportazioni naziste. Hanno parlato di Hitler, della minaccia che rappresentava per l’Europa, poi lui ha regalato a Virginia un narciso. Sarebbe morto di cancro poco dopo, il 23 settembre 1939. Circa un mese prima, alla vigilia dell’invasione nazista della Polonia, l’ultima parola che Freud ha lasciato scritto sul suo diario, è stata: «Kriegspanik» (Panico di guerra), forse un appunto per un nuovo studio che non avrebbe mai realizzato. È proprio quel panico che sta affrontando adesso Virginia Woolf nei suoi ultimi giorni a Radmell, quando la sua mente si riempie di «cattivi pensieri».

Così, la mattina del 28 marzo 1941, benché sorpresa per la strana richiesta, la domestica obbedisce al signor Woolf e consegna alla signora il panno per la polvere. Virginia comincia a pulire, ma l’occupazione dura molto poco. Posa il panno, va nel suo studio a scrivere qualcosa, o meglio a riscrivere, con lievi modifiche, una lettera al marito Leonard già scritta dieci giorni prima, una lettera in cui gli comunicava di aver scelto la «cosa migliore da fare», ovvero il suicidio. Aveva paura di impazzire e si era convinta che questa volta, a differenza delle crisi precedenti, non sarebbe più guarita. Riconosceva al marito di essere stato buono e paziente con lei e di averla resa felice, nella misura in cui era possibile per lei essere felice. Quella prima versione della lettera Leonard non ha avuto modo di leggerla, ma – avrebbe ricordato poi – il giorno in cui l’ha scritta sua moglie era tornata a casa fradicia. Forse un primo tentativo fallito di annegarsi nel fiume. 

Dieci giorni dopo, dunque, verso ora di pranzo, dopo aver riscritto quella lettera, Virginia esce per fare una camminata, indossando la pelliccia, gli stivali di gomma e il bastone da passeggio. Poco più tardi un paio di persone la vedono mentre cammina sulle sponde dell’Ouse, il fiume che limita i confini della sua tenuta, quel fiume in cui probabilmente dieci giorni prima ha provato a suicidarsi, quello stesso fiume in cui adesso, riempiendosi di grosse pietre le tasche della pelliccia, si lascia affondare definitivamente. In uno dei suoi ultimi frammenti di prosa lasciati incompiuti, poco tempo prima, aveva scritto di una donna somigliante a un’alga che fluttua in una stanza piena d’acqua. 

Il suo corpo viene ritrovato dopo una ventina di giorni, per caso, da un gruppo di ragazzini in gita sul fiume. All’inizio lo avevano scambiato per un tronco d’albero trascinato dalla corrente contro cui hanno scagliato delle pietre. Aveva ancora indosso la pelliccia e l’orologio. 

Virginia Woolf ha passato gli ultimi mesi della sua esistenza, prima di arrivare a perdere «ogni controllo sulle parole», a scrivere un romanzo rarefatto, frammentario e affascinante, un romanzo estremo in tutti i sensi, intitolato Tra un atto e l’altro: il suo ultimo esperimento letterario, che alla fine ripudierà, ma che suo marito pubblicherà postumo. Lo ha terminato il 23 novembre 1940 e si svolge nell’arco di ventiquattr’ore, proprio come La signora Dalloway, nel giugno del 1939, poco prima lo scoppio della guerra mondiale. Il romanzo ha per soggetto una recita da allestirsi in una casa di campagna vicino Londra. Questa recita – che si ripete ogni anno, ospitata di volta in volta in una casa diversa, a turno, e alla quale partecipa la comunità locale –  è il focus attrattivo di tutti i personaggi e la sua messinscena coincide con la parte centrale del romanzo, composto come una sorta di trittico: il prima, il momento dello spettacolo, il dopo. L’autrice della recita che funge da catalizzatore per le coscienze dei singoli personaggi, con le loro minute rifrazioni, è Miss La Trobe, che «sogna una commedia senza pubblico». È una donna bizzarra, diversa, che «la natura ha reso estranea alla sua razza». L’ultima pagina del suo testo, intitolato «Il Presente – Noi stessi», è una pagina bianca, che gli spettatori stessi dovranno riempire. La scena, dunque, alla fine resta vuota e silenziosa a lungo, per poi riempirsi di specchi, specchi di ogni genere. Non accade nulla, dunque, se non il rispecchiamento, a frammenti, di chi osserva. È un romanzo, evidentemente, scritto da chi ha già deciso di uscire fuori dalla vita, da chi si è posto negli interstizi, nell’interludio, tra un atto e l’altro, appunto. Da chi riesce a osservare «la natura incomprensibile della vita» (come la Woolf scrisse ne Le onde) con sovrano distacco, con nostalgia certo, ma anche con un certo sarcasmo. Da chi, in definitiva, dopo svariati, audaci tentativi, ha compreso che l’arte non può rappresentare la realtà.

Nell’ultimo appunto segnato sul suo diario, l’otto marzo del 1941, venti giorni prima di annegarsi nell’Ouse, Virginia scrive:

«Noto la frase di Henry James: osserva senza tregua. Osserva l’avvicinarsi della vecchiaia. Osserva la voracità. Osserva il tuo stesso avvilimento. Con questo mezzo diventa utile. O così spero. Insisto per impiegare questo tempo traendone il massimo vantaggio. Voglio affondare con la bandiera spiegata».

Questo fiero proposito – «affondare con la bandiera spiegata» – potrebbe sembrare un addio cifrato, una giustificazione dell’atto con cui si sta per concludere la sua esistenza. E forse lo è davvero. È quello che ci aspetteremmo, in effetti, dalla meravigliosa, raffinata e sottilissima mente della più grande scrittrice del Novecento. Eppure, subito dopo il commento sulla frase di James, si verifica un curioso slittamento, un repentino abbassamento di tono: Virginia si accorge, «con un certo piacere», che sono le sette e che deve preparare la cena domenicale. Merluzzo e salsicce, annota. Un appunto buttato lì, decisamente prosaico, o decisamente lieve, qualcosa di semplicissimo, di elementare, come a dire che occuparsi delle faccende quotidiane è altrettanto importante che meditare su Henry James, perché ci fa sentire ancora legati al ciclo naturale della vita, accordati al suo cuore pulsante, che spesso è più vicino, più familiare, più ordinario di quello che immaginiamo. Salvo, poi, con un’ulteriore, ultima variazione di registro, aggiungere un guizzo ironico:

«Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce». 

Virginia era convinta che tutti gli scrittori fossero infelici. E che la felicità appartenesse solo ai «senza-parola». I wordless. Eppure, adesso, dopo aver scritto il suo ultimo romanzo, ha intuito che davvero tutto esiste solo se la parola scritta lo rende reale. Il che equivale a dire che la realtà, di per sé, non esiste. Ma equivale a dire, anche, che la parola scritta è una trappola illusoria, capace solo di riflettere per frammenti una verità impossibile da ricomporre, proprio come la scena disseminata di specchi in Tra un atto e l’altro. Non a caso nel romanzo Miss La Trobe afferma, impietosamente, alla fine della recita: «Un altro fallimento». Se l’arte è menzogna, però, anche la vita lo è. Arte e vita sono due atti di uno stesso spettacolo, ovvero due momenti dell’essere di uno stesso fallimento. Non resta che «affondare con la bandiera spiegata», allora, non resta che la morte, l’unica verità sperimentabile.   

Fabrizio Coscia

Gruppo MAGOG