Ponendo mano all’epistolario dei suoi genitori, Evgenij Pasternak è consapevole di trovarsi di fronte al compito “più intimo, e di conseguenza, il più difficile” da assolvere. Ripercorrere la loro storia significa riaprire una porta segreta sulle luci ed ombre del loro vissuto, non senza parentesi dolorose anche per lui
“poiché il problema di fondo non era il fatto che la vita in comune, per due artisti come i miei genitori, esigeva da quello più giovane e meno dotato sacrifici che mia madre, all’occorrenza, non ebbe la forza di imporsi. Non era neppure il fatto che entrambi soffrirono molto per la separazione e che mia madre continuò ad amare mio padre per tutta la vita. Né che lui, tormentato da un eterno senso di colpa nei nostri confronti, era consapevole di essere incapace di superare le difficoltà psicologiche e materiali del suo primo matrimonio”.
No, prosegue Evgenij, alzando il velo dal cavalletto e svelandoci la tela ormai ultimata “il punto essenziale era che mio padre individuò la causa di questo fallimento nella scarsità del suo amore per mia madre, ritenendo che avrebbe dovuto capirlo fin dall’inizio e non mettere su famiglia, non lanciarsi in qualcosa per cui, come scrisse nella postfazione di Il salvacondotto, ‘non aveva stoffa a sufficienza’”.
Cosa si può dire davanti a una simile disarmante autenticità? Evgenij stesso si interroga sull’opportunità di evocare questo tema, udito e vissuto in prima persona attraverso la viva voce di suo padre e le cui ragioni più profonde risiedono nelle leggi della creazione artistica. A lungo rimanda la trascrizione dell’epistolario familiare, ritenendo più importante completare dapprima la biografia e la raccolta delle testimonianze su suo padre. Poi comprende che il compito sarebbe stato ancora più difficile per chi vi si fosse applicato dopo la sua morte, posta la difficoltà di decifrare e comprendere il contenuto di quelle lettere: decide di pubblicarle. Ne parla con Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva, e lei ammette di comprenderlo e di invidiarlo per la sua apertura.
L’edizione italiana del carteggio esce per Feltrinelli nel 2001 come Il soffio della vita, Corrispondenza con Evgenija (1921-1931) per la cura di Dasa Silhankova Di Simplicio, cui dobbiamo un ammirevole apparato bibliografico ed un’accurata selezione di versi che ripercorre alcuni momenti della vita coniugale di Boris e Zenja.
I due si incontrarono nell’estate del 1921 alla festa di compleanno del comune amico Sura Stich. Decisa a realizzarsi come pittrice, Zenja si era da poco trasferita da Pietrogrado a Mosca “traboccante di vitalità e gioia di vivere”, pronta a condividere con slancio i suoi progetti. L’idillio bohémien sfociò velocemente nel matrimonio che venne registrato a Pietrogrado il 24 gennaio 1922. I coniugi si stabilirono a Mosca, in un appartamento sulla Volchovka dove ricevevano gli amici artisti, tra cui, Majakovskij e Aseev.
Con la nascita del figlio Evgenij, il 23 settembre 1923, avvenne il primo distacco. Spossata dall’accudimento del bambino, gracile di salute, nella primavera del 1924, Evgenija partì per Tajcy, nei pressi di Pietrogrado, dove affittò una dacia per l’estate, cercando di recuperare le forze. Nella commovente lettera dell’8 maggio 1924, Pasternak immortalò questa partenza, vedendo la moglie e il figlio come “modelli” di bellezza assoluta, che lo spingevano a sua volta a diventare un “padre modello”, quasi una “consacrazione della vita” e del suo “inconsapevole sentimento religioso”. L’ideale di un amore alto, non mediocre, fedele “lo tratteneva e lo elevava a prezzo di sofferenze e sacrifici”, sottolinea Evgenij.
L’atteggiamento idealista doveva nondimeno scontrarsi con la realtà”, con l’impetuoso “torrente delle contraddizioni quotidiane”, con le “rivendicazioni” della moglie. Ben lungi dal sentirsi un angelo del focolare, Zenja aspirava a realizzarsi come artista, al pari del marito. Come camminare all’unisono, uniti contro le tempeste? Come “reggere” il rapporto esclusivo – incardinato nei fili di un destino più grande – che dal 1922 legava Pasternak a Marina Cvetaeva? I morsi della gelosia angustiavano Zenja: “Non ti nascondo che anche solo di sfuggita i nomi ‘Cvetaeva’, ‘Marina’ pungono al cuore, legati come sono a ricordi e lacrime amare”, leggiamo in una sua lettera di fine giugno 1924, cui seguirono diversi chiarimenti di Boris, talmente sinceri da risultare disarmanti (e toccanti) e che raggiungeranno i vertici nel 1926, l’anno memorabile del triangolo epistolare tra Pasternak, Cvetaeva e Rilke.
La gelosia provocò una frattura destinata ad accentuarsi, tra fughe e ritorni, silenzi, dubbi e sofferenze, a tratti monologhi amletici sull’essere o non essere del loro matrimonio, fino alla crisi, alla paralisi, alla resa, dove anche la “disciplina della volontà” si rivelerà vana (e che di fatto coincise con l’ingresso di Zinaida Neuhaus nella vita di Pasternak, nell’estate del 1930).
I toni disperati dell’ultima, lunghissima, lettera sono la testimonianza d’un amore che ha attraversato per un decennio la vita di Pasternak per poi virare verso un legame di profonda amicizia, ed i cui motivi rivivranno, rivisitati alla luce dell’arte, nelle pagine del Dottor Zivago.
“Mosca, dicembre 1931
Amica mia cara!
Perdona la mia ultima breve lettera. Perdona la mia colpa, perdona l’amarezza che ogni giorno ti porta il pensiero di me, perdona il mio delitto. Perdona, trova cioè la forza di riconoscerli in quanto fatti, per vivere e liberarti un poco dal loro potere. Trova questa forza […] Tutto quanto mi succede si compie contro la mia volontà, da sé, non per o a causa tua. Sto in pena, perché in pena stai tu, e tu sei parte della mia vita. […] Non ti separare da me nel tuo tormento: siamo stati colpiti tutt’e due. […] E preferirei piuttosto rompere la mia che piegare la tua, di volontà, tanto vivi sono i tuoi diritti su di me, tanto riconosco il loro potere naturale su di me e, nel mio cuore, il loro posto legittimo. […] È il terzo giorno che ti scrivo. Scrivo a pezzetti […] Che cosa ho fatto, che cosa ho fatto! […] Vivo nella speranza di incontrarti, nella speranza di un’altra vita, che non conosco e non so come chiamare, ma che nascerà piano piano non dalle cose terribili come i tuoi ultimi tormenti e i miei umori; che ti porterà tranquillità e salute, ci vestirà di calore e di luce e restituirà a noi tre il sorriso perduto. […] Com’è successo che io, non un mostro o un imbecille, con la mia sensibilità e – credo – bontà -, abbia reso infelici due esseri che avrei dovuto e senza dubbio voluto rendere felici, io, che la vivo così male ora, io, un uomo di casa e di famiglia? E allora mi prende una tale paura, Guliuska, un terrore tale che potrei soffocare se ogni volta, sempre di nuovo, non mi ricordassi che per una fortuna immeritata e straordinaria siamo tutt’e tre sempre vivi e ci rivedremo. E ciò è già così tanto che viene voglia di parlare solo di questo, solo di questo. […] Finisco laddove ho incominciato. Perdonami per tutto, ti prego, perdona, mia cara […]”.
Leggendo queste parole di speciale, intimo, valore comprendiamo che la lettera d’addio che Tonja scrisse a Jurij Zivago era già stata scritta, o meglio vissuta nella carne della vita reale, tanti anni prima. Era l’inverno. Era la sera. Fuori dalla finestra nevicava. Pasternak guardava cadere i fiocchi di neve, piccoli intervalli bianchi tra piccole lettere nere, gli occhi assenti, senza lacrime, asciugati dal dolore.