Conosco Carlo Avolio da molti anni. Non avevo ancora mai letto Ulisse di Joyce, ricordo, e ne parlavo molto male. Carlo mi convinse a leggerlo, dopo averlo letto decisi l’Ulisse fosse un capolavoro superiore a La ricerca del tempo perduto di Proust, che non avevo ancora mai letto. Avevo letto L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, però, e ne dicevo il peggio possibile, fino a quando non lessi gli studi di Carlo su Pynchon, e anche lì ho dovuto fare un passo indietro. Con Henry James si è posta una situazione anomala: è uno scrittore che è sempre piaciuto molto a entrambi fin dal primo istante. Allora la traduzione di La figura nel tappeto per Editrice Clinamen diventa l’innesco per una conversazione inedita che comincia con un punto in comune, per darci l’occasione di scoprirlo solo alla fine dei pensieri dove saremo andati a finire. (a.c)
Carlo Avolio, studioso di Joyce come di Pynchon, appassionato di letteratura nordamericana, come si posiziona la traduzione del racconto La figura nel tappeto di Henry James, nel tuo percorso personale e professionale?
Due risposte. Una ufficiale, più superficiale, quindi in parte menzognera, e la seconda più profonda, per questo più difficile da indagare. La prima: non esiste una traduzione recente del testo; l’ultima, uscita per Sellerio, non è più disponibile. La seconda: quello di James è un testo a cui sono legato per motivi biografici, mi ci sono confrontato fin da quando ero studente di filosofia a Napoli. Assieme ad altri testi brevi jamesiani, come Daisy Miller e La lezione del maestro, ne La figura nel tappeto James affronta il problema del rapporto tra la verità e la scrittura romanzesca, tra la dicibilità e la non dicibilità. Un tema direi wittgensteiniano: c’è qualcosa di sensato che se ne possa dire? Ancora di più la mia ragione è biografica perché il corso durante il quale ho letto per la prima volta il racconto era tenuto da Bruno Coppola, mio maestro, ora deceduto. Ricordo che quel corso era pensato per indagare la questione della verità romanzesca: questa traduzione così come la postfazione sono il mio modo per chiudere il cerchio. Il lavoro di traduzione è stato quindi anche un lavoro di lutto: Bruno Coppola è stato un outsider, l’ideale lettore jamesiano, e fondamentali per me sono stati i suoi studi sul rapporto tra bellezza e verità in letteratura.
Nella postfazione ti riferisci alla “urgenza, per così dire biografica, della produzione jamesiana durante l’ultima decade del XIX secolo”.
È possibile rintracciare a posteriori diversi momenti della produzione di James. A un certo punto pare che inizi a riflettere sul rapporto tra letteratura e verità. Con La figura del tappeto preannuncia certe dinamiche del tardo modernismo. Si rende conto che può giocare il gioco della letteratura. Attenzione, James non tematizza il problema in questione, piuttosto – per usare una espressione di Merleau-Ponty – questo viene reso-presente: la letteratura non spiega, mostra. Prima del postmodernismo James mette in scena il perfetto cortocircuito tra ciò che può essere detto dalla letteratura attraverso la letteratura e ciò che non può essere detto. Leggere uno dei suoi romanzi può essere difficile, oggi, le novelle invece assecondano il ritmo accelerato dei nostri tempi. James utilizza parole antiche per parlare del nuovo. Questo ha avuto un impatto anche sulla traduzione: inizialmente volevo dare una freschezza maggiore al testo in termini di scelte lessicali e sintattiche, poi però mi sono imbattuto in quel dilemma meraviglioso di cui parla anche Umberto Eco: il lettore deve sentire oppure no sulla propria pelle che esiste una distanza temporale, e culturale, dal James autore? Se non si vuole effettuare una operazione di riscrittura totale, come per esempio quella che Busi ha fatto del Decameron, tradurre significa saper passare la carta vetrata sul linguaggio contemporaneo nei punti giusti, per dargli la patina del tempo passato, ma: via i trattini e tanti punti e virgola, del tutto ottocenteschi.
La figura nel tappeto è un racconto paranoico, e la paranoia è un altro argomento al centro dei tuoi studi. Tradurre non è già un cercare la figura nel tappeto, per riformularla da una lingua all’altra?
Il lavoro di traduzione è un lavoro di proiezione, certo. Oggi che siamo alle prese con la post-verità la paranoia viene intesa come ciò che fonda il cospirazionismo. Mi preme sottolineare che questa è una considerazione fuorviante della sua natura: la paranoia si situa all’interno di tutti i percorsi di conoscenza. Ne L’incanto del lotto 49 di Pynchon c’è un passaggio bellissimo in cui il narratore svela il fatto che la questione della verità si gioca sul dover decidere tra lo stare dentro o fuori dalla metafora. La paranoia pone in gioco il problema della verità. Qual è il regime della verità? Con James che anticipa il Wittgenstein del Tractatus prima, e delle Ricerche filosofiche poi, dico che al di fuori del gioco della narrazione non ha senso porsi il problema della verità. La verità è una figura del discorso.
“Per quelle poche persone, comunque, anormali o meno, alle quali il mio racconto è rivolto, la letteratura era un gioco di abilità, e abilità significava coraggio, e coraggio significava onore, e onore significava passione, vita”. La letteratura è una cosa seria?
Dipende a chi lo chiedi. Devi chiederlo a un uomo fuori dalla norma come lo è stato James. James vive attraverso la letteratura, con Borges forse è l’ultimo grande scrittore che ha avuto una visione totalizzante della sua opera, identificandosi con essa. La figura nel tappeto è un racconto per lettori, per persone che leggono e che credono alla serietà della letteratura. È un racconto per gli anormali, disposti a farsi arricchire e ingannare dalle parole.
La modernità sfacciata di James si mostra fin dal protagonista che sceglie per il racconto: un critico letterario, come se ne rivedranno in 2666 di Roberto Bolaño.
Altra sfida aperta in questa traduzione è stato rendere l’altalenare di sensazioni che il critico accumula, come un generatore di ostilità e di odio, nei confronti della verità, una verità che gli sfugge sempre e che l’autore ripetutamente gli sottrae: al punto che non si può non immaginare James lavorare alla storia con un ghigno sadico sul volto: La figura nel tappeto oltre a essere straordinariamente interessante è allora un racconto perversamente divertente. Come James insegna in La lezione del maestro non dovremmo mai fidarci dei romanzieri: né di James stesso, dunque, né del Vereker del racconto. Non sappiamo se Vereker ha scherzato, possibile non ci sia nessun segreto estetico da rivelare, nessuna verità. Possiamo scegliere da che parte stare: con il romanziere che si prende gioco del critico oppure con il critico che è arrivato al cuore del romanziere. Due visioni opposte della letteratura. La bellezza del racconto è nella scelta che lascia al lettore.
Il racconto finisce con le parole: my revenge, la mia vendetta. Quale vendetta consuma James con la sua opera letteraria?
Difficile a dirsi. Sono possibili diverse ipotesi: forse con sé stesso? James è uno scrittore alla Hugh Vereker, autore di grandi opere, ma possiamo rintracciarlo allo stesso modo nel critico affermato Corvick e nel critico esordiente, protagonista del racconto. Il James de La figura nel tappeto è trino. Siamo nel 1896. Mancano tre anni prima che venga pubblicata L’interpretazione dei sogni, aprendo la strada verso la scoperta, o l’invenzione, della macchina dell’inconscio freudiano. La politesse del dettato jamesiano è il velo della finzione sociale che sta per essere strappato. James in questo racconto mostra anche la tensione pulsante al di sotto delle parole e dei gesti sei suoi personaggi. La stessa idea della verità conquistabile attraverso il rapporto intimo e interpersonale con la donna, penso alla storia tra Corvick e Erma, è un segnale quasi da manuale della forza erotica che non ne vuole più sapere di essere subliminata.
“Non esiste infatti per ogni scrittore una qualche cosa speciale di questo genere, la cosa che più di ogni altra lo incita nell’adoperarsi, senza lo sforzo per realizzare la quale egli non avrebbe mai scritto?”. Ti ci soffermi nella postfazione: l’indicibilità dell’essenza della grande arte. Esiste poi per davvero l’essenza dell’arte?
La domanda di James è evidentemente retorica, e come tutte le domande retoriche nasconde una risposta negativa, seppure di solito si pensa il contrario. Le domande retoriche danno risposte esposte e in questo caso James sta giocando, affermando che potrebbe non esistere affatto questa essenza, all’interno di quel gioco pieno di senso e privo di verità assoluta che è la letteratura. Pensiamo adesso a come James propina la morte ai suoi personaggi: lo fa con una leggerezza sospetta. La morte diventa l’accessorio fondamentale per allungare il tragitto verso il possesso della verità e il narratore la rappresenta a sua volta in modo sbrigativo, quasi superficiale. Mi vengono in mente alcuni racconti, certo più complessi, di John Barth, dei grandi postmoderni per i quali la finzione della letteratura serve a ragionare sulla funzione più generale della letteratura stessa. Ricordo ancora una volta che questa traduzione l’ho dedicata a Bruno Coppola: per me è stata l’ultima conversazione con il maestro, e con l’amico. Non è un caso, forse, che abbia scelto un racconto al cui interno è così importante la funzione della morte.
James più che moderno, ma al centro di La figura nel tappeto c’è un tema che sembra figlio di un altro secolo, di un’altra civiltà: la verità dell’arte. Oggi per quale verità riusciamo ancora a ossessionarci?
Vero, non ci poniamo più, in termini assoluti, il problema della verità nell’arte: eppure viviamo in un’epoca di avvenuta estetizzazione del mondo, di artificazione del mondo. Significa che la verità non è più concentrata all’interno delle performance artistiche intanto perché il rapporto stesso di ognuno con il mondo è diventato una forma di performance. La domanda sulla verità dell’arte si è travasata ed è diventata una domanda di verità sul mondo. Se qualcuno è ancora alla ricerca di verità “dure”, probabilmente queste domande si sono spostate nelle scienze e anche queste, mi pare, non sono immuni da forme di produttiva estetizzazione. La domanda delle domande è certamente quella che riguarda la teoria che unificherà, trasformandole, la relatività generale con la meccanica quantistica, anche in questo caso però le strade da percorrere sono molteplici e talvolta in conflitto tra loro, un conflitto tra costruzioni e grammatiche concettuali che l’arte dal canto suo esibisce da sempre. In altre parole, i migliori testi di letteratura – e di filosofia – che ho letto nell’ultimo periodo sono sicuramente testi scientifici. Stiamo sperimentando l’onda lunga di molteplici crisi, di spaccature; è insomma un buon momento: durante queste fasi le verità tornano a casa.
Antonio Coda
*In copertina: particolare del ritratto di Henry James ad opera di John Singer Sargent, danneggiato nel 1914 da una suffragetta (la fotografia è tratta da qui)