Il protagonista di Un amico di Kafka, infuocato racconto di Isaac B. Singer che dà il titolo a una raccolta del 1970 – tradotta da Longanesi nel 1974,torna per Adelphi nella versione di Katia Bagnoli – si chiama Jacques Kohn, è “un ex attore del teatro yiddish”; è, naturalmente, “un uomo malato, finito”. Nel racconto Kafka è più che altro una parola chiave, che dischiude atmosfere, un pretesto; a un certo punto, però, il livido Kohn racconta di quando ha accompagnato Kafka al bordello.
“Salimmo le scale sconnesse, aprii la porta e ci trovammo davanti una scena teatrale, tra le puttane, i clienti e le maîtresse. Non dimenticherò mai quel momento. Kafka si mise a tremare e mi tirò per la manica, poi si voltò e corse giù per le scale così velocemente che temetti si rompesse una gamba. Arrivato in strada si fermò e vomitò come uno studentello”.
Amo Singer, per questo sono sicuro che l’osservazione banale del suo Kohn – “Era ancora vergine” – raccolga un significato mistico; dietro le argomentazioni un po’ più argute – “Kafka voleva essere ebreo, ma non sapeva come si faceva. Voleva vivere, ma non sapeva come fare nemmeno quello” – immagino si celi un pensiero profondo, scosceso, sull’inerme, perché l’immobilità, semmai, non è propria alla preda ma appropriata al predatore. Ad ogni modo, tempo fa, dietro il velo della verginità di Kafka immaginai l’estremo erotomane, perché l’accidia del corpo, apparente, una palude, cela incendi e del corpo si fa alambicco.
Lo si vede dalle lettere, per dire. Accerchiano, ispirano la spirale – gyre direbbe William B. Yeats, serpentina dei secoli che s’insinuano, gocciolio di boccioli – infine ipnotizzano. Kafka comincia a scrivere a Milena nell’aprile del 1920 – “Cara signora Milena, la pioggia che durava da due giorni e una notte è appena cessata, forse soltanto provvisoriamente, ma certo è un avvertimento degno di essere festeggiato, e io lo faccio scrivendo a Lei” –, scrive di salute precaria, di notti insonni, di relazioni fumose; meno di due mesi dopo il tono ruota in una intimità sconvolgente – “Non pretenda da me che sia sincero, Milena” – in una consegna a precipizio (“…a Lei come a nessun altro al mondo”), nel convegno degli amanti. Scrive di “innocenza dell’immolazione”, Kafka, il ritmo duella, sprofonda, diventa aggressivo: “tu non sei per me una signora, sei una ragazza, non ho mai visto nessuna che fosse tanto ragazza, non oserò porgerti la mano, ragazza, la mano sudicia, convulsa, unghiuta, incerta, tremula, cocente e fredda”. Dopo due mesi già sogna di Milena, si firma “Tuo”; tre mesi dopo, nel luglio del 1920, Kafka ingarbuglia Milena nei suoi affari sentimentali: le chiede di spedire una lettera, definitiva – “la pongo chiusa nelle tue mani chiuse, interamente, come ho già messo me in codeste mani” – a Julie Wohryzek, la giovane figlia di un calzolaio di Praga, di cui poco gli importava, ormai (“senza alcuna speranza di nozze”, aveva confessato a Milena in una delle prime lettere, di quella relazione che “a rigore non vive, o meglio, vive una vita autonoma a carico altrui”; “coraggiosa, onesta, dimentica di sé”, descrive Julie a Max Brod, “non certo priva di bellezza, ma insignificante”). Attratte da Kafka, dal giogo delle elusioni, le donne non sanno mollarlo: egli, K, s’impianta in loro come un compito, una necessità, una remota colpa.
La confessione, perciò, si fa patibolo: K ha bisogno di affidare i suoi scritti, di sfiduciarli, di eliminarsi. Consapevole che nessun altro saprà decapitarlo, assemblarlo nel rogo – dunque, il dono che delinea la trappola, il segreto che tiene segregati.
Stordita da Kafka, Julie sposerà, in fretta e furia, nel 1921, l’avvocato Josef Werner; muore nell’agosto del ’44, ad Auschwitz. “Non esiste più una foto della seconda fidanzata di Kafka”: il dettaglio segnalato da Klaus Wagenbach – Franz Kafka. Immagini della sua vita, Adelphi, 1983 – è kafkiano.
Tra la fine del fidanzamento con Julie e l’inizio del rapporto epistolare con Milena, Kafka scrive Er, “Egli” – o “Lui” – testo esile ed esiziale, latore di ineluttabili e di estasi, di solito messo tra gli interstizi dell’opera di Kafka, difforme, indifesa. In particolare, lo si trova nell’edizione dei ‘Meridiani’ Mondadori che raduna Confessioni e diari di Kafka, a cura di Ervino Pocar (1972), e nella versione degli Aforismi e frammenti curati da Ferruccio Masini e Giulio Schiavoni per la Bur (2004; ai kafkologi non sarà sfuggita l’uscita, per Gallimard, dei due volumi che radunano Journaux e lettres di Kafka, a cura di Jean-Pierre Lefebvre, contestualmente al prezioso Album Kafka curato da Stéphane Pesnel: usi ad andare a rimorchio, Alessandro Piperno ha annunciato nuovi ‘Meridiani’ kafkiani, ovviamente indispensabili). Il testo, proprio perché parziale – vi si passa di fianco come presso una finestra –, comporta un surplus di ferocia verbale, è assiomatico, ansima rivelazioni. Il baratro biografico – “qui Kafka cerca di far fronte intellettualmente al fallito tentativo di sposare Julie Wohryzek”, Hartmut Binder – sconfina nell’assoluto, sidereo; intorno a quella scrittura Kafka comincia a scrivere Il castello. Su alcuni principi di Er – che costituisce il cardine, proposto in nuova traduzione, del primo libro della collezione Magog, Aforismi. Visioni. Diari – potremmo costruire un codice, di certo sono suono d’abisso, mano che ti afferra per incagliarti a un picco. Ne va saggiata la contraddizione, corroborante:
“Egli sarebbe felice in prigione. La prigione come fine: ecco il fine dell’esistenza. Ma Egli è in una gabbia di canne: il rumore del mondo, indifferente, imperiale, entra e esce, come in una casa. Il prigioniero, in verità, è libero: partecipa a tutto e nulla gli sfugge. Potrebbe uscire dalla gabbia perché le aste della grata sono distanti metri una dall’altra – questo è il pregio della libertà”.
“Egli si sente prigioniero sulla terra, lo spazio è stretto, debolezza malattia e follia lo minano, niente lo può consolare perché la consolazione spacca il cranio al prigioniero. Se gli chiedono cosa desidera non sa dire perché – ecco la prova che accampa – non sa cosa sia la libertà”.
“Egli nega il sole approvando il dolore – gli altri negano il dolore approvando il sole”.
Forse è la prigionia l’affare a cui dedicarsi, con puntualità: arte come pittura parietale su cella. L’assunzione vola da Kafka al Beato Angelico. Dovremmo trarre impasto e colore dopo aver triturato le ali dell’angelo.
“Restare calmi; allontanarsi da ciò che esige passione; conoscere la corrente e per questo andare controcorrente; andare controcorrente per il gusto della fuga.”
Hannah Arendt riteneva Er una “parabola che descrive la percezione temporale dell’io che pensa”. Eccesso di zelo filosofico – in Kafka, semmai, è la nigredo della cabbala – non privo di acuti:
“Egli ha due avversari; il primo lo incalza alle spalle, dall’origine, il secondo gli taglia la strada davanti. Egli combatte con entrambi. Veramente il primo lo soccorre nella lotta col secondo perché vuole spingerlo avanti, e altrettanto lo soccorre il secondo nella lotta col primo perché lo spinge indietro. Questo però soltanto in teoria, poiché non ci sono soltanto i due avversari ma anche lui stesso: e chi può dire di conoscere le sue intenzioni? Certo sarebbe il suo sogno uscire una volta, in un momento non osservato – è vero che per questo ci vuole una notte buia come non lo è mai stata – dalla linea di combattimento, e per la sua esperienza nella lotta essere nominato arbitro dei suoi avversari, che combattono tra loro. […] In questa situazione passato e futuro sono entrambi ugualmente presenti proprio perché ugualmente assenti ai sensi; così il non-più del passato, per effetto della metafora spaziale, si è trasformato in qualcosa che si trova dietro di noi e il non-ancora del futuro in qualcosa innanzi che si avvicina”.
Hannah Arendt
A Milena, da Praga, il 31 luglio del 1920, è sabato, ha compiuto 37 anni qualche settimana prima, Kafka si rivolge come a “lei che continuamente impara a proprie spese che si può salvare un altro soltanto mediante la propria esistenza”. Kafka pretende sacrifici, olocausti sentimentali continui. A contrario, lui, Kafka, è un’invasione, si moltiplica, pretesa infinita, ha occhi sui denti – chi lo vuole salvare, a proprie spese sa di morirne.