
“Sono creature perfette”. Le farfalle di Guido Gozzano ad Amalia
Poesia
Marilena Garis e Riccardo Peratoner
Bisogna leggere il prezioso libro di memorie di Ariadna Efron Marina Cvetaeva, mia madre per addentrarsi nella vita unica, dolente, straordinaria, della grande poetessa russa e forse comprendere meglio il rapporto elettivo, profondo e irripetibile, che la legò a Boris Pasternak.
Chi può dire cosa egli abbia rappresentato nella sua vita? Fratello delle vette, gemello lirico, dio, il padre che avrebbe voluto per suo figlio Georgij, Pasternak fu per lei un incontro con il destino: quello che scuote l’anima e ci trafigge come i fari di un treno in corsa. Dopo, niente potrà mai più essere come prima.
Ariadna, la figlia di Marina, lo conferma nel suo libro di memorie, nel capitolo Pasternak:
«Il legame che si stabilì tra i due poeti non aveva e non ha eguali: era unico. Due persone (lui e lei!) di pari età, di pari potenza per vocazione poetica, vocazione innata e prescelta […]; due persone che, pur parlando la stessa lingua, vivendo fianco a fianco nello stesso tempo e nella stessa città, dove si erano incontrati in modo occasionale, si trovarono solamente nella lontananza irreparabile, solamente nelle lettere e nelle poesie, come nel più stretto degli abbracci terreni. Si trattò di vera amicizia, autentica comunione e amore sincero […]».
La corrispondenza celestiale tra Marina Cvetaeva e Pasternak dura dal 1922 al 1936; tocca l’apice negli anni Venti, tra molti incontri agognati, che però mai si realizzano. Entrambi sono nel vortice delle incombenze della vita reale e mentre si affannano a conciliarle con una vita interiore che si nutre di emozioni profonde, si consumano le loro lettere, testimonianze di talento, sentimento e doti umane fuori dal comune.
Nell’inconiugabilità tra le vette e il fango dei giorni, Marina e Boris mostrano una singolare coerenza. Lei, l’immagine del timore di scendere dalle altezze del confronto epistolare; lui, incapace di operare un distacco tra le responsabilità familiari ed il mestiere di scrittore, vive sulla sua pelle la più completa lacerazione. Dove Marina esprime amara consapevolezza, Boris vive del senso di colpa, dell’affanno, in una posizione di perenne difesa.
Pare davvero un contrappasso lo sfortunato incontro del giugno 1935, a Parigi, in occasione del Congresso antifascista “per la difesa della cultura”. Pasternak è depresso, distratto dalle difficoltà della vita privata, in preda a un’insonnia cronica che lo assaliva da quasi un anno e che lo aveva portato ad un ricovero nella casa di riposo di Uzkoe.
«La sua freddezza, il fatto che fosse conquistato non da lei la scossero e la ferirono nel più profondo, tanto più che quel loro legame ideale costituiva il suo unico sostegno e rifugio dalla realtà delle sconfitte e delle offese patite negli ultimi anni di esilio. In seguito, dopo il ritorno in Unione Sovietica, Marina avrebbe visto Boris abbastanza spesso; egli l’aiutò e la sostenne parecchio e con impegno, ma la trascendenza della loro amicizia era finita: una volta scesi da una simile altezza non è possibile risalirvi, come non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume».
Ariadna Efron
L’incontro parigino segna dunque una frattura dopo tredici anni di lettere. Fino ad allora Pasternak aveva superato i limiti che la Cvetaeva aveva scoperto in tutti gli altri: lo vedeva come una quercia, una montagna, la trasposizione umana della superiorità trascendente del loro carteggio, ma mentre si svelava la grandezza dello scrittore, la finezza del suo ragionamento e l’altezza sopraffina della sua poetica, le paure di Marina prendevano forza e gettavano i semi del disincanto.
La letteratura trasfusa nel loro scambio epistolare è una sintesi delle loro esistenze e, nel contempo, pare la condanna all’incompletezza del loro rapporto nel reale; come se stare al di fuori della loro scrittura significasse abbandonare l’elemento che dava loro vita.
Gli incontri – i pochi che vi sono stati – sono affannosi e disagevoli. Ne sono travolti, trascinati lontani dall’altissima letteratura che insieme sanno costruire.
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Il destino che attraversa Marina e Boris non può non interrogarci sulla natura della corrispondenza epistolare. Lo scambio di lettere insegue le persone nel tempo e nel tempo le modifica/si modifica; è un dialogo, non un soliloquio: non può intendersi un’opera artistica nata da un intento specifico dell’autore – ne è piuttosto l’ologramma. Il suo risultato primario – cercato e sperato – sta più nell’esito sulle vite degli scriventi che nelle parole fissate sulla carta; o meglio, con esse ha a che fare, con esse si mescola fino a non poterne più essere distinto.
Tali e tanto profonde sono le contaminazioni che occasiona uno scambio epistolare persistente, che sembra saper vivere di vita propria, anche contro le urgenze e le occorrenze reali, fluendo dalla penna come il sangue sgorga da una ferita profonda – incontenibile – continuando a farlo anche dopo la morte di uno dei due. D’altra parte, chi meglio può rappresentare l’assenza di qualcuno se non il suo corrispondente di penna – fratello delle vette – che da sempre si è abituato a rinunciare all’altrui presenza fisica? Quanto nella vita viene generalmente perseguito con pervicacia e testardaggine quasi cieca – la vicinanza dell’oggetto del proprio amore e desiderio – subisce un opposto e singolare destino nell’incontro epistolare e in quello immateriale della creazione artistica.
Chi ha fatto esperienza di uno scambio epistolare – non occasionale – sa bene che quando si è attori di quella corrispondenza è concreta l’opportunità di una profonda trasformazione esistenziale. Quando invece non si è protagonisti, si profilano due vie: capire come siano andate veramente le cose, per poi provare a leggerle alla luce della propria sensibilità, oppure immedesimarsi pienamente, al solo scopo di intraprendere un percorso al di fuori di sé, abbandonandosi alle parole dei corrispondenti come un naufrago posa il suo corpo su una zattera trascinata dalle onde.
Questa seconda via è una scelta cui si è costretti, se non si vuole tradire il significato ultimo dello scambio epistolare. Dopo aver fatto propria quell’esperienza si può infine tornare in sé e tentare di intuirne una visione.
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Leggere le straordinarie lettere tra Marina e Boris ci fa vedere con chiarezza che una corrispondenza – nel loro caso spinta fino ai limiti – può diventare misura della capienza spirituale e della potenza artistica di due individui. Permea intimamente il loro mondo interiore come e più di una singola opera; soprattutto, non è una unilaterale impressione di sé che ciascuno fissa sulla carta, ma un’immagine di quattro distinti individui: il sé nel prima e dopo l’incontro con l’altro.
L’intensità del loro dialogo inchioda il lettore alle sue responsabilità, non concede alibi: le parole sono lì, potenti e precise, e parlano dell’intera vita vissuta. Contengono tutti i dettagli, ognuna si porta dietro il fardello del genio, la pienezza del loro incontro e l’immensità del vuoto che lascia la sua assenza. Sono dotate di tutta la forza necessaria per farci dimenticare chi siamo ed essere – per qualche momento – lei, lui, loro: parti del loro mondo interiore, che ci richiama come un canto di sirena. Già, perché gran parte delle lettere tra Boris e Marina è scomparsa per «un eccesso di cautela nel conservarle» scrive Pasternak in Uomini e Posizioni:
«un’impiegata del museo Skrjabin, grande ammiratrice della Cvetaeva e grande amica mia, mi propose di conservare queste lettere, insieme a quelle dei miei genitori e ad alcune di Gor’kij e di Rolland. Le mise tutte nella cassaforte del museo, ma dalle lettere della Cvetaeva non volle separarsi, né lasciarle un minuto, non fidando nella solidità delle pareti del forziere. […] Ogni sera si portava queste lettere a casa, in una valigetta, e al mattino, recandosi al lavoro, le riportava in città. Una volta, d’inverno, in uno stato di estrema stanchezza tornava nella sua casa di campagna. A mezza strada dalla stazione, nel bosco, si accorse di aver lasciato la valigetta con le lettere nel vagone del treno. Fu così che se ne andarono e si persero le lettere della Cvetaeva».
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Cosa succede dopo lo sfortunato incontro a Parigi? Nell’ottobre 1935, Pasternak scrive a Marina una lettera in cui cade a precipizio ai suoi occhi. Scrive Ariadna: «il suo intiepidirsi rispetto al fuoco e allo slancio degli anni passati, colpirono e ferirono Marina non meno di alcune frasi sul suo conto «tu…e tutte le altre cose…sfuggite», non meno del fatto che egli non fosse stato toccato dalle ultime opere scritte da lei, e lette – per la prima volta – in ritardo; non meno della frettolosità con cui menzionava il suo non-incontro con i genitori. L’espressione, la foga, Marina la capiva; la depressione no. Non la considerava una malattia (a differenza del mal di denti!); le pareva la manifestazione di un semplice difetto di carattere: sciatteria, abulia, egoismo, debolezze varie alle quali un essere umano (un uomo!) non ha diritto. A questo punto seguì non una risposta, ma una reprimenda, che viste le sue condizioni era evidentemente l’ultima cosa di cui Pasternak aveva bisogno! […] quella risposta è uno dei più vividi e travolgenti autoritratti epistolari della Cvetaeva, una difesa veemente e amara del principio vitale e dinamico che stava alla sua radice».
Quella reprimenda – l’ultima lettera del carteggio tra la Cvetaeva e Pasternak giunta fino a noi – è l’immagine di Marina dopo l’incontro con Boris: travolta dall’esperienza, arricchita dallo scambio, ma ancora incapace di trasformare la delusione in un insegnamento per sé. Al contrario, un buon consiglio ancora lo rivolge a lui.
Si interrompe un percorso, si intuiscono gli spiriti dolenti e spezzati dopo l’incontro. Si comprende il senso di inettitudine che li investe: non sono in quel momento in grado di darne una visione retrospettiva.
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[Vanves, fine ottobre 1935]
Caro Boris! Rispondo – lasciando perdere tutto – subito (quasi ad Alta voce, come quando si leggono le lettere. Altrimenti comincerò a pensare, e questo porterebbe lontano).
Di te: certo, non ti si può giudicare come persona […] Dimmi quello che vuoi, ma non capirò mai come si possa passare in treno vicino alla propria madre senza andare a trovarla, passare vicino a 12 anni di attesa. E anche tua madre non lo capirà – non aspettartelo. Qui finisce la mia capacità di comprensione, di comprensione umana. In questo sono il tuo opposto: porterei io il treno – sulle mie spalle – per rivedere qualcuno (anche se ho la stessa paura dell’incontro, anche se altrettanto poco ne gioisco). E qui sarà opportuna una mia osservazione: tutti gli esseri a me vicini – pochi – si sono rivelati infinitamente più molli di me, perfino Rilke me lo scrisse: Du hast recht, doch Du bist hart [Tu hai ragione, ma sei molto dura] – e la cosa mi amareggiò perché non potevo essere diversa. Ora, tracciando un bilancio, vedo: la mia apparente durezza era solo forma, profilo dell’essenza, indispensabile frontiera dell’autodifesa – dalla vostra mollezza, Rilke, Marcel Proust e Boris Pasternak. Giacché all’ultimo minuto avete allontanato la mia mano, avete abbandonato me, da tempo assente dalla famiglia degli uomini, faccia a faccia con la mia essenza umana.
Tra voi non-umani io ero soltanto essere umano. So che la vostra è una razza superiore, e ora è il mio turno, Boris, di dire, con la mano sul cuore: «Oh, non Voi – sono io proletario». Rilke è morto senza chiamare a sé né la moglie, né la figlia, né la madre. E tutte loro gli volevano bene. Perché si preoccupava della propria anima. Quando morirò, io non avrò il tempo di pensare all’anima (a me), perché avrò mille preoccupazioni: ha avuto da mangiare chi dovrà accompagnarmi, non sono andati in rovina i miei per il consulto, e forse, nella migliore ipotesi di egoismo: non hanno rubato i miei quaderni?
Sono stata me stessa (anima) soltanto nei miei quaderni e sulle strade solitarie – poche, giacché per tutta la vita ho portato per mano bambini. E per la «dolcezza» nei rapporti con gli altri non mi bastavano più le forze, ne avevo solo per il rapporto: servigio: inutile sacrificio. Il pellicano-madre, a causa del sistema di nutrizione da lei stessa creato, è cattivo. – Già!
Della vostra dolcezza: con essa vi riscattate, con questo cotone idrofilo tamponate i buchi delle ferite che vi hanno inferto, la gola urlante delle ferite. Oh, voi siete buoni, durante l’incontro non potete alzarvi per primi, e neanche schiarirvi la voce per pronunciare la frase di addio – per «non offendere». Voi «andate a comprare le sigarette» e scomparite per sempre, per ritrovarvi a Mosca, via Volchonka 14, o ancora più lontano. Robert Schumann dimenticò che aveva dei figli, dimenticò la data, dimenticò i nomi, i fatti, e chiese solo delle figlie maggiori: hanno sempre la stessa splendida voce?
Ma – ora viene la vostra giustificazione – solo queste persone creano quello. Dei vostri era anche Goethe, che non andò a dire addio a Schiller e per X anni non passò da Francoforte a vedere la madre – risparmiava le forze per il Secondo Faust, o per qualcos’altro, – ma che (parentesi!) a 74 anni osò innamorarsi e decise di sposarsi – senza risparmiare, in questo caso, il proprio cuore (fisico!). Giacché in questo siete dei dissipatori… Giacché da tutto questo (da tutti voi stessi, da questo tremendo orrore: il non-umano in sé, il divino in sé) […] vi curate nel modo più semplice: con l’amore […]
Io stessa ho scelto il mondo dei non-umani – perché lagnarmi?
La mia prosa: capisci: scrivo per guadagnare: letture ad alta voce, e dunque di cose volutamente chiare e intellegibili. Le poesie sono per me, la prosa – per molti (rima: «soldi»). La mia buona educazione non mi permette di stare in piedi e di leggere ai miei «ultimi fedeli» cose a loro chiaramente incomprensibili – per i soldi che loro stessi hanno pagato. Cioè – una parte della mia minuziosità (quella che tu definisci «analisi») è provocata dalla mia riconoscenza. Mi sdebito leggendo. E Bunin che definisce la mia prosa «splendida, ma follemente difficile», quando è per bambini di un anno!
Tua madre, se ti perdonerà, è la stessa madre di quella poesia medioevale – ricordi?: lui scappò di casa, il cuore della madre gli cadde dalle mani, e lui vi inciampò: «Et voici que le coeur lui dit: “T’es tu fait mal, mon petit?”».
Vivi, stai bene. Pensa meno a te stesso. Darò i tuoi saluti a Alja e Serëža, ti ricordano con grande affetto e ti augurano – come me – salute e serenità, di scrivere. Saluta da parte mia Tichonov, quando lo vedrai…
M.C.
*
La reprimenda è la goccia che fa traboccare un vaso (troppo) colmo di sentimenti. Ciò che usualmente sarebbe sporcato, inciso, offeso, guastato – tra Boris e Marina è irrimediabile: Pasternak, perseguitato, afflitto dal senso del dovere, come da quello di colpa; l’incompleto, l’oscuro che si trascina ai margini del vivere fino all’ultimo alito di vita. Cvetaeva la sognatrice, la visionaria; esigente, intransigente e focosa, cieca alle debolezze, resiliente fino al coraggio del gesto estremo.
Nell’incontro con l’altro, Boris si arrende all’inevitabile. Marina non trova invece una risposta per lei accettabile al caos che si genera nell’incontro e nello scontro con la diversità. La sua reazione alla scoperta di un tema condiviso di confronto è dapprima partecipata; poi, nell’accorgersi delle incoerenze e delle fragilità, il suo atteggiamento diviene didascalico. È in quella fase che si formano le premesse del collasso: il suo insegnamento è rigido, ferreo, fatto della stessa sostanza inossidabile della sua personalità.
La sua reprimenda non può essere fraintesa: è uno scritto di pugno: testimonianza pura e diretta, esente da rielaborazioni e finzioni. Potremmo forse titolarla «la delusione dell’altruismo».
Marina mostra un profilo umano profondamente rivolto verso il prossimo e allo stesso tempo inadeguato all’incontro con l’altro; un esempio paradigmatico di come l’altruismo rischi di pagare un contrappasso anche per il suo opposto, come spesso avviene nell’incontro – inevitabile – tra forze e debolezze, vizi e virtù.
Quello che vede – e denuncia con precisi riferimenti a gesti e azioni – in Pasternak, Rilke e Proust non è altro che una denuncia dell’egoismo. Non sappiamo se le sue parole siano del tutto meritate dai tre. Il fatto stesso che dica «per tutta la vita ho portato per mano bambini… [servigio: inutile sacrificio]», può celare anche un’autocritica; o forse, più naturalmente, un diverso destino femminile rispetto a quello maschile; o, ancora, un differente modo di trovare rimedi alla durezza del vivere.
Alla parola inutile si deve attribuire il solo significato di temporanea amarezza o quello di definitiva delusione? Ha il sapore di un disaccordo o quello di un definitivo rifiuto e respingimento?
Il senso dell’inutilità del sacrificio è ben delineato, oltre che denunciato expressis verbis e va ben oltre l’amarezza. Se è vero, come è stato detto da Pasternak stesso, che Marina «Nella vita e nell’arte si lanciava in modo impetuoso, avido e quasi rapace verso ciò che è definitivo e determinato e per raggiungerlo si spinse lontano e superò ogni altro», allora pare quasi ovvio che le emozioni passeggere e temporanee non le si addicevano.
Non è semplice dire se per Marina Cvetaeva questa eco interiore si sia fermata al livello di un’emozione controllata e temporanea o abbia propagato i suoi effetti durevolmente, fino a definirne la poetica, prima, il temperamento e le scelte, poi, il destino umano, in ultimo.
La lettera lascia intuire che il segno inciso è profondo e determinante.
I toni e i termini scelti paiono pesati con cura, a dispetto del piglio vivace e diretto. L’amarezza, quando compare, lo fa per pochi istanti e lascia presto il posto ad una cocente delusione. Le espressioni di chiusura sono un esempio di come, nella semplicità, un determinato contesto può trasformare piccole parole in macigni: «Vivi, stai bene. Pensa meno a te stesso».
Dietro la primaria funzione didattica, in quella frase Marina esprime l’esito dell’incontro tra il suo altruismo e il rigore della risposta: speranza e scoramento, offerta e perdita, illusione e delusione. Denuncia una ferita inguaribile, ma non si può non immaginarne – di riflesso – una meno profonda in Boris.
Perdendosi in questa lettera si avvertono le occorrenze a cui è stata sottoposta, le illusioni che l’hanno irradiata e sorretta, l’ampiezza del vuoto che si è generato quando una nuova creatura (l’opera d’arte) ha preso vita e si è mostrata ben più forte e solida del suo creatore. Con taglienti confronti Marina sceglie le parole (quelle evidenziate sono paradigmatiche), scolpisce il marmo di cui è fatta e di cui – per differenza – non sono fatti gli altri – nemmeno Pasternak.
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L’esperienza di questa lettura (travolgente) costringe in ultimo a tornare in sé e a chiedersi se quello di Pasternak (oltre Rilke e Proust) sia stato puro egoismo. L’atteggiamento dei tre può ben essere letto, da noi, come una reazione di sopravvivenza agli eventi; un qualcosa che qualificheremmo più come distrazione, frustrazione, nervi, piuttosto che come disinteresse per Marina.
«Sono stata me stessa (anima) soltanto nei miei quaderni e sulle strade solitarie»: potremmo travisare questa come l’affermazione di una persona timida, introversa, capace di stare a proprio agio solo a debita distanza da tutti gli altri? No: Marina mostra di avere una risposta precisa e individuale agli stimoli dell’esistenza. Il confronto si risolve in confusione se gli interlocutori non hanno un tema chiaro da proporre – lei sa individuare i temi del confronto in modo formidabile, partendo dalla sua attitudine all’analisi e all’introspezione.
La sua reprimenda pare una sintesi di paure (dell’incontro, dell’eccessiva confidenza, dell’incapacità di adeguare l’incontro personale al livello di quello artistico) che si sono infine di lei impossessate e che – in quel momento – le hanno reso impossibile la piena comprensione e accettazione della realtà. La frattura pare in quest’ottica quasi attesa e da sempre accettata come una conseguenza naturale dell’essere fatti – come umani – di due sostanze che solo per accidente si trovano a condividere uno spazio: la carnalità e la spiritualità. Troppo ampia è la divaricazione tra i due momenti del vivere, troppo immenso e incolmabile l’abisso che li divide.
In ogni osservazione si era mostrata attenta, acuta, fulminea, in grado di gettarsi sulle cose a volo d’aquila, come in un atto di predazione che non lascia scampo; infine però sconfitta, con la vita alla porta, come un esattore, a chiederle conto di ogni sottovalutazione, di ogni errore.
Boris, negli anni Trenta, si era risolto nella sua fragilità: il suo messaggio sovrumano per lei aveva subito il destino dell’uomo – Pasternak. Marina sovrappone l’uomo alla sua creazione – l’opera letteraria – attribuendo al primo la perfezione, l’immutabilità e l’immortalità della seconda.
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Ne emerge un quadro su cui vale la pena riflettere: come poteva una donna tanto resistente alle avversità non comprendere i limiti altrui?; perché invece di scontrarvisi irrimediabilmente non li accettò, mitigando la sua frustrazione? Non troveremo risposte se non calandoci nell’abisso della sua personalità, che ci parla da vicino e sgorga vitale dalla lirica. Anche quando si esprime con maggior pacatezza nel suo «stai bene, pensa meno a te stesso», le parole esplodono: ci immedesimiamo in Pasternak e ci scopriamo improvvisamente attoniti, trascinati nell’espiazione, nel vuoto dell’illusione tradita. Tutto sembra già scritto. È così che – come Ermengarda – Marina è meraviglia che trasmuta in tragedia – e l’amore, che è gaudio e violenza, sfuggendo, porta con sé morte. Dal mito greco, Eros e Tanatos risuonano potenti, come un monito, a ricordare che vi è sempre chi si fa vaso, frammentandosi in cocci – nel delirio – e chi gravemente rimane, trascinandosi a cercarli e a raccoglierli. Si uccide per amore, come per amore ci si uccide.
Marina e Boris si fanno così icone dell’amore che resta prigioniero, in sé, lontano e negato; quello di chi troppo ardentemente vive e ama.
Marina Cvetaeva, all’orecchio dell’uomo comune, parla (anche) di questi temi e lo costringe a ripensare il senso del sacrificio come naturale compensazione della grandezza. Canta di una caduta dall’alto e la sussurra come un presagio, in ogni parola. L’amore era per lei incendio che devasta corpo e spirito, fuoco che divampa nella trasfigurazione ideale e si spegne nel disincanto reale; il suo genio si risolve nel divario che segna la distanza – inevitabile – tra l’immensità della persona sognata e la fragilità di quella vera, il grande abisso – che è l’anelito degli amanti a mostrarsi vicendevolmente l’immensità del loro sentimento – cantato da Rilke nella Quinta Elegia. L’amatissimo Rilke – il poeta sopra a tutti amato da Marina e legato a lei e a Pasternak in uno dei più alti triangoli epistolari della letteratura di tutti i tempi – parla di quell’abisso sotto forma di una dolcissima domanda, pregna di tutta l’umiltà e desiderio che attraversano l’uomo – Rainer
Angelo: ma ci sarà una piazza, che noi non conosciamo
dove su tappeto indicibile, gli innamorati
che qui non arrivano mai all’adempimento,
potranno mostrare le alte, ardite figure
dello slancio del cuore, le loro torri di gioia,
le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno,
s’appoggiavano soltanto l’una all’altra, tremanti.
Come in una catabasi, la voce di Rilke invita ad accettare quell’abisso, quella frattura insanabile, ma in quel momento Marina non riesce ad udirla… il suo fuoco divampa, non conosce mezzi termini e l’incontro-non incontro con Boris, che trova nella reprimenda il suo momento cruciale, non riesce a risolversi per lei in un momento di introspezione, ma in una discesa agli inferi.
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Ciò che sappiamo essere accaduto in seguito, solleva molte (ulteriori) domande. Ciascuna di esse ci interroga sul senso universale dell’incontro tra le diversità: fin dove può giungere la disponibilità a comprendere e a incontrarsi? Quali sono gli eventi e le reazioni che segnano una frattura irreversibile tra due individui? Quali eventi imprimono maggiori cambiamenti: quelli che si scelgono direttamente, in prima persona, o quelli che si subiscono come effetto di una scelta altrui? Quanto spesso contribuiamo, senza rendercene conto, a gettare i semi della nostra disfatta, per poi finire trafitti da una spada che impugna qualcun’altro?
Lo scambio tra Marina e Boris è letteratura e intenso tempo di vita, in un solo momento; un fluido in cui scivolano, una sull’altra, tutte queste domande accompagnate dalle loro risposte – che sono parole e atti, pensieri e scelte: un’icona immortale che ci spinge insieme a loro fino al limite, fino alla crisi. Ci aggrappiamo al suo «Sono stata me stessa (anima) soltanto nei miei quaderni e sulle strade solitarie»: in quei quaderni e in quelle strade solitarie era stata con Boris… Quei quaderni erano la sua anima: tutta la sua vita (creativa) passava di lì: i versi, la prosa, le lettere: «Questo che ti scrivo è casuale, Boris, viene dal quaderno dei versi, il resto si è dileguato e cancellato» gli aveva scritto il 14 febbraio 1925. «Giacché la mia vita è un costante dialogo con te. Ti scrivo su un foglio di quello stesso quaderno, e sono le cose più mie, come su un pezzo di foglio dell’anima».
Dopo la reprimenda del ‘35, cumuli di nubi vanno componendo un cielo plumbeo, su cui la Storia, come sappiamo, andrà ad incidere pesantemente.
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Nel 1939 Marina torna in Russia ed entra in una spirale di disgrazie – ma l’ultimo incontro con Pasternak, nel gennaio del 1940, assume i contorni mistici della riconciliazione. Così ne scrive Marina a Ljudmila Veprickaja:
«Quella sera […] è trascorsa in compagnia di B[oris] P[asternak], che, lasciando a metà le ultime righe dell’Amleto, ha risposto immediatamente al mio richiamo – e abbiamo camminato sotto la neve e sulla neve – fino all’1 di notte – e mi è passato tutto – come un giorno mi passerà – tutta la vita».
Come naufraghi, ci aggrappiamo a quella frase quasi fosse una zattera di salvataggio; camminiamo con loro sotto la neve e sulla neve fino all’una di notte e lasciamo fluire tutto, lasciamo passare tutto – come un giorno ci passerà tutta la vita…
La vita, come in un triste gioco di coincidenze, passerà di lì a poco: dopo l’arresto del marito e della figlia primogenita, Ariadna, Marina porrà tragicamente fine ai suoi giorni a Elabuga, un posto sperduto nella Repubblica socialista sovietica di Tataria, dove le autorità l’avevano spedita. Qui si era offerta addirittura come lavapiatti alla mensa degli scrittori, senza ottenere nemmeno una risposta. Sfinita, consumata nel corpo e nello spirito dalla più totale indigenza, si toglierà la vita il 31 agosto 1941, una domenica mattina, lasciando tre lettere strazianti: la prima per l’amato figlio Georgij e le altre due per gli amici che erano evacuati con loro, implorandoli di aiutare suo figlio.
«Più tardi Pasternak avrebbe confessato (a Gladkov) di sentirsi responsabile del ritorno della Cvetaeva in URSS e della sua morte: si addossava una colpa che ricade solo su storia e destino».
Serena Vitale
Il silenzio che si accompagna alla scomparsa di Marina definisce l’immagine dell’uomo – Pasternak, lasciato solo ad interrogarsi su una spirale di doni – immensi e di vuoti – abissali: in Uomini e posizioni, nel 1956, dedicherà a Marina il capitolo Tre ombre, denso di pudore e nostalgica colpa – una colpa che si dissolve solo tra i versi di una lirica, Convegno, scritta nel 1949 e posta tra le poesie di Jurij Živago, in una notte di neve – quella del loro ultimo incontro:
La neve riempie le strade,
s’ammucchia sui tetti spioventi.
Uscendo a sgranchirmi le gambe,
io ti vedrò alla porta:
sola nel paltò autunnale,
senza cappello e calosce,
che lotti col tuo turbamento
e mordi la neve alle labbra.
Gli alberi con gli steccati
s’allontanano nel buio.
Sola, sotto la nevicata,
là, nell’angolo, stai tu.
Dalla treccia ti scivola l’acqua
sulle maniche, dietro il risvolto.
E tra i capelli ti luccicano
goccioline di rugiada.
E c’è una ciocca bionda
che t’illumina il viso,
il fichu e la figura
e quel tuo paltoncino.
Neve acquosa sulle tue ciglia,
angoscia dentro i tuoi occhi,
e tutto il tuo aspetto è composto
come in un unico blocco.
Quasi che con un ferro
intinto nell’antimonio
t’avessero tracciata
a tratto sul mio cuore.
E lì, per sempre s’è incisa
la dolcezza di quelle linee,
ed ecco che non m’importa
che il mondo abbia un cuore di pietra.
Ed è così che si sdoppia
tutta questa notte di neve
e io non so tracciare un segno
di confine tra te e me.
Perché, chi siamo e di dove,
noi due già morti al mondo,
quando son solo le chiacchiere
quel che resta di questi anni?
*
Tra le fronde della poesia, Boris e Marina ritornano a casa, nel loro elemento eterno, in una notte di neve, là ove nessun convegno potrà mai incidere: solo i quaderni di Marina potranno parlare – per sempre.
Riccardo Peratoner e Marilena Garis