Avrebbe condotto la vita dorata dell’aristocratica russa, se la storia non avesse virato verso la Rivoluzione d’ottobre del 1917. Figlia dell’ambasciatore del governo imperiale Alexander Iswolsky – quindi Ministro degli Affari esteri dello zar Nicola II, rappresentò l’Impero russo presso Papa Leone XIII, alla Corte Imperiale di Tokyo, a Copenaghen e Parigi – e della contessa Marguerite von Toll, nobildonna tedesca del Baltico, fra gli émigrés russi che affollarono i bureaux d’esprit del Novecento, brillò, astro centrale nella sua lateralità, Hélène Iswolsky.
Julien Green, nel 1944, fra le pagine del suo Journal, ne riporta i fragili ricordi del gennaio 1914, quando, giovane debuttante, fu presentata alla zarina in occasione di un ricevimento alla corte imperiale:
“Hélène Iswolsky mi parlò della corte russa, che aveva visitato più volte, e della sua presentazione all’imperatrice (che era ‘gelida come può esserlo un’isterica’ e sotto l’influenza di Rasputin). Prese parte a due ricevimenti a corte e raccontò che lo splendore delle cerimonie superava qualsiasi cosa si potesse immaginare, persino i migliori balletti russi!”.
Dall’intima conoscenza dei fasti della monarchia russa, germoglierà, nella primavera del 1925, il romanzo-documentario Les rois aveugles (in italiano I re ciechi, edizioni Vitagliano, 1928), che la Iswolsky pubblicò insieme a Joseph Kessel e mutò in breve in successo editoriale. Voleva “dipingere la decadenza di un impero vasto e potente nel suo momento peggiore; non accusare nessuno; smascherare il volto del destino, arbitro dei popoli” – come ricordato nell’introduzione alla sua autobiografia, Au temps de la lumière (éditions Salvator, Paris, 2021). Edito per la prima volta negli Stati Uniti – dov’era transvolata insieme alla madre nel 1941 –, sotto il titolo Light before Dusk (Longmans Green, 1942), il testo fu benevolmente accolto dalla stampa, in particolare dal gesuita John LaFarge, che lo lesse in anteprima per la rivista America, e sottolineò come il volume avrebbe capovolto il “classico discorso anti-francese tra i cattolici degli Stati Uniti, fondato sulla credenza che la Francia sia un Paese pagano completamente avariato, tranne che per un’élite particolarmente idealista, totalmente priva di senso pratico”, disinnescando così la convinzione di un ‘cattolicesimo elitario’.
Lo spirito ecumenico della Iswolsky, ‘russa bianca’, trovò quindi compimento nella rivista interconfessionale The Third Hour – titolo che prende le mosse dagli Atti degli Apostoli – dalla stessa fondata nel 1946, attorno alla quale gravitava un movimento intento a unire nel dialogo intellettuali cattolici, ortodossi e protestanti. Con la pubblicazione di scritti di Simone Weil, Edith Stein, Teilhard de Chardin, padre Daniélou, si dedicò a sanare la frattura tra la Chiesa orientale e quella occidentale. Di tradizione ortodossa, il 14 settembre 1923, nella cornice d’un monastero benedettino, s’era convertita al Cattolicesimo e una volta entrata in contatto con Dorothy Day, divenuta ormai cittadina americana, aderì al movimento sociale Catholic Worker; poco prima della morte – abdicò alla vita durante la Vigilia di Natale del 1975, a Cold Spring –, divenne oblata, prendendo il nome di suor Olga. Fra le sue opere più apprezzate, nel 1960, aveva dato alle stampe Christ in Russia (Milwaukee, Bruce Press, 1960). In opposizione alla dottrina comunista, ritrasse la Russia come una società profondamente religiosa e umanitaria oppressa dal regime totalitario sovietico.
Traduttrice per vocazione, prima a Parigi – dove s’era stabilita nel 1914 – poi negli Stati Uniti, espropriata delle ricchezze di famiglia, guadagnò da vivere lavorando per numerose riviste letterarie – fra cui Esprit di Emmanuel Mounier –, ritrovandosi immersa nel fervente ambiente della Nouvelle Revue Française.
Appassionata delle opere di Charles Péguy, fu traduttrice di Puškin, Pasternak, Ivanov, Berdjaev, lavorò all’opera di M. Bachtin dedicata a Rabelais (Rabelais and his world, 1965), fu biografa di Bakunin e cara amica di Marina Cvetaeva, per la quale nel 1933 organizzò a Parigi un comitato d’aiuto.
“Sono Marina Cvetaeva e ho un messaggio per te da Boris Pasternak” – esordisce la poetessa, durante il loro primo incontro, in occasione di una cena letteraria a Meudon. Il poeta aveva letto e apprezzato la traduzione in francese della Iswolsky del suo poema sulla Rivoluzione russa del 1905. Marina, fraternamente, se ne fece portavoce.
Al contempo, Hélène Iswolsky s’era fatta ambasciatrice dei “post-rivoluzionari”, gruppo di giovani russi discepoli di Berdjaev che ripudiava la “mentalità émigré” e considerava la Rivoluzione come qualcosa di fatto e acquisito, sperando di far nascere dal comunismo un nuovo ordine cristiano. La loro posizione nei confronti della Russia sovietica era simile a quella di Esprit nei confronti dell’Europa borghese, così Emmanuel Mounier l’invitò a collaborare alla propria rivista. Firmarono inizialmente i propri articoli con il nome collettivo “les Quatres”, infine, dopo il progressivo abbandono degli altri tre – fra cui George Schirinsky-Schikhmatoff, diretto discendente del primogenito di Gengis Khan – la Iswolsky, unica firma residua, rivelò l’identità della propria penna.
Fu sempre Mounier, nel 1936 a tessere le lodi di un breve saggio pubblicato da Hélène lo stesso anno, L’Homme 1936 en Russie Sovietique (Desclee De Brouwer, Paris), nel numero di Esprit del 1 maggio 1936, sottolineandone la linea ideologica:
“Hélène Iswolsky appartiene al movimento russo che si definisce giustamente ‘post-rivoluzionario’. Esso ritiene che la Rivoluzione russa sia stata compiuta, nel 1917, dalla vera Russia, e che sia stata semplicemente deviata nella sua fonte ideologica (marxista) e nella sua evoluzione politica. La stessa lucida e generosa comprensione ispira il suo ultimo volume, che fa il punto sulle trasformazioni del regime negli ultimi tre anni. Un piccolo manuale perfetto e vivace sull’argomento, che dovrebbe essere per tutti lettura imprescindibile…”.
Fabrizia Sabbatini
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Il testo, dopo poco tradotto in inglese come Soviet man – Now (Sheed&Ward, London, 1936), parte così:
Al “Congresso Internazionale in Difesa della Cultura” André Gide ha riportato le seguenti osservazioni:
«Ho visto alcune ammirevoli opere prodotte di recente dal Governo Sovietico, ma finora nessuna in cui l’uomo nuovo che sta elaborando e che con impazienza attendiamo, abbia preso forma. Ci parla ancora di lotta, di formazione, di obiettivi… Che opinione potremmo avere di un trattato – sul radio, per dire – se si limita a descrivere il processo con cui si ottiene? Naturalmente la prima cosa da fare è “conquistarlo”, ma ciò che più mi interessa, che per me è essenziale conoscere più di ogni altra cosa, sono le proprietà, le qualità e l’efficacia di questo nuovo metallo radioattivo».
Tali parole, che suonano come una sfida, meritano particolare attenzione. Sembrano trascendere di gran lunga il problema letterario al quale l’autore de I nutrimenti terrestri intendeva limitarsi.
Da qualche tempo il “nuovo uomo Sovietico” è sempre più oggetto di discussione generale e se Gide se ne interessa è perché risulta essenziale sapere cosa quest’uomo rappresenti e quali siano i nuovi valori che ha da offrirci. L’umanesimo sovietico, che ha di recente visto la luce, si fa garante di tali valori; mira a creare una sorta di nuova spiritualità, una spiritualità che assomiglia al “metallo radioattivo” di cui parla Gide. L’umanesimo sovietico nasce dalla materia e, secondo la dottrina marxista, l’“uomo nuovo” è il prodotto di contingenze economiche e sociali, non di un’ideologia.
L’“evoluzione” del regime Sovietico è un’espressione di uso comune. C’è chi ritiene che agisca come un balsamo sulla propria inquietudine intellettuale, morale o politica. Altri la deplorano come fosse una deminutio del dinamismo rivoluzionario, una graduale degenerazione nel borghesismo. Perché sconvolgere e demolire questo grande Paese e sacrificare milioni di vite umane se il risultato non sarà altro che una ricostruzione di ciò che è stato?
Una terza parte adotta un atteggiamento piuttosto cinico, ipotizzando che le successive concessioni elargite dal potere siano solo un’abile messa in scena, una temporanea ritirata, con l’obiettivo di dare al Paese un po’ di respiro in attesa di una nuova offensiva da parte del marxismo militante.
È già successo una volta, all’indomani della N.E.P. (Nuova Politica Economica, 1921-1929), quando, a seguito di una pausa dal Comunismo militante, Stalin impose un collettivismo forzato e la realizzazione del Piano quinquennale “in quattro anni”, durante i quali tutte le forze del Paese dovevano essere impiegate.
Il mondo intero è libero di scegliere l’una o l’altra ipotesi e di prevedere questo o quel risultato per l’evoluzione in corso. Ciò che è certo è che questa evoluzione esista e sia stata determinata da fattori estremamente importanti, che si cercherà qui di analizzare al meglio, perché questa stessa metamorfosi ci permetterà forse di comprendere meglio il carattere dell’“uomo nuovo” che ha preso vita nell’URSS.
È cosa superflua specificare che in un breve studio come questo sarebbe inutile tentare di trattare in maniera esaustiva un tema così complesso. All’attuale situazione dell’URSS è già stato dedicato un largo numero di scritti e di articoli di giornali e riviste. Ma anche la più rigorosa esposizione dei fatti, l’analisi più coscienziosa e imparziale dell’amministrazione economica del Soviet, non può darci un’idea completa di ciò che sta accadendo in Russia. Persino Gide, che è in stretto contatto con le fonti comuniste, confina i suoi interventi a domande e approssimazioni, e gli scrittori che adottano un atteggiamento decisamente critico nei confronti dell’esperimento sovietico ci forniscono una serie di ritratti pessimistici che, pur non risultando esagerati (perché la realtà, in tutta coscienza, è già piuttosto cupa), non riescono a spiegare la natura della rivoluzione russa e i suoi recenti sviluppi più di quanto non facciano i quadri ottimistici dipinti dagli amici dell’URSS.
Gli scrittori che adottano un atteggiamento favorevole o sfavorevole nei confronti del Paese sono parimenti in difetto. Confondono il comunismo marxista con le manifestazioni infinitamente più profonde e organiche della coscienza nazionale; rivolgono le loro lodi o i loro rimproveri indifferentemente all’uno o all’altro di questi fenomeni, spesso contraddittori e quasi sempre distinti. Si ritiene quindi che l’unico modo per evitare tale confusione sia prevedere, o almeno tentare di anticipare, un vasto scenario storiosofico che includa in modo ampio le aspirazioni nazionali, sociali e religiose del popolo russo.
Vedremo allora che è possibile distinguere i fenomeni fortuiti provocati dai dittatori marxisti dai grandi sviluppi che consideriamo organici perché radicati nell’anima del popolo. Può darsi che all’abbrivio della Rivoluzione tali sviluppi coincidessero profondamente con l’effetto periferico del marxismo militante, considerato come uno strumento di distruzione, un emblema di punizione. Ma da diversi anni questa azione rivoluzionaria è stata sostituita da forze che possiamo definire post-rivoluzionarie, destinate a superare il marxismo. Le stesse possono essere descritte come nazionalizzazione e spiritualizzazione della Rivoluzione, ed è a tale inoppugnabile forza che i dirigenti comunisti sono stati costretti a cedere, come si prova a dimostrare nel corso di questo saggio.
Che il governo sovietico stia effettivamente tendendo verso il borghesismo e assumendo sfumature reazionarie, o che stia semplicemente cercando un po’ di respiro, conta poco. Il nostro interesse si concentra sulla forza segreta ma straordinariamente attiva che ha sventato il piano marxista originario. Si dice comunemente che la verità avrà la sua vendetta; qui preferiamo dire che la verità sta costantemente sanando e ricreando l’universo.
Una delle realtà più profonde della vita russa è la ricerca appassionata della verità sociale e la convinzione che tale verità esista, anche se non è ancora stata pienamente scoperta e materializzata. Si tratta di un criterio trascendente e tutte le misure comuniste che hanno cercato di farle violenza sono andate a rotoli. È cosa notevole che Stalin, con il suo formidabile apparato di coercizione e propaganda, non sia riuscito a modificare il vero volto del Paese.
La Russia ha il suo destino e, sebbene abbia assistito al naufragio del mondo pre-rivoluzionario, non è stato per costruire la Città Comunista, ma la propria città, sotto l’egida di un Cristianesimo rigenerato.
Hélène Iswolsky
*La cura del testo e la traduzione sono di Fabrizia Sabbatini