03 Ottobre 2018

Dal “non incontro” a Parigi alla passeggiata sotto la neve dove “mi è passato tutto”: il rapporto tra Marina Cvetaeva e Boris Pasternak

Gli scrittori si mobilitarono. Era il 1935, Parigi: tra il 21 e il 25 giugno accadde il ‘Congrès International des Écrivains’, una specie di Woodstock antifascista. Il sottotitolo eclatante – pour la défense de la culture, per la difesa della cultura – dava al congresso un colore spiccatamente politico. Rosso. All’epoca, a Parigi, si credeva nelle sorti progressive del comunismo sovietico. Sul ‘Congrès’, che radunò 230 delegati da 38 paesi, tra cui diversi scrittori imperiali come André Malraux e Robert Musil, Louis Aragon e Bertolt Brecht, André Gide, Isaak Babel’, Aldous Huxley, è uscita una raccolta di saggi nel 2002, da Carocci, Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, curato da Sandra Teroni. Proprio la Teroni, nel suo saggio, osserva che “fu l’antifascismo che svolse la funzione di motore essenziale e di collante capace di conferire a scrittori di provenienze e tendenze disparate una qualche coesione nell’azione; e con l’antifascismo – per la maggior parte almeno – l’esigenza di confrontarsi con la politica, con le strategie del movimento operaio organizzato, con la cultura marxista, con il ruolo che l’Unione Sovietica avrebbe potuto svolgere”. Per paradosso, quando gli scrittori volgevano il loro cuore verso l’Unione Sovietica, Stalin stava inaugurando l’era delle ‘grandi purghe’.

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Boris Pasternak a Parigi non voleva andare. Nel 1934 era stato arrestato Osip Mandel’stam, Pasternak aveva cercato di ottenere la sua scarcerazione. Esattamente un anno prima del congresso parigino, nel giugno del 1934, Stalin pretende Pasternak al telefono. Gli chiede di Mandel’stam. Pasternak risponde in modo evasivo. Dice che deve parlare a Stalin. “Di che cosa?”, fa l’imperatore comunista. “Della vita e della morte”, risponde il poeta. Dall’altra parte, l’omicida attacca il ricevitore. “Non sacrificate la faccia per la posizione… troppo grande è il pericolo di diventare dei dignitari socialisti”, aveva detto Pasternak il 29 agosto 1934 al ‘Congresso degli scrittori’ sovietici. In quel 1935, Pasternak “soffre di una grave forma di insonnia”, in concomitanza con l’“inizio di una lunga serie di arresti”, a Leningrado. Eppure, Pasternak non può mancare all’incontro parigino. “In giugno, depresso e stremato dall’insonnia, per ordine di Stalin è inviato a Parigi a partecipare al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, dove la sua assenza sarebbe stata attribuita a ragioni politiche” (Vittorio Strada, in Boris Pasternak. Opere narrative, Mondadori, 1994).

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A Parigi Boris Pasternak parla il 25 giugno del 1935. Il suo intervento è scarno, dura pochissimo. Eppure, fa in tempo a dare la più alta definizione di cosa sia la poesia. “La poesia rimarrà sempre eguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata: essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo, essere dotato del dono sublime del linguaggio razionale, di maniera che, quanto più ci sarà di felicità a questo mondo, tanto più sarà facile essere artisti”. La ‘facilità’ dell’arte commisurata alla ‘felicità’; la vertigine della poesia che si trova chinandosi, tra l’erba: che parole rivoluzionarie in un tempo oscuro.

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Soprattutto, finalmente, dopo un carteggio che dura da un decennio, Pasternak incontra Marina Cvetaeva. “Di pari a me nella forza ho incontrato solo Rilke e Pasternak. Uno – per lettera, sei mesi prima della sua morta, l’altro – senza mai vederlo”, scrive Marina, qualche mese prima dell’incontro, l’8 marzo 1935, a Jurij Pavlovic Ivask. L’incontro, in realtà, sarà desolante, come mungere un deserto. “Quando si videro, durante le pause dei lavori del Congresso (andarono con Chodasevic al Bois de Boulogne, a Versailles, a Fointainebleau…), l’uomo che Marina avrebbe voluto con sé nell’ora della morte, il destinatario, da tredici anni, di lettere, pensieri, poesie, amore, si rivelò distante, quasi distratto, cupo e taciturno: era paralizzato da nevrosi, umiliato da quel viaggio coatto, intimorito dalle molte vigili orecchie che aveva intorno a sé nella delegazione sovietica” (Serena Vitale).

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“Dell’incontro con Pasternak (c’è stato – e che non-incontro!)”, scrive Marina, il 2 luglio 1935, ad Anna Antonovna Teskova; e quattro giorno dopo, a Nikolaj Tichonov, “Boris mi ha lasciato una sensazione confusa e inquieta. È un uomo per me difficile: tutto quanto per me è un diritto, per lui è il suo vizio, la sua malattia… io piangevo perché Boris, il miglior poeta lirico del nostro tempo, tradiva sotto i miei occhi la Lirica, definendo tutto se stesso – e tutto in se stesso – malattia”.

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Boris Pasternak è un uomo che attraversa la Storia camminando sulla neve. Così scrive di quei giorni di giugno, parigini: “Nell’estate del 1935, con il morale a pezzi e alle soglie di una malattia psichica per un’insonnia che durava da quasi un anno, capitai a Parigi al convegno antifascista. Lì conobbi il figlio, la figlia e il marito della Cvetaeva, e provai amore fraterno per quest’uomo incantevole, fine, dal carattere fermo. La famiglia della Cvetaeva insisteva perché lei tornasse in Russia… La Cvetaeva mi chiese più volte cosa ne pensassi. Non avevo, al proposito, un’idea precisa. Non sapevo cosa consigliarle, e avevo troppa paura che la vita, qui da noi, sarebbe stata difficile e agitata per lei e la sua straordinaria famiglia. La tragedia di tutta la famiglia superò i miei timori”. Pasternak non è un uomo dell’azione ma del sogno: non è riuscito a trattenere con sé nessuno dei suoi amici, perché per scoprirsi, alcuni uomini, devono perdere ogni cosa. Era preda di sé, Pasternak.

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Tornata in Russia nel 1939, Marina Cvetaeva entra quasi subito nella spirale della disgrazia. Il marito Sergej Efron, già soldato ‘bianco’, viene arrestato il 10 ottobre del 1939 e fucilato. “Pasternak – unico tra gli scrittori del tempo, spaventati dalle conseguenze dei contatti con un’ex ‘emigrata’, madre e moglie di prigionieri politici – la aiuta e le procura, tra l’altro, i lavori di traduzione che le servono a sopravvivere” (Serena Vitale). “Mi serviva molto poco per essere felice… tutto è cuore e destino”, scrive Marina, il 31 agosto 1940 a Vera Merkur’eva. Un anno dopo, si impicca. L’incontro mistico con Pasternak accade nel gennaio del 1940, ne scrive a Ljudmila Veprickaja: “Quella sera è trascorsa in compagnia di Boris Pasternak, che, lasciando a metà le ultime righe dell’Amleto, ha risposto immediatamente al mio richiamo – e abbiamo camminato sotto la neve e sulla neve – fino all’una di notte – e mi è passato tutto – come un giorno passerà – tutta la vita”.

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Boris Pasternak non sa portare responsabilità, può solo occuparsi di colpe. Sta sul lato della storia, a raccogliere le fragole matte sui binari: per questo ne è il centro.

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Due poeti che passeggiano sulla neve – più fragili della neve – come se la Storia fosse sfracellata e non restasse che un fiotto di stelle gelide – ecco l’emblema più fragrante della poesia. (d.b.)

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