Una vita, quella del Nostro, che già ai primordi della sua esistenza sarà segnata dalla genialità di beniana memoria – quella di colui che solo può, e non possiede volontà: non la discendenza da una famiglia di intellettuali (il padre fu professore di diritto a Varsavia, il nonno materno rettore dell’università di San Pietroburgo), quanto invece l’intreccio parentale, filosofico e spirituale con figure che, in modo più o meno diretto, lo porteranno a parlare al di là della parola e a vedere al di là delle cose.
La scoperta del pensiero e del sentimento dello zio, filosofo, teologo e poeta Vladimir Sergeevič Solov’ëv, insieme alla lirica di scrittori come Fëdor Tjutčev, Afanasij Fet e dei simbolisti contribuirono in modo incisivo allo sviluppo della sua sensibilità (oltre)umana e, dunque, artistica; e come un domino, lo stesso Blok divenne uno dei capisaldi della poesia russa di fine Ottocento e inizio Novecento, quel lasso di tempo che gli storici della letteratura chiamano “l’epoca d’argento”, che altri chiamano “l’epoca di Blok”.
Dopo lo scoppio della guerra civile in Russia, Blok inizialmente patteggia per i Rossi e la rivoluzione, vedendo in essi una sorta di avveramento di quella visione apocalittica e tragica dell’esistenza che lo tormenta e lo smuove sin dall’incontro etereo con Solov’ëv.
Ciò gli costò tanto l’allontanamento da quella cerchia di discepoli che si andò a creare intorno a lui (si ricordi, per fare degli esempi, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak…) e tanto il sospetto, al limite del disprezzo, degli stessi bolscevichi, i quali non apprezzavano ciò che consideravano come mistico della sua produzione.
Oltre al danno anche la (presunta) beffa: Alexandr morì all’età di quarant’anni, si dice per via della carestia che inginocchiò la vasta e profonda Russia negli anni Venti… si dice anche che fu una mancanza di libertà del proprio essere a porre fine alla sua beata dannazione in terra.
Ma facciamo un passo indietro, torniamo alla prima rivoluzione, sia quella che sconvolse la Russia e sia quella che sconvolse Blok stesso, due rivoluzioni che, seppur distaccate fra di loro, furono sempre legate a quella Madre funesta il cui amore è così tanto agognato: la Madre Russia, dall’animo grigio, disperato, e proprio per questo nichilista e divino.
Così pure i tempi che vissero quella Madre e Blok furono profondamente segnati da questa naturale inquietudine che cerca sempre di sfiorare il sacro e il profano: la prima si rifugiò nel ribollire degli animi rivoluzionari, il secondo in una terra lontana – e che avrebbe generato il senso della lontananza. Da questo viaggio per le vecchie città e arie dell’Italia del centro-nord, Blok ricavò molteplici impressioni che, scritte con furia, andarono via via a formare la raccolta che qui si commenta, il cui titolo è già da sé un richiamo all’interiorità del Poeta: Nel Cielo Nero d’Italia. Questo però è come noi italiani abbiamo intitolato l’opera, la cui prima edizione (nel nostro paese) è uscita sette anni fa grazie al lavoro di Marilena Rea e della casa editrice Passigli; in origine il manoscritto fu portato a termine nel 1909, anno in cui Blok viaggiò nella Penisola, intitolandosi Poesie Italiane.
Città invecchiate e ormai spente, la cui vita è sepolta nel tempo, nei ricordi, nelle figure che abitano ancora quei luoghi e nei resti di un antico passato e spirito vitale che non accenna a tornare in superficie. Un mondo che avanza senza mai andare avanti, che si alza ogni mattina senza mai notare il sole, i suoi raggi, la sua luce, il suo calore: la civiltà (o meglio, la Zivilisation) progredisce con nuove macchine, scoperte, tecniche e risultati in tutti i campi delle scienze e della tecnica – eppure è sonnolente, pesante, pallida, miope…
“Il tempo scorre: anno dopo anno, giorno dopo giorno, ora dopo ora si fa sempre più chiaro che la civilizzazione crollerà sulle teste dei suoi stessi artefici, li schiaccerà; però lei non li ha ancora schiacciati e la follia prosegue. Tutto è prevedibile, tutto è scontato, la morte è ovvia, e tuttavia la morte non arriva; tutto va in una sola direzione e tuttavia non accade niente; tutto è pronto per accadere e non accade niente.”
Duplice è la sofferenza del poeta: quella di un mondo umano, troppo umano, che continua a perdersi sempre di più nel labirinto che si sta costruendo (le sue fabbriche, le sue trincee, le sue strade, le sue metropoli sono tutti muri della medesima trappola…), negli idoli e nella noia che risucchia tutta la volontà di bellezza, che l’umanità stessa ignora; le icone dei santi, delle Madonne e del Cristo; i profili delle giovani fanciulle, dei bimbi, delle chiese, delle piante e delle acque non suscitano più alcuna gioia e malinconia negli occhi e nelle anime degli uomini. E dopo il male della civilizzazione torbida, c’è la naturale sofferenza che accompagna i passi, gli sguardi e le parole di coloro i quali considerano l’ancestrale bellezza del cielo (diurno e notturno che sia) ancora una mèta-e-viaggio di un’esistenza votata alla ricerca.
È il mondo degli uomini che vivono ancora a stretto contatto con la terra, che innalzando gli occhi verso l’alto scorgono ancora una potenza e una profondità di oscurità, mistero e speranzosa gioia che nelle grigie città vengono appannate o persino cacciate dai fumi industriali prima e dalle miriadi di luci e distrazioni oggi.
In questo caso il consumo totale e il consumismo (con tutti gli effetti che ne conseguono sulla cultura, sulla società e sulla vita stessa) non solo sono divenute abitudini del modo di vivere collettivo (e il più delle volte anche individuale) dell’Europa e dell’occidente, ma da abitudini sono stati innalzati a miti fondativi e vitalizzanti di queste due civilizzazioni, che del loro incondizionato amore per le comodità materiali e spirituali e per la “libertà” con cui poterne usufruire hanno fatto il loro odio, la loro repulsione e indifferenza per il tempo-che-viene-perso, per il silenzio e la gaia solitudine, per ciò che richiede un amore sofferente e comprensivo, per tutte quelle vere speranze riposte nel mondo interiore in cui vagare e trovare la luce ed esteriore su cui ricevere la propria benedizione di malinconico eccitato da parte della Trinità Terra-Cielo-Vita.
Tutto questo vivere, seppur semplice, brucia i tendini le forze e le dita con cui si accarezzano delicatamente tutte le sfumature che ci circondando in questa terra così differente (e vicina):
“L’arte è un fardello sulle spalle,
Però noi poeti sappiamo amare
La vita nelle fugaci piccolezze!
E dolcemente darci alla pigrizia,
E sentire come scorre nelle vene
L’armonia del sangue,
E l’amore, potenza incendiaria
Catturare nella nuvola che passa,
E figurarsi la vita che spumeggia
In un tutto il suo brio di champagne,
In un dolce ronzio carezzevole
Di un elettrico cinéma.
E dopo un anno – in terra straniera:
Stanchezza, una città sconosciuta,
Folla, e di nuovo su uno schermo
I tratti di una graziosa francese…”
E proprio perché tutto ciò brucia e bruci, è necessario anche che alle culle marcite della giocosità umana si inveisca contro, si allontanino da noi – e le si guardi e parli con innocenza, innocenza da fanciulli e saggi che, odorando nuovamente i pungenti odori dell’infanzia, ne traggano non già un puzzo, ma un abbraccio immacolato di una lontananza così incosciente, senza reali colpe, che porta con sé, in un eterno grembo, il ricordo del bianco animo di cui si cingono la testa e il torso i poeti:
“Muori, Giuda di una Firenze,
Sparisci nell’oscurità dei secoli!
Ti scorderò nell’ora dell’amore,
Non mi avrai nell’ora della morte!
O Bella, ridi pure di te stessa
Perché di bello non ti resta niente!
Una putrida ruga sepolcrale
Deforma i tuoi lineamenti!
Stridono le tue automobili,
Mostruose – le tue case,
Alla gialla polveriera d’Europa
Ti concedi con le tue mani!
Tagliano la polvere i velocipedi
Dove ardeva il santo monaco,
Dove Leonardo scrutava il buio,
E il Beato tesseva celesti sogni!
Tu i Medici sfarzosi disturbi,
Tu calpesti i gigli tuoi,
E te stessa non sai resuscitare
Nella calca polverosa del mercato!
Cantilena di una messa nasale,
Odore putrido di rose nelle chiese –
Carico di angoscia stratificata –
Sparisci nei secoli riparatori!”
……………………………………………
“Firenze, che dolce giglio tu sei;
Per chi ho languito solitario
Di un amore lungo, disperato,
Nella polvere delle tue Cascine?
Oh, dolce è ricordare il tormento,
Sognare e vivere alla tua ombra;
Sparire nell’antica afa, nella dolcezza
Dell’anima mia che invecchia…
Ma è nostro destino separarci,
E in quelle terre lontane
I tuoi gigli sognerò fumanti
Come la mia prima giovinezza.”
…Ma l’amaro che quel tempo possente e dolente non si può placare con il solo ricordo del pargolo:
“In un vicoletto vuoto
Si affligge l’anima tua.”
Qui a Firenze, così come a Ravenna, Spoleto, Venezia, Perugia, Settignano, Siena e Foligno dei leitmotiv vivono e, inversamente, vivono-nei-leitmotiv nobili morti e giovani ragazze (entrambi con pelli lisce, morbide e bianche), rovine ancora in piedi e la natura che ancora appare come la messaggera e il rifugio della Femminea-Icona col bambinello e dalla volgarità della stanchezza e del fracasso.
Una natura che non è solo piante, venti e acque, ma il loro fruscio, sibilo e croscio che passano nei corpi sinceri, negli edifici senza luci e intorno al mistero di tutto questo (di)vagare nell’insensatezza di vie affollate, catacombe fredde e impestate e parole strascicate – dalla quale solo una luce lunare e santa può farci ritrarre lo sguardo, per donarsi poi ad essa attirati dal richiamo di suoi amanti, figli e protettori (senza sacerdozio…).
In Italia si ritrova la Russia, insomma – una terra senza fiato, annebbiata, afosa, ma da qualche parte si vive ancora nel silenzio dell’onestà e nell’altrettanto onesta vivacità di una superficie che gratta il cielo e si abbevera dai pozzi; eppure non si disseta e non si abbronza mai…
“Le luminarie si spengono, la banda tace, le ragazze rientrano in casa. È di una melanconia terribile rimanere da solo qui di fronte alla lupa, nonostante non sia così tardi. Passa cantando un gruppetto di ragazzi leggermente ubriachi. Alla finestra balena un’ombra, poi la luce si spegne. L’osteria “Tre Donzelle” ammicca da un ripido vicoletto con la sua lanterna solitaria.”
Alla fine, i contrasti distruggono ogni nettezza – è l’orgoglio celato di ogni poeta – e nascono così estremi che sfumano nella fugacità del vino, dell’adorazione, della contemplazione e dell’assenza di quotidianità. Note così celate che si smorzano nella sonnolenza e nel chiacchiericcio; corpi che non dormono pur vivendo e sognando una vita che non si ripete solamente, che non si appaga mai veramente – si trova hic et nunc nel mistero della Vergine e del buio.
“Gli occhi sono circondati da occhiaie scure; una (quella di sinistra, come di consueto) è meno marcata dell’altra: tipica caratteristica fisiologica di tutte le nature strane, che deriva da una tensione costante, da un’arsura inappagabile di trovare e vedere ciò che non esiste a questo mondo.”
Jean Surlemont