
“Maledetti i poeti che se ne vanno prima del tempo…”
Libri
Giorgio Anelli
Se dobbiamo dire la verità, ma proprio tutta: piuttosto che da una cella, il poeta non fa nient’altro che scrivere dal vuoto inconsistente del mondo. Abbandonato a se stesso, lancia messaggi in bottiglia nel mare magno che lo circonda con solerte indifferenza; e, per contrappasso, scrive messaggi propensi all’avvenire semmai che all’avveduto.
Il suo deserto si riduce a una stanza, bugigattolo o stambugio di aforismi. Non teme nulla e nessuno. Poiché il mondo non lo guarda, mentre lui può solo dare tutto se stesso, fino all’ultimo tremolio di fiamma; fino all’ultimo eco di tamburo del cuore.
Chi è dunque, in fin dei conti, questo signore? Altrimenti detto, cos’avranno da dirci queste signore perennemente ostinate alla passione per la parola? Colui o colei bruciano e s’infiammano, abitando secoli dispari, distanziati dal presente; nel quale però ci si ritrovano (volontariamente o involontariamente) a fare i conti.
E poi, un pensiero anche loro l’avranno pur fatto, su come si deve stare al mondo, o, piuttosto, su come ci si può allontanare, forse, in maniera definitiva, dal mondo presente. Il suicidio non è matematico che avvenga, come il successo, del resto, è la più vana delle chimere che attanagliano dall’inizio alla fine i loro respiri.
Dunque, il poeta non può essere che un misconosciuto. Di per ciò stesso, egli non potrà fare a meno di vivere il destino che incombe e gli appartiene, come quella mano sul foglio, che scrive e scrive, stringendo una penna come fosse la vita, come fosse un liquore da buttar giù tutto d’un fiato.
Così scrivere (così è sempre stato!) equivale a morire. Ciò nonostante, si è disposti a rinunciare a tutto pur di scrivere almeno una lettera a qualche sconosciuto.
Si vive allora nella morte. Scrivendo per nessuno. Leggendo accanto ai capolavori di chi non c’è più, ma ha condiviso pienamente e senza sconti la stessa sorte. Per questo, ben vengano quelle case editrici (piccole, medie o grandi) che vorranno puntare sul talento effettivo e non effimero del pagano aedo. Sarà l’unica sintonia possibile. Sarà l’unico motore che darà fiato ai polmoni di un uomo scoraggiato a cantare.
Nulla è dato per scontato ma, d’altro canto, la vita stessa ci ha mai regalato qualcosa in più dell’ordinario? Le possibilità di riuscita sono esigue, eppure ogni volta qualcosa preme affinché si tenti il tutto per tutto nel proseguire l’opera. Che nome buffo, in fondo, porta con sé quest’opera. Che nome d’azione!
Forse saremo famosi una volta morti… Quindi, misconosciuti due volte.
Ebbene. Tutto questo non ci deve importare. Scribacchini da quattro soldi, umili e fieri, lucidi incostanti e incoerenti, abbandonati nell’oblio; tuttavia dobbiamo tendere alla pienezza della nostra incompiutezza che sconfina fieramente nel vano inopportuno soliloquio. Imbrattare carta per chi non conosceremo affatto: è questo il punto! Sarà già tanto avere la fortuna di uno o due lettori nel quotidiano divenire dei nostri carteggi.
Ma se tu, editore, sarai serio fino in fondo al tuo mestiere, dai (come già stai facendo) una possibilità a qualcuno, affinché per davvero possa realizzare tutto se stesso e fino in fondo nel compimento dell’opera.
Scrivere non è un sotterfugio, ed editare sappiamo che non è per nulla uno scherzo. Ebbene, se questi due fatti collimano, tentare, ad ogni modo, non può nuocere. Tentare, tirando le fila del discorso, sarà, da entrambe le parti, l’atto più sovversivo del mondo, che il mondo stesso non si aspetta, se non in parte. Dal momento che il mondo accetta tutto, tranne forse la verità. E la poesia, dopotutto, non fa altro che esserne alla perenne ricerca.
Giorgio Anelli