16 Luglio 2022

“Nulla di ciò che ho scritto esiste”. Boris Pasternak, Amleto e il figlio di Marina Cvetaeva

Seconda nascita, in realtà, inaugura la vita sonnambula di Boris Pasternak, quella dell’autodafé, delle nebbie interiori. Pubblicata nell’agosto del 1932, al vaglio della censura sovietica, che per mesi ne impedisce la stampa – “L’immagine insopportabile della persecuzione di Pasternak mi tormenta tutto il giorno… È mostruoso… lo spettacolo di un uomo calpestato”, scrive Sergei Pavlovič Bobrov nell’aprile del ’32 – è la raccolta definitiva di Pasternak, quella che chiude la porta, della clausura.

“Anche se tardi, ho messo giudizio. Nulla di ciò che ho scritto esiste. Quel mondo è cessato, e a questo nuovo non ho nulla da mostrare. Sarebbe brutto se non lo capissi”.

Così scrive, due anni dopo, Pasternak, con la perentorietà profetica e ingenua dei poeti, di chi corre con la benda sugli occhi, pronto a declamare per sconfessarsi. In quello stesso 1934 l’opificio degli scrittori sovietici – colpo di coda, schizofrenia consueta, opportunistica – per voce di Nikolaj Bucharin, dichiarava Pasternak “uno dei più insigni poeti del nostro tempo”. D’altronde, senza farsi impaniare dalla fama, in pubblico, Pasternak preferì reagire: “Non sacrificate la faccia per la posizione”, disse, il 29 agosto, al Congresso degli scrittori, “Dato l’immenso calore con cui ci circondano il popolo e lo Stato, troppo grande è il pericolo di diventare dei dignitari socialisti”.

Tre mesi prima aveva avuto luogo la fatidica telefonata di Stalin sul “caso Mandel’štam”: la risposta di Pasternak era stata pretenziosamente nobile, assoluta, assurda (“Pasternak gli disse che avrebbe voluto incontrarlo e parlargli. ‘Di cosa?’. ‘Della vita e della morte’. Stalin abbassò il ricevitore”, così le memorie di Nadežda Mandel’štam).

Seconda nascita – ora edita da Passigli, nell’ambito del lodevole progetto di tradurre le singole raccolte di Pasternak, a cura di Caterina Graziadei, che ammette (non è scontato) il debito con le miracolose versioni di Angelo Maria Ripellino, che “suonano per me a tutt’oggi come l’originale” – in verità è un libro intriso di morte, che ha lo scalpitio delle cose irripetibili. Certo, Seconda nascita sigilla il nuovo amore del poeta, che nel 1930, a Irpen’, in campagna, vicino a Kiev, si innamora di Zinaida, la moglie del pianista Heinrich Neuhaus. Entrambi si separeranno dai rispettivi coniugi, sposandosi. Così, Seconda nascita raduna anche alcune poesie d’amore, come sempre, in Pasternak, fresche, vive, intrise di cristallina speranza, di spazientita gioia (“Sei bella! Tutta la tua essenza,/ la tua figura tutta, mia bella,/ serra il petto, esorta al cammino/ esorta al canto e intanto è piacere”).

Eppure, prima di tutto, questa è la raccolta che racconta la Morte di un poeta, Vladimir Majakovskij, che si era sparato al cuore nel 1930. Di quella poesia, fatidica, qui si accoglie la lezione originaria, con i versi cancellati dal pio redattore sovietico:

“Si appuntavano in dispute, gli amici,
scordando quanto fossero vicini, Vita e Io…

Ma alla canaglia solo questo importa.
Accumulare ancora un mucchio
di argomenti purché non trabocchi
il fiotto del grosso caso, di certo
troppo veloce per gli storpi.

Così monta in ricotta la trivialità,
la grigia panna dell’esistenza”.

È la raccolta de Le onde, questa, il poema più vasto, lirico e ambizioso di Pasternak – e reso teatralmente leggenda da Carmelo Bene –, che sancisce la poesia come conversione suprema, sublime mutamento:

 “Nell’esperienza di grandi poeti
ci sono tratti di naturalezza
che non potrai, dopo averli provati,
non ammutolire, infine, del tutto.

Connaturati a tutto il vivente, persuasi
di un futuro già prossimo nel quotidiano,
finiremo per cadere, come in un’eresia,
in una semplicità inaudita”.

Seconda nascita, in verità, profetizza la catabasi nell’era silente, della latitanza creativa – il distico con cui si chiude la raccolta ha nitore tombale: “eccomi qui felice di annullarmi/ nel volere della rivoluzione”. Nel 1935 Pasternak è inviato, a forza, a Parigi, per partecipare al Congresso internazionale degli scrittori antifascisti. È stufo di chiacchiere, di vieti proclami, di pose politiche, viziate. Flirta con il suicidio. A Parigi, però, incrocia Marina Cvetaeva, con cui ha condiviso il più vertiginoso degli amori epistolari, “Lì conobbi il figlio, la figlia, il marito della Cvetaeva”, ricorda Pasternak. Fu un “non-incontro”, come scriverà Marina: Pasternak è preda della gabbia sovietica, soffre di insonnia; lei si appresta al ritorno in patria, frastornato.

Negli anni, Pasternak inaugurerà un cauto legame con la figlia di Marina, Ariadna, arrestata dalla polizia sovietica. Dai diari del figlio di Marina, ‘Mur’ – pubblicati dalle edizioni Pangea / Magog come Grida dai tetti il suo amore per me – veniamo a conoscenza di alcuni dettagli altrimenti sconosciuti. In Russia, pur essendo trattata da paria, da ‘nemica del popolo’, Marina Cvetaeva continua a frequentare Pasternak. Il 13 maggio del 1940 ‘Mur’ appunta (la traduzione del testo, di Fabrizia Sabbatini, è una primizia, un dono al lettore, assente dalla scelta compiuta per il libro):

“Durante la serata abbiamo assistito con mia madre a una lettura di Pasternak della sua traduzione di Amleto alla MGU (Università statale di Mosca). Era presente tutta l’intellighenzia moscovita che non aveva potuto assistere alla prima lettura. La traduzione è notevole e Pasternak la declama con particolare enfasi, chiaramente alla pasternakiana maniera. Il pubblico lo adora. È un uomo estremamente singolare, anche il suo pubblico la pensa così. Dopo questa lettura così acclamata, ci siamo ritrovati a casa della prima moglie di Pasternak, dove abbiamo cenato e chiacchierato. Poi Boris ci ha accompagnati a casa di mia zia, dove abbiamo trascorso la notte. Mia madre sostiene che Pasternak sia il nostro miglior poeta e Pasternak sostiene che lo sia la Cvetaeva”.

Vista di lato, dalla singolare sagacia di un ragazzo di quindici anni, il rapporto tra Marina Cvetaeva a Boris Pasternak acquisisce una autenticità suprema, una fragranza. Incappato in una sorta di nebbia creativa, Pasternak sceglie di sprofondare in Shakespeare, di riverire i cardini della cultura occidentale. Il suo gesto è sottilmente ‘politico’, nelle intenzioni – “In un periodo di falsa e retorica pomposità c’è un grandissimo bisogno di una parola schietta e indipendente, e io a questo bisogno spontaneo mi sono sottomesso”, scrive al padre, Leonid, giustificando il suo lavoro – e nei fatti: Amleto è abbozzato per la resa scenica di Mejerchol’d, arrestato nel giugno del 1939 e condannato a morte l’anno dopo. Il lavoro intorno a Shakespeare procede nel pieno della Seconda guerra con Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra: con lotta verbale il poeta reagisce all’orrore, alla morte – così, secondo l’agiografia, Osip Mandel’štam recitava ai compagni di prigionia, sul ciglio della fine, le sue traduzioni dal Canzoniere di Petrarca. Nel saggio Traducendo Shakespeare, Pasternak ricorda che durante le

“notti dei bombardamenti vegliai sul tetto di un edificio di dodici piani – nel corso di una sola di queste mie veglie fui testimone di due esplosioni sullo stabile – scavai il rifugio blindato a casa mia, in campagna, seguii i corsi di addestramento militare che inaspettatamente rivelarono in me un tiratore nato”.

Pasternak aveva compiuto 52 anni e la scrittura a volte è anche questo: veglia, bombe, addestramento, entrare nella notte con un lume e una pistola. Ma questa è un’altra storia, come si dice. Intanto, si era consumata la tragedia di Marina Cvetaeva e il figlio, Georgij detto ‘Mur’, di estasiante precocità, era in procinto di partire per il fronte, verso l’incontro con il proiettile fatale. Ci resta la sua testimonianza, nitida come una finestra: il poeta eccezionale, narciso, tanto amato, che invita gli ospiti a casa della prima moglie, generoso fino all’indifferenza, a cui tutto è perdonato.

Gruppo MAGOG