26 Novembre 2020

“Oggi più che mai c’è bisogno della fiaba della buonanotte. Non ci diamo più la buonanotte”. Dialogo con Francesca Serragnoli

I versi di Francesca Serragnoli sono un agguato, esigono nidi di falco negli occhi, riducono le ginocchia a donnole, piccoli carnivori. Ti gettano nella vita a venire, ad abitare la promessa. “Il cuore caduto in terra/ è un animale che la tua mano/ solleva e osserva/ agitare le zampe nel vuoto”. Ho aperto a caso – perché la poesia va letta così, spigando il libro, spalancandolo come capita, ostaggi del mattino, come si fa coi testi cari e sacri, desiderando il punto di giunzione tra caos e giustizia – dall’ultimo libro di Francesca, La quasi notte (MC Edizioni, 2020), che è quasi un breviario (gli altri libri, che costituiscono un’opera miliare, costituita da tende e da sentinelle, sono: Il fianco dove appoggiare un figlio, Il rubino del martedì, Aprile di là). È un libro, questo, che ho avuto il premio di leggere quando era ancora sparso, su pezzi di carta incollati, nella formula propria della poesia, quella parziale. Alcuni versi mi diedero l’impulso di scriverne altri, continuandoli, in un altro continente; pensai perfino a un libro privato. “Un alveare brucia/ nelle costole di queste bestie/ che sciamano nel censimento// tornò a tormentare i nomi/ perché s’infatua del morso”. Parole così, degne di restare scritte a matita, ai margini – che il tempo, conchiuso, laverà, come pietra bagnata. Francesca lavora da stigmatizzata: spoglia le parole finché non resta la spina, e più in là, forse, l’antidoto e il dolore. È come una monaca che rifiuti la luce: usa le mani per tastare i confini della città, del viale, della casa, a emendare la norma in miele. Dall’introduzione alle sue poesie – che ora è una appendice dal titolo vago, Appunti sparsi – ho sottolineato molte cose, ricalco un paio di frasi: “Come è liberante non servire a nulla”; “Diventare anonimi come gli autori biblici”. A volte mi chiedo da quale epoca venga Francesca, perché sia incarnata qui, è come l’astuccio di un gioiello donato. Nel desiderio originario di Francesca, il suo libro si chiamava “Hotel Dieu”. Non c’è nulla di devoto, di criptico, di sgargiante in quel nome: Hôtel-Dieu è il titolo che in Francia si dava ai luoghi di ricovero, agli ospedali che dipendevano dal vescovo. Ospitalità e cura, morte, grido, balsamo, preghiera. Che cos’è, altrimenti, la poesia fuori da questo eremitaggio tra le estremità? Non c’è belletto intorno alla parola Hotel, nessuna assoluzione in Dieu.  

Che cos’è questa ‘quasi notte’?

L’unica risposta è la domanda. Vedrai che confusione dire altro. Ogni volta che ho provato a fermare con le parole o le immagini ciò che mi accade e ciò che accade, in quel momento della giornata, ho collezionato fallimenti, voci antitetiche come “entrare nella bara sfondata del tramonto, o il neonato viaggio che si tiene stretto alla cesta del suo calore, o un foulard” e altri indicibili tentativi per raccattare (incidere) la sensazione. Roba eliminata, senza tirare in ballo la noiosa ineffabilità. Forse quando qualcosa è vicino al suo opposto, quando richiede che il bene e il male, o altri generi la cui definizione, per natura, richieda l’esistenza dell’uno e dell’opposto dell’altro, ma soprattutto il bene e il male, quando qualcosa richiede che il bene e il male si tocchino, allora mi sento vicina a una possibile restrizione del campo (la mia ironia tu la capisci, altri no). Quando dove c’è un po’ di bene e c’è anche il male e, dove sembra che ci sia solo il male c’è sempre anche il bene, allora e solo allora, toglierò le mollette alle tante parole, immagini appese di fronte e di profilo, allora le parole cadranno come banconote del monopoli. E sarà l’esodo dello sguardo. Just married. Darò le spalle al pianeta. (Hai visto come mi sono arrampicata sugli specchi per non rispondere).

Perché la poesia, ancora? Che cosa è, in te, la poesia, e perché mai renderla pubblica?

Mi viene d’istinto rispondere che non essendo, la poesia, totalmente proprietà di chi la scrive, potrebbe somigliare a un bene comune, all’acqua. Banalmente chi scrive sa che anche ogni suo verso non è creato dal nulla, ma viene dopo la creazione o il caso che dir si voglia. Un sorriso o una lacrima altrui, pur fermata in qualche verso, è sempre altrui. E la sua natura misteriosa, affascinante, bellissima, drammatica è sempre esclusiva e ha una dignità a prescindere dal poeta che la riporta sul foglio. La maggior parte degli elementi di natura o storia che accadono in un testo poetico sono arrivati gratis e gratis devono essere riposti come gli uccellini in un nido (prima che si sdegnino, diceva mio zio). Se fossimo un marchingegno di natura, una macchina, basterebbero le istruzioni per l’uso, dettagliate, un bugiardino ben scritto con tutte le risorse delle scienze umane. Ma non credo sia così. La poesia è il racconto del nostro essere qui e ora, dell’esserci stati. Se Dante non avesse scritto la sua e solo sua storia, personale, non sarebbe mai potuto diventare universale. È solo riscontrando un estremo valore a ciò che ci accade che possiamo donare la stessa inesauribile importanza alla vita altrui. Non si chiamerà Beatrice, ma avrà la stessa ondulata chioma di mistero. Non è questione di storia del tempo, è sempre contemporanea. È di chi la legge in quel momento. (Mi viene in mente una metafora volgare, ma mi trattengo). È l’uomo che batte la campana di sé (non l’ego).

La poesia di per sé non può essere commerciabile o considerata sotto questo punto di vista. È ciò che si sono detti gli uomini dopo il turno nella fabbrica. Oggi più che mai c’è bisogno della fiaba della buonanotte. Non ci diamo più la buonanotte. Prendiamo una pastiglia. Per me certo la poesia è anche la quasi notte, la bellezza gratuita che nessuno possiede. Ma qua nessuno possiede niente. La poesia ce lo ricorda. A me, ad esempio, mi cambia la giornata, spesso, una parola inutile. L’inutilità ci dice la nostra grandezza, altrimenti rimaniamo operai di una enorme catena di montaggio, il cui senso è sbriciolato. Come fossimo pietre erose ognuna a suo modo. Che gelo.

Sulla necessità o meno di pubblicare, vagliare i propri testi e decidere, oppure sull’avere certezza o meno che siano di valore, o mezzo valore, entriamo nell’ordine del caos.

Io ho fatto 4 libri, come qualcun altro ha fatto 4 sedie. È più importante la poesia delle sedie? Non credo, se rimaniamo nell’ambito del fare. Entrambi possono bruciare e bruceranno. La poesia è quella che c’è e poteva non esserci. Temiamo che rimanga troppa arte accanto a finta arte? Proprio ora che l’assaggio di una pestilenza ci ricorda quanto siamo fragili, impotenti, mortali. Come lo siamo sempre stati. Proprio ora che i tempi ci ricordano che potremmo esserci o non esserci in un battito di ciglia, ci preoccupiamo di cosa dovrebbe sopravvivere, cosa mettere sull’arca? Non esiste il diritto alla poesia e il potere che hanno alcuni di scegliere cosa conservare e cosa no è un potere effimero. Il potere che ha la buona poesia è quello di diventare memorabile e contro le piccole biblioteche umane non c’è censura che tenga. Non è per scollegarmi dallo sconforto e dal caos che regola la vita letteraria intorno a noi. Verrebbe da rinunciare. Allora, per dare un senso a quello che ho fatto, mi dico che esiste un’altra piattaforma, dove la memoria, ciò che è memorabile, viene ricordato, come fossimo aedi o rapsodi. Attenzione, io non so se le mie siano o meno opere di valore, memorabili. Ho chiesto fin dai primi versi se valesse la pena, ma non sono certa di aver ricevuto buoni consigli. Ma una mia amica mi ha detto: ma se nessuno la legge come fai a sapere se è o meno memorabile? E io ho risposto che la scrematura la devo fare io prima per non intasare il sistema etc. poi ho pensato un’altra cosa. Esiste un diritto alla vita delle cose che un uomo fa? Nel caso della poesia si potrebbe rispondere che esiste un diritto alla vita in versi solo considerando la poesia al pari di un istinto naturale, come il sesso. Come qualcosa di ontologico, di innato, una tensione che c’è in ogni uomo; se, insomma, faccia parte o meno del nostro modo di esistere, di esprimerci, se sia una dimensione del linguaggio alla quale tendiamo, coscienti o meno. Discorso ridondante, vero. Impossibile argomentare ed essere convincenti. Ma, se così fosse, la poesia, sia di chi la scrive, sia di chi la legge, sarebbe l’esito, felice o infelice, per natura, del linguaggio. Vale a dire che il linguaggio, volente o nolente, tende a esprimersi in poesia, cioè che l’uomo tende alla poesia, che non tutti sono poeti, ma tutti possibili fruitori, sì (la nicchia umana).

Posso dunque ritornare al vecchio paragone con la nascita della vita umana. Si potrebbe dire che banalizzo, riportando la questione al trito paragone fra l’opera e la vita nascente. Ma io sono personalmente contro l’aborto di ogni opera, contro l’interruzione della vita, di ogni opera. Io poi non sono nessuno per dire a qualcuno di non pubblicare un’opera e voglio che non venga tolto il diritto alla vita a nessuno, sia che possa nascere mediocre, alto, basso, povero, banale, in decasillabi o prosa poetica. Altra faccenda è voler arrivare primi, vincere medaglie. Come ho già detto altrove, il podio della poesia è il più scomodo sgabello del mondo e a me personalmente fa più paura che piacere sognare una simile altezza, un simile abisso.  Sarebbe come darsi fuoco per darsi importanza. Poi se è vero che risponderemo di ogni parola detta… ma a chi dobbiamo rispondere? E chi è oggi il front office morale-poetico? Il confessore?

Ma attenzione: se mi dici di non leggere quel libro o quel tal altro io, che di te mi fido, ti ringrazio perché non cerco quel che non cerco. Ma in libreria non ci sono i cartelli “il libraio ne sconsiglia la lettura”. La piattaforma commerciale e quella della memorabilità di un’opera sono due piattaforme diverse oggi. Io non leggo per dimenticare quello che leggo, perché non vale la pena. Sarebbe assurdo. Altra cosa è leggere l’opera di un amico, altra cosa è candidarlo al Nobel. Anche se un mio libro servisse solo per accendere un fuoco, però, non sarebbe poca cosa. Apro e chiudo il grande quesito: cosa cerco in un libro?

Francesca Serragnoli in un ritratto fotografico di Daniele Ferroni

Ti chiedo, proprio a te, armata nel pudore, di estrarre un tuo verso, che ti pare, per i misteri che mi dirai, esemplare, complice. E ti chiedo di estrarre il verso di un altro, vivo o morto, che ti si è inchiodato in testa. 

Dall’ultima raccolta ho l’eco del “triciclo della croce”; di altri, come citato nel libro, Hugo Mujica, cito a memoria, “come si stesse cercando un figlio sperduto nella folla, senza sapere… se è nato”. Soprattutto quest’ultimo, lo ripeto talvolta nella mente e ogni volta è come sprofondare e risalire, per un respiro. Il pudore non è di per sé un fattore di grandezza. A volte è solo un disguido psicologico e nasconde una finta umiltà, un grande orgoglio, o la paura di esporsi. Mi sono sempre chiesta quale fosse la differenza fra la vera umiltà e la mancanza di fiducia in se stessi. Ma questo è un altro discorso.

Come compagni di viaggio, come lanterne – o spettri – vedo Cristina Campo, e Berdjaev: perché?

La Campo perché è inesauribile fonte d’acqua viva. Perché è totale, è un’opera. Come Dante ha concepito la Commedia richiamando l’Esodo biblico quale fonte di lettura sia letterale che allegorica, la Campo per me è fonte di esodo, pur nella sua drammaticità. Mi dice: andiamo. Anzi, vai. Non fermarti neppure con me. È l’arte che sacrifica se stessa per l’Altrove. Berdjaev è stato uno strano incontro nell’incrocio con altri importanti autori non solo russi. L’intricato regno delle letture che mi piace chiamare provvidenziali. Quelle che viaggiano con il passaparola. Questo filosofo russo, di cui non conoscevo nulla, mi ha colpito dopo la lettura de Il senso della creazione. È un libro di più di 400 pagine, difficile da sintetizzare, ma che ha forse un centro: la libertà e la creatività. Risponde alla domanda: a cosa serve la nostra creatività in ordine alla salvezza? E la Campo si chiedeva alla fine dell’unica intervista registrata: cosa ci sto a fare qui? Da qui l’idea che la vita non sia un meccanismo e la questione della responsabilità della libertà umana, responsabilità intesa non solo in senso morale. Non è evidentemente una questione di sistema di pensiero su un argomento, un ragionare e basta. Una volta lessi un articolo, non mi ricordo purtroppo dove, che parlava di un giovane filosofo russo che dopo avere riscontrato la vanità della filosofia in cui credeva, si sparò.

Che avvenire ti procura la poesia, dove ti porta – dove ti sotterra; a cosa ti sottrae, cosa attrae?

Altro? Come si dice qua dal salumiere… sì, ho visto che c’è pure l’ultima domanda su Dio (rido). La poesia mi porta qui con te, come compagno di strada. Mi permette di “riconoscere qualcuno nella folla, senza sapere dove si trova, senza sapere se è nato”. Riguardo all’avvenire, la poesia spacca a metà la mela delle cose importanti, rimette in ordine secondo un altro ordine. È l’unico luogo dove ho scritto che ho incontrato la bellezza di qualcuno, di qualcosa. Per vedere un volto bello ci si alza la mattina, si sono fatte le guerre. È una misteriosa tirannia. Per quanto riguarda il libro, sono contenta di avere fatto. È altro da me. Di questo ne sono abbastanza certa. Mi fa felice la dinamica del dono, come a chiunque fa felice fare un regalo. Non ho particolari aspettative. Certo se lo sotterrassi, dicendo a vanvera che l’opera non mi realizza e che non devo essere egocentrica o altre simili dichiarazioni, rinnegherei la natura di quello che ho fatto. Di quello che ho scritto ne ho bisogno io, a pari merito rispetto ad altri che vorranno darci un’occhiata. Se ciò non fosse, al punto di nasconderlo, sarebbe forse meglio iniziare a consolarlo dell’esser nato. Non so cosa sia più patologico. Meglio non indagare. Aggiungo. Sono poi sempre le stesse cose che dico da un po’ di tempo. Se qualcuno mi dice che è un bel libro ne sono felice: l’ho scritto io. Indipendentemente dal fatto che quella felicità sia o meno la stampella della mia vita, che regga tutta la mia povera vita. Grottesco pensare che avere scritto un libretto di versi, possa sostenere l’intera vita di una persona. Semmai è il peso della vita squartato, illuminato e (speriamo di no) decorato. Ma ripeto, è il peso e la sua leggerezza come due facce della stessa medaglia. Il guaio è che non si può sapere se si scriverà ancora. Ma questo vale in generale per la vita stessa.

…e Dio – o ciò che diciamo lui – che c’entra con la poesia?

Più volte mi sono detta “non nominare il nome di Dio invano”, non usarlo come tappabuchi poetico. Neppure un angelo voglio fra i versi che non sia un angelo vero con le ali, come quelli de Il cielo sopra Berlino. Tutto qua. È il centro impronunciabile che ho osato pronunciare e che, della quale pronuncia, risponderò a chi di dovere. Avevo intitolato il libro Hotel Dieu. Poi, avendo scoperto per caso (con già il libro in stampa) grazie a un’amica, che esisteva già un titolo uguale, ho modificato e utilizzato il vecchio titolo. L’ho preso come un segno, un avvertimento. Dieu non doveva essere una decorazione, una lucetta intermittente simile alla parola open sulla cineseria. È un nome sacro, separato che non ha bisogno certo di essere supportato dai miei versi, o agganciato come un portachiavi. Ho imparato la lezione.

*Tutte le fotografie che ritraggono Francesca Serragnoli sono di Daniele Ferroni

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