04 Dicembre 2020

Un biglietto dall’aldilà. (Ovvero: come si misura il perimetro di un anniversario)

Con il tempo la memoria non si lima, la sua lama s’illumina, è più insidiosa. Tra menzogna, fantasia, fatto i nodi si allentano: il morto non si allontana da noi, ci è addosso, sul cuscino. Gli anni non alienano i morti – addestrano il loro agguato.

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Mio padre è morto il 4 dicembre di molti anni fa, 31. La sua morte è stata preceduta da una piccola morte: la separazione dalla famiglia. La magnolia nel giardino della casa dove eravamo ospiti – mia madre mi ha insegnato a vivere da ospite, sempre; a dire grazie, comunque – fu paterna. Le foglie della magnolia sono dure, luminose, come la lingua di Isaia.

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La morte di mio padre mi ha dato la vita: avevo dieci anni, mi staccavo per sempre dall’Artico dell’infanzia. Mio padre non mi ha lasciato nulla: di suo ho soltanto una lettera, troppo complicata per un bambino, fatico a capirla anche ora. La sua morte ha creato una concatenata serie di dolori che non ho ancora snodato del tutto – come un vaso di vetro, s’infrange, e tutti gli ospiti della stanza recano in dono una scheggia, pur minima, tra i piedi, tra le dita, e scintillanti perle di sangue.

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Certo, mi ha lasciato in custodia i suoi genitori. Abitavano a Milano. È curioso come la morte abbia approfondito la separazione che i miei avi hanno coltivato in vita. La madre di mio nonno è sepolta a Mentone, in Francia, suo padre a Milano, suo fratello è disperso, nel Mare del Nord; i miei nonni sono sepolti a Riccione, mentre mio padre, che è morto a Bordighera, in Liguria, è sepolto in un piccolo paese prossimo al Lago Maggiore, in Piemonte. Nessuno visita le loro tombe. Alcuni vivono per scomparire dalla memoria degli altri.

Duccio di Buoninsegna, “Gesù tentato dal Diavolo, sul monte”

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I morti, tuttavia, continuano a parlare. Qualche giorno fa sfogliavo la Bibbia di mio padre, la tengo sul comodino. È la “versione riveduta” di Giovanni Luzzi, usata dai Valdesi. Ricordo che mio padre mi portava a Prali, al confine con la Francia, tra i luoghi cardine dei Valdesi. Ricordo i boschi, le montagne, ispide, e uomini estratti dal legno, alti, ruvidi, sorridenti. Mi piace, ogni tanto, leggere questa traduzione: ad ogni traduzione, mi sembra, la Bibbia cambia ritmo, insinua un suono diverso, dice cose nuove. La Bibbia più che un libro, mi pare un animale: si muove, come un giaguaro, come un serpente? Non lo so.

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Soltanto qualche giorno fa mi accorgo che nella Bibbia c’è un biglietto. È scritto a macchina. Sono segnate le letture della liturgia di “lunedì 16 ottobre 1989”. Ignoro se mio padre abbia partecipato a quella liturgia e perché abbia sentito la necessità di segnare quei riferimenti. Di certo, due mesi dopo, mio padre era in una tomba, incapsulato nella cappella della famiglia Maddalena, a Cambiasca. Dal cimitero si scorge la punta del Lago Maggiore; da lì c’è il sentiero che percorrevo da bimbo per andare al fiume. Furoreggiano le volpi.

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Mio padre è tra quelli morti violentemente; nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggo, capo 2281: “Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente”. Sono frasi potenti, d’acciaio, appena attenuate dal paragrafo 2283: “Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita”.

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Col senno di poi, tento di capire se le letture di quella liturgia hanno qualcosa da dirmi, ora. Forse mio padre ha messo quel biglietto, lì, nella remota speranza che io lo legga, molti anni dopo. Forse quelle parole della Bibbia sono le sue, ora, perché i morti parlano per sussurri, per accenni. La prima lettura è tratta dal profeta Ezechiele, capitolo 34: “Io cercherò la pecora perduta, ricondurrò la smarrita, fascerò la ferita, fortificherò la malata”. Il Salmo che dà ritmo al rito è il 19, un canto cosmico, in cui il creato si incatena alla legge: “Un giorno sgorga parole all’altro,/ una notte comunica conoscenza all’altra/…Dio ha posto una tenda per il sole/ ed egli è simile a uno sposo che esce dalla sua camera nuziale”. Il canto passa dalla visione celestiale a quella intima, perché galassie macerano nel nostro corpo: “Chi conosce i suoi errori?/ Purificami da quelli che mi sono occulti”.

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Forse siamo esiliati dalla risposta, ma posso pensare che mio padre sia seduto sul tavolo della sala. Dobbiamo dare attenzione ai morti per non gratificare il rancore: credo che è santa la vita di chi passa per lapidi sconosciute, toglie polvere dalle fotografie degli andati, sparge lodi. Un uomo non diverso da un prato. Il giorno in cui muore mio padre, il 4 dicembre, nasce Rainer Maria Rilke. “Noi duriamo più a lungo, noi violenti./ Ma quando, in quale fra tutte le vite,/ ci apriremo a ricevere anche noi finalmente?”. Scrive così, come se sapesse tutto, nei Sonetti a Orfeo.

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La lettura evangelica di quella liturgia è tratta da Giovanni, capitolo 21, l’ultimo, che racconta l’apparizione di Gesù “presso il mar di Tiberiade”. Il Nazareno improvvisa un pasto con i discepoli, si rivela, reclama a sé Pietro. Per tre volte Gesù chiede a Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu?”. La triplice richiesta di amore sconvolge: ho amato abbastanza mio padre? I morti reclamano amore, ma in questi giorni, vasti come la notte artica, siamo noi, piegati, ammutoliti dalla richiesta troppo grande, a desiderare. I confini del vento, però, sono pietra. (d.b.)

*In copertina: Hugo Simberg, “Angelo ferito”, 1903

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