
Simone Casetta fotografo di viaggi e di poeti. Ora a Parigi
Cultura generale
Camillo Sbarbaro, pietrificato dalla storia – muore nel 1967, sulla soglia degli ottant’anni –, testimonia che un percorso singolare, ai fini letterari, si sconta con una marginalità intransigente, con le picche ai cancelli. Il sentiero lirico di Sbarbaro, infatti, non è appartato ma appropriato alla ricerca individuale del poeta; piuttosto, Sbarbaro è stato messo ‘a parte’ perché – per destino, per rifiuto – ha scelto di vivere lontano dalle capitali dell’industria culturale. D’altronde, non mostrò di lagnarsi. Così – radiografia di un’indole – quando l’amico Giovanni Descalzo deve redigere la voce “Sbarbaro” per il Dizionario storico della letteratura italiana edito da Paravia, il poeta – è il febbraio del 1949 – si scherma, confonde le tracce, ammette di non ricordare quando sono stati pubblicati i suoi libri né di possederli:
“Mi spiace di essere nell’impossibilità di precisare: non ho né i miei libri né tanto meno recensioni. Arrivo nudo (e quindi leggero) alla meta”.
Pare un monito: che più alta altezza possiamo chiedere a un poeta se non quella di aver liquidato la propria opera, di averla dimenticata?
In una affascinante pagina di Fuochi fatui (edito da Scheiwiller con il marchio All’insegna del Pesce d’Oro nel 1956), il poeta si riassume così:
“Scrittore, lavorai sempre a intermittenza; senza provare nelle lunghe pause velleità o rimpianti di sorta… Non mi misi mai di proposito davanti a un foglio bianco; per aver pubblicato, non sentii mai d’aver contratto impegni, neppure con me stesso. Lavorai, non è quindi la parola giusta; se la frase non si prestasse a interpretazioni metafisiche, direi che scrissi sempre sotto dettatura”.
Confitto nell’amata Liguria – nato a Santa Margherita Ligure, cresciuto a Varazze e a Savona, molta a vita a Genova prima di trasferirsi a Spotorno – Sbarbaro dava ai suoi libri titoli sul punto di sbriciolarsi: Resine; Rimanenze; Trucioli; Scampoli; Gocce; Quisquilie. I suoi versi – per la tenacia che dimostrano a ristoro dell’evidente fragilità – ricordano i suoi licheni, che definì con una frase che circoscrive un esistere: “una muffa più un fungo, due debolezze che fanno una forza”. Se per il mondo dei poeti, in fondo, Sbarbaro restò sempre un’anomalia, per gli studiosi dei licheni fu un piccolo re: nel 1929 riuscì a vendere al Museo di storia naturale di Stoccolma il suo prezioso erbario, ricavandone una cifra che “lo rese stranamente ricco”, almeno per un po’. Preferiva la botanica alla lirica – o meglio, fece della lirica una variante della botanica; un po’ come Nabokov – scrittore affatto diverso da lui – che scriveva assecondando lo sciabordio delle sue farfalle.
Lavorò molto, Sbarbaro: passò dall’industria siderurgica all’insegnamento – tra i suoi alunni, Carlo Bo – al giornalismo. Le sue traduzioni – fatte per dovere, sotto richiesta editoriale – resistono al tempo: ancora si ristampa il suo Stendhal, il Flaubert, lo Zola, l’Eschilo. Coltivò l’amore, i viaggi, l’amicizia – il tutto, in disparte dai ‘dibattiti’ letterari dell’epoca, a motivo di una natura poco predisposta a farsi trascinare tra gli ingannevoli gorghi del tempo.
A dire di Pier Vincenzo Mengaldo:
“Pianissimo rimane certo il documento fondamentale della poesia di Sbarbaro, e uno dei capitali del primo Novecento; ma nessuna ottica ‘avanguardistica’ deve impedirci di vedere che nelle liriche scritte più tardi egli ha ottenuto esiti non meno intensi e forse più limpidi, per minore premeditazione e maggiore distacco dalla propria materia psicologica immediata”.
Il tempo pare aver giovato a Sbarbaro. Nel 2022 Mondadori ha raccolto in un ‘Meridiano’ le sue Poesie e prose; tra i poeti del canone è quello che viene letto ancora con profitto, con la certezza che qualcosa si può ancora scoprire. La poesia di Sbarbaro ha qualcosa di immobile e di liquido, di rupe e di mare, come la sua terra. Il modo migliore per avvicinarsi a questo poeta, transfuga dai clamori, è la bella biografia, Camillo Sbarbaro: scrivere per vivere, pubblicata da Ares e firmata da Francesco De Nicola, già curatore della raccolta delle lettere di Sbarbaro a Descalzo (La poesia è un respiro, Ares, 2023).
Proprio a De Nicola abbiamo fatto alcune domande, per sprofondare nel mondo di Sbarbaro.
Poeta schivo, alieno ai salotti letterari, Sbarbaro è un classico, come dire, ‘a metà’. Come mai? A motivo del carattere, leggendariamente ruvido?
“Tranne che negli anni giovanili, quando frequentò la rivista “La Voce” – che nel 1914 gli pubblicò il libro di poesie Pianissimo che lo fece conoscere e apprezzare da buona parte del mondo letterario italiano – , Sbarbaro si radicò, per ragioni economiche e familiari, a Genova, città culturalmente poco viva e che dunque non poteva giovare all’affermazione di uno scrittore. E infatti Montale prima e Caproni dopo scelsero opportunamente di andarne via e ottennero notorietà e successo vivendo il primo a Firenze, negli anni Trenta capitale della letteratura italiana, e quindi a Milano, divenuta il centro dell’editoria nazionale, e il secondo a Roma che dagli anni Cinquanta in poi divenne luogo d’incontro privilegiato per intellettuali e artisti. Da Genova Sbarbaro intrattenne però solidi rapporti epistolari con altri scrittori e artisti, come dimostrano le numerose raccolte di sue lettere ad amici. La vita spesso non gli fu generosa e per questo non gli mancarono i tempi bui, ma neppure gli mancavano quelli felici, soprattutto quando poteva soddisfare il suo desiderio di viaggiare (è stato all’estero in Olanda e in Francia restando ammirato dal fascino di Parigi) e con gli amici Vivante, dei quali era spesso ospite a Siena, si spostava quasi ogni anno nell’Italia centrale. Dunque Sbarbaro non era un uomo appartato e ruvido, ma viveva in un suo mondo al quale era estraneo l’ambiente letterario che contava perché essenzialmente egli scriveva per il piacere di scrivere per se stesso. Quando nel 1949 Giovanni Descalzo gli chiese note bio-bibliografiche per compilare su di lui una scheda richiesta per un dizionario degli scrittori italiani, Sbarbaro diede notizie incerte e perfino sbagliate sui suoi libri, affermando candidamente che neppure li aveva in casa; e quanto alla critica non esitò ad ammettere di aver cominciato a leggere i saggi su di lui di Spagnoletti e di Carlo Bo, ma di averci capito ben poco. Insomma, Sbarbaro viveva nel suo mondo non necessariamente infelice e questo gli bastava. E di ciò si ha prova anche nella sua scelta di passare dalla poesia, con la quale aveva cominciato la sua attività letteraria (in tutto non ne scrisse neppure un centinaio e dal 1933 smise del tutto), alla prosa, ma non quella dei romanzi e dei racconti che offre notorietà e successo ai narratori, bensì alla prosa lirica come espressione di assoluta libertà. Infatti se nella narrativa esiste una trama da sviluppare e personaggi da inserirvi, la prosa lirica è fatta invece di descrizioni (più o meno brevi) di paesaggi e di figure umane, di riflessioni e di ironiche osservazioni, di invenzioni assolute e di realistici momenti: la prosa lirica è dunque poesia, ma espressa senza il ricorso ai versi”.
La passione per i licheni. Pare ancorarsi alla biografia del poeta. Come nasce, e perché?
“La passione per i licheni e per il mondo naturale in generale nacque sin dai primissimi anni quando, vivendo ancora a Santa Margherita Ligure (dove era nato nel 1888 e da dove andrà via a sei anni), il padre lo portava, insieme con la sorella Clelia, a camminare per i sentieri del monte di Portofino dove si appassionò alle piante, ai fiori e ai muschi. Questa iniziale attenzione per il mondo naturale si sviluppò in direzione dei licheni quando visse da soldato sui monti del Trentino e, durante i lunghi periodi di tregua, per passare il tempo cominciò a cercarli e a raccoglierli. Negli anni seguenti ne divenne un collezionista e uno studioso tra i più qualificati, tanto da scriverne alcuni libri – dal 1930 al 1956 – e soprattutto da venderne alcune raccolte ai maggiori musei europei di storia naturale, come quando nel 1929 quello di Stoccolma gli acquistò un grande erbario pagandogli un alto prezzo che per qualche anno lo rese straordinariamente ricco. E anche questo dimostra che Sbarbaro, appassionato cultore per tutta la vita del mondo naturale, sapeva tenere i contatti e dunque non viveva appartato, se non da chi non gli interessava frequentare”.
Che valore ha l’amore nella poesia di Sbarbaro?
“L’amore è presente nelle sue pagine, in versi e in prosa, in diverse accezioni. C’è l’amore carnale del giovane che, costretto a vivere nell’anonima e opprimente città, trova conforto nelle pratiche sessuali che non sempre, anche se vorrebbe, si collegano all’amore; c’è l’amore ingenuo che lo porta a comprare un anello di fidanzamento che poi non troverà la destinataria e c’è l’amore travolgente e deluso che rende ancora oggi profondamente partecipi i lettori della prima poesia dei Versi a Dina. E c’è l’amore riconoscente verso il “padre fanciullo” – ma non per la madre, troppo presto perduta e solo vagamente ricordata con rammaricata freddezza – e poi, al di là delle persone, l’amore senza fine per la sua Liguria, “scarsa lingua di terra che orla il mare”, rappresentata minutamente (come la conosceva da collaudato camminatore) in decine di “trucioli” che sembrano cartoline parlanti. Nelle sue lettere e nei suoi “trucioli” ci sono non pochi nomi di donne, ma poco importa chi fossero e che cosa fossero per lui, ma è certo che un uomo che ha scritto l’appena citata Versi a Dina ben conosceva la passione amorosa”.
A proposito di amore. Mi dica qualcosa sull’amore-odio (se non: liquida invidia) di Montale per il conterraneo Sbarbaro.
“Montale esordì nel campo del giornalismo e della letteratura il 16 novembre 1920 recensendo i Trucioli di Sbarbaro e, se pur lo definiva “artista disuguale” e rilevava nei Trucioli “un vento di malattia”, non di meno riconosceva che in essi, definiti un po’ approssimativamente “scritti lirici bizzarri”, si trovavano “pagine di così profonda ispirazione e di fattura insieme così delicata e forte da chiedersi quanti scrittori d’oggi abbiano saputo scriverne altre di pari valore”. Negli Ossi di seppia Montale aveva inserito una sezione intitolata Versi a Camillo Sbarbaro, definito “estroso fanciullo”, che allora era certo più affermato di lui e in seguito, divenuto Montale ben più famoso non solo per la poesia, solo in rare occasioni se ne occupò, scrivendone infine il necrologio sul “Corriere della Sera” del 5 novembre 1967 dove, riconosciuti i suoi indiscutibili meriti letterari, lo definiva, con inopportuna ironia un “collezionista di funerali” perché abitava a Genova nella strada che conduce al cimitero di Staglieno. Sembra inevitabile che questi due poeti, tanto diversi tra loro per origini familiari e per storie personali e comunque accomunati dalla grandezza delle loro pagine, non potessero essere amici: l’uno accorto nelle scelte che potevano giovare al suo successo letterario, a cominciare dal già citato abbandono di Genova, e l’altro, anche se meno solitario di quanto spesso si è scritto su di lui, per necessità legato a Genova e alla Liguria e indifferente alle lusinghe del successo. Ma al di là delle diverse storie umane, Sbarbaro e Montale avevano anche, e forse soprattutto, diversi gusti nei confronti della poesia e di ciò ne sono prova le diverse valutazioni espresse sulla silloge Risacca (1933) di Giovanni Descalzo: Montale, che poi la recensirà su “Pègaso”, ne apprezzò cinque liriche mentre Sbarbaro ne scelse nove, ma solo una su quattordici era in comune”.
Sbarbaro è stato traduttore prolifico, di autori anomali: è passato da Eschilo a Montherlant, da Pitagora e Julien Green. Che ‘attualità’ recano quelle traduzioni e come si installano nel percorso lirico di Sbarbaro?
“Costretto dalle sue incerte risorse economiche (viveva dando lezioni private e appunto vendendo collezioni di licheni) a cercare altre forme di onesto guadagno, negli anni della Seconda guerra mondiale accettò di tradurre in italiano testi classici scritti in greco e opere più moderne in francese. In breve, questa sua attività venne apprezzata dalle maggiori case editrici italiane, da Mondadori a Einaudi a Bompiani, tanto che venne quasi soffocato da questo lavoro che gli risultava tanto pesante soprattutto per le rigide scadenze delle consegne delle traduzioni. E così Sbarbaro divenne uno dei traduttori italiani più richiesti, ma certo questo fu per lui un lavoro opportunamente remunerativo, ma svolto quasi sempre senza passione anche perché le traduzioni nascevano da scelte editoriali e non da lui”.
Ritagli un verso, un distico, una poesia di Sbarbaro e mi dica perché è per lei un testo ‘decisivo’.
“L’immagine di Sbarbaro finora più diffusa (e che con il mio libro spero di far sparire) è quella di un uomo freddo, cantore rancoroso dei mali delle città moderne (e questo non si può certo smentire se si legge la poesia Taci, anima stanca), legato sì a solide tradizioni familiari, ma in sostanza anaffettivo. Ma se ci avviciniamo alla prima poesia dei Versi a Dina troviamo invece un uomo che vive in profondità l’amore, l’amore felice che è ormai solo nei ricordi ma che comunque ha segnato la sua vita con una passione che solo chi nutre sentimenti travolgenti può provare e può trasmettere con i suoi versi:
La trama delle lucciole ricordi
sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(trasognato paese dove fui
ieri e che già non riconosce il cuore).
Forse. Ma il gesto che ti incise dentro,
io non ricordo; e stillano in me dolci
parole che non sai d’aver dette.
Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s’anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che non giungono a toccarsi.
Ognuno resta con la sua perduta
felicità, un po’ stupito e solo,
pel mondo vuoto di significato.
Miele segreto di che s’alimenta;
fin che sino il ricordo ne consuma
e tutto è come se non fosse stato.
Oh come poca cosa quel che fu
da quello che non fu divide!
Meno
che la scia della nave acqua da acqua.
Saranno state
le lucciole di Nervi, le cicale
e la casa sul mare di Loano,
e tutta la mia poca gioia – e tu –
fin che mi strazi questo ricordare.