Caro Antonio,
rare volte ho letto un libro così estremo, libero al dettato, all’ascolto. Dire quello che manca non è un gioco e, in pari grado, far corrispondere la propria assenza alla propria presenza, il silenzio alle parole, è cosa difficile. S’intende, lo stile è tutto, il poeta è poeta in qualunque momento (l’hai detto tu), la sua misura si sostanzia in una fedeltà senza pari, in un gesto inaudito, inedito e assoluto, acrobatico, aggiungerei, che consiste nello scartare continuamente il significato voluto, l’esemplarità forzata; perché lì sta il tragico, il dramma, il pericolo franante del crollo. Siamo troppo sensibili, basta!, è ora di finirla: fine dell’io, fine del desiderio a tutti i costi, fine della psicologia.
E poi, ammesso pure,
ho io (ovvero) abbiamo noi
troppo sentimento?
Scrivi questi versi nella penultima pagina, prima dell’apparizione del damasceno, che si era già visto da qualche altra parte nel libro, personaggio tratto da Le mille e una notte. Oriente e Occidente si sposano (ma anche un certo Surrealismo, a te caro, tradotto, rivisitato, travolto dal tuo impeto), e nell’unione si annullano. Fine anche della speranza! La speranza in sé e per sé non conta, occorre affidarsi, ecco il punto, persino contro sé stessi. Ogni speranza è vana senza affidamento. Mi sembra che questo accade, proprio in chiusura della raccolta; che è una traiettoria irregolare, la tua, come dice il primo verso dell’ultima poesia, che tu, nella nota finale, riveli essere l’ultima che hai scritto in ordine di tempo, nonostante si trovi nel centro del libro. S’intitola Cervo danzante (presumo: cervo volante) è la tua intima poetica.
Una traiettoria irregolare. La natura matrigna
le passa un astuccio misteriosamente
emetico attraverso la grata.
Oggi alle undici per lo meno
non ci sono moribondi, neanche a dire
i filosofi e gli altri del tutto da drogare
a dovere degradano negli abissi.
La poesia va avanti ancora per nove versi, ma viene da chiedersi chi è Mingati?, e perché è paragonato alla pantera profumata?…
L’abbiamo detto, la speranza ha bisogno di un secondo movimento. Qui ci si affida alla parola, al nome (recondito nome, recondita speranza). Ho il sospetto che questo libro sia stato creato partendo dal titolo, intorno a esso. Fare di un nome un titolo, come nei romanzi del XIX° secolo. Che sia nato prima il titolo e poi l’intero libro?, l’intero corpo poetico?, nato per virtù di quel nome misterioso?, che sotto Mingati si nasconda il frutto della natura letteraria?
Chi è Mingati?, torno a chiedermi, e perché rappresenta la poesia?, anzi, non rappresenta, è. Nella nota tu rispondi: “D’altronde, il nome stesso, nella sua autoreferenzialità tautologica, è per lo più un mistero”. Così come la pantera. Il suo profumo allegorico ha evocato negli antichi il canto, il verso, la ricerca, e in Dante il vero del volgare. Forse qui sta la cifra di tutto. In cerca della parola libera, in quanto creata, che può andare per il mondo. Adesso è inutile citare detti latini, il raddoppio è evidente, l’identificazione è chiara: Mingati o della pantera profumata, è la poesia e ci getta in avanti, nel mistero, che è il suo passo.
Tento un affondo. Lo scritto è drammatico. Il linguaggio, intendo dire, è teso, come sospeso sulla Storia. Storia che è mancanza. Per questo si segue la pantera, si fiuta il suo profumo, per conoscere, per farsi guidare. Ma se c’è qualcosa da conoscere è la propria vocazione.
“L’intero quadro appare quello della civiltà della perdita”, scrive Cristina Campo. Troppo poco, persino questo. Siamo inconsolabili. Per un attimo mi è parso di vedere la trama del tuo lavoro, girata, come sul retro di un tappeto: i nodi e i fili sporgenti, il disegno frammentario. Le immagini e la composizione spezzata sono il vero nucleo della poesia. Perché tutto nasce da una condizione: solo l’anima è concreta, e cerca su un altro piano, che è quello della musica, della mistica, della memoria. Arriva tutto da lì, e produce una sorta d’incantamento, ma sembra sopravvivenza quando scompare. Eppure resta qualcosa di irresistibile: il non detto è parallelo alle parole!
Di nuovo Cristina Campo:
“Come la manna di sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l’astensione e l’accumulo. La parola che dovrà prender corpo in quella cavità non è nostra”.
Alla luce di questo passo, si conferma la lettura di Giorgio Moio, nella sua bella prefazione al libro, che dice di un procedimento di accumulazione nel succedersi delle immagini.
Concludo con la poesia che preferisco della raccolta.
Gandhiji all’arcolaio
Piuttosto tutto ai suoi piedi
anche i più biechi sacri
senza contare quelle nozze verità
delle ciminiere.
C’è un passaggio
in quest’ordine nuovo
che fa a pugni
con le cosce
a serramanico
dei Thugs.
Da questo lapis mi congedo.
Va’ all’ordito
anima mia dei secoli
se scola agonizzare la tramatura.
E all’ennesima potenza la tenerezza,
tremola.
P. s. Allego aforismi miei su Mingati o della pantera profumata di Antonio Trucillo (Edizioni Ensemble, 2023).
1. Mingati è un calco e il testo la sua forma, il suo rovescio che aspira alla parola.
2. Negativo e positivo risultano funzionali a una superiore armonia. Il poeta è un mediatore finissimo.
3. La parola è il centro.
4. Mentre scrivo, il libro cade in terra facendomi sussultare, come fosse vivo.
5. Ovvia reazione, la mia, poi rifletto: il volume si trovava su un piano inclinato, oppure l’episodio non è casuale, dice che la poesia si concepisce in quanto precipizio di parole, verticalità del paesaggio.
6. Salita e discesa si equivalgono; allo stesso modo nel Purgatorio di Dante.
7. Mingati allude a un personaggio ma fuori scena, drammaturgia in atto, teatro in versi. Attenzione e concentrazione si affermano.
8. Si potrebbe parlare anche di eteronimo, se non fosse che Pessoa qui non c’entra.
9. La rivoluzione, il dichiararsi prigionieri politici, Marx ed Engels, il loro cuore, sono purezza, fedeltà; basta considerare il sempre della dedica.
10. Così all’infinito.
Vincenzo Gambardella