Dunque tutto finiva lì: bellezza e poesia, gioventù e sogni di gloria. Ma anche senso di vuoto e inquietudine, la caccia affannosa degli istanti.
Ci hanno messo quasi due ore, a salire il pendio che porta alla radura. E lì l’hanno sepolto, in un boschetto di ulivi sulla collina, scoperto un giorno in cui erano sbarcati a terra. Le foglie dai palmi grigio verdi oscillano all’aria, sopra la tomba, un ramo sembra quasi riparargli il capo. Lo hanno coperto con pietre chiare raccolte intorno.
Poi i compagni di plotone riprendono le fiaccole e si rimettono in marcia, una breve processione silenziosa: devono ridiscendere la collina, riunirsi agli altri, lasciare l’isola. La nave li aspetta ancorata alla baia, nel mare che è vino scuro. Ricorderanno il balenio delle fiaccole nella notte, le nuvole pesanti che corrono contro il disco della luna, il profumo forte di timo, salvia e menta. Le erbe che hanno deposto sopra di lui nella terra.
Nell’oscurità della radura sulla collina di Sciro, solo una nuda croce di legno s’intravede infissa tra le pietre, un nome inciso sul legno: “Rupert Brooke”.
Rupert Brooke rimarrà lì, nell’isola nel mar Egeo. E mentre lo lasciano solo in quell’“angolo di terra straniera”, più di uno tra loro sente di aver assistito non solo a una fine, ma anche a un inizio, la leggenda.
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Nell’altra isola, a casa, la leggenda è già nella storia: Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, firma il necrologio sulle pagine del «Times» e in volute retoriche accende bagliori patriottici facendo leva sul sentimento nazionale degli inglesi, in una guerra che agli inglesi sta chiedendo un prezzo altissimo.
Solo poche settimane prima, la domenica di Pasqua 1915, il diacono di Westminster ha letto dal pulpito il quinto “sonetto di guerra”, Il Soldato: presto l’autore – chiosa l’ecclesiastico – “prenderà posto tra i nostri grandi poeti”. La fama gli era lampeggiata davanti, a volte, e quando la morte iniziava per lui a essere più di una fantasia poetica, dalla nave che lo stava portando a incontrarla alla vigilia della campagna di Gallipoli, Rupert aveva scritto a Catherine Cox, un tempo amata: “Come potrò saperlo se non diventerò celebre? If I shan’t be eminent…?”.
Per uno strano concorso del destino, l’abile uomo politico aveva avviato un mito, duraturo, abbagliante, impastato di mezze verità: gli echi di quella “voce” sarebbero “rimasti per sempre”. Rupert Brooke doveva essere “celebre”, eminent – fornendo, tra l’altro, l’aggettivo all’acuto volume di Lytton Strachey –fino alla celebrazione come War Poet al Poets’ Corner della grande cattedrale. E secondo la previsione del diacono Inge avrebbe scolpito il proprio nome a lettere indelebili nella memoria di una generazione, i riverberi spinti nella breccia del futuro.
Era nato ventisette anni prima a Rugby, nel Warwickshire, secondogenito di William Parker Brooke, mite insegnante a Rugby e della volitiva Ruth Mary Cotterill, un rapporto sempre complicato con il figlio e pesanti ingerenze dopo la sua morte per l’eredità letteraria.
Dopo la scuola a Rugby, al King’s College a Cambridge Rupert è l’anima di circoli e società letterarie, gli Apostoli e la Marlowe Society da lui fondata, la Fabian Society universitaria. Per l’avvenenza – un “giovane Apollo” lo vede Frances Darwin, nipote di Charles –, la distinzione negli sport, il suo fascino immediato attrae come un magnete, con visioni di campi verdi e abiti bianchi sui campi da cricket. Per compagno di studi ha James Strachey, con Virginia Stephen giocava da bambino in vacanza, in Cornovaglia. È un poeta innamorato di Keats e Milton, di John Donne e Marvell. Sceglie per scrivere una casa fuori Cambridge, a Granchester, il prato disseminato di fogli coperti di scrittura aerea. Indipendente, vegetariano ante litteram, gli piace camminare a piedi nudi e nuotare sotto la luna nel fiume Granta e nella Byron’s pool, un altro poeta morto giovane “in un angolo di terra straniera”.
Lo ammirano Henry James e Eddie Marsh, Churchill e Herbert Asquith (con suo fratello partirà per l’Egoe), quasi idolatrato da Lawrence e Yeats, Brooke si trasformerà in soldato, l’ennesimo sacrificio a un’epoca affamata di eroi in una guerra d’inaudita violenza e ferocia, ma non tornerà come Septimus Warren-Smith, pur con la mente devastata per sempre dagli orrori delle trincee.
Contraddittorio, ambivalente, il vero Rupert è ben più dall’icona del soldato dei “sonetti”: è anche un giovane talvolta freddo e fragile, assediato da insicurezze e paure, non solo il golden boy dei più originali intelletti oxbridge, l’eroe infervorato d’idealismo andato troppo giovane a morire per la patria, ma un poeta ragazzo che ha espresso tanto e al quale, tuttavia, tanto di più è stato precluso.
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Un uomo è ciò che ama, secondo Brodskij: un poeta, in sostanza, è per gran parte la somma degli autori che ama.
Oltre i sonetti di guerra, apparsi postumi in 1914 and Other Poems, alla prima raccolta Poems 1911 segue, l’anno dopo, con Edward Marsh, l’altra raccolta epocale Georgian Poetry 1911-1912. Nel volume del 1911 suona forte l’influsso di Keats, Rupert se ne imbeve, i suoi versi rimandano gli echi come riflessi di specchi: la voglia di solitudine, la felice reclusione nel giardino, il senso di fuga e rifugio tra alberi, campi e corsi d’acqua. A momenti la marea di una stanchezza, “vuoto e silenzio” (The Vision of the Archangels) che invade e sommerge, “vorrei dormire, e dormire!” (Retrospect), ripete la voce keatsiana nel giardino di Hampstead, “Che io possa (…) lasciare non visto il mondo” e “Svanire, dissolvermi, e dimenticare…” (Ode to a Nightingale).
Rupert interroga l’impermanenza umana, la transitorietà della bellezza che ha piccoli piedi sempre in fuga, la visione di tutto ciò che passa e non tornerà, “lo splendore e la pena” in immagini spoglie di senso, se non nell’eterno poetico. È l’attimo di John, “la Gioia con il dito sempre sulle labbra / Per dire addio” (Ode on Melancholy), celebrato proprio mentre sta scomparendo:
Quel che è passato non lo ritroverò, Lo splendore e la pena; Il getto di sole, l’urlo del vento, E la puntura coraggiosa della pioggia …
Contro il mutevole e mortale la pace è nella natura immutabile, nella capacità di sogno e desiderio di “ricreare” quanto è scomparso. E dunque – quasi inaspettatamente – gli anni, “che si portano via il meglio, / Restituiscono infine qualcosa”:
Cercherò e troverò I migliori tra i miei desideri; La strada d’autunno, il vento dolce Che culla le contee che s’oscurano. E le risate, e i fuochi nelle taverne.
Foschia bianca sopra siepi nere,La sonnolenta distesa dei Midland, Il silenzio dove cresce il trifoglio, E le foglie morte nel vicolo (I Chilterns)
Gli è congeniale enumera le sue gioie – e “queste rimarranno” –, soddisfare l’aspirazione a guardare “oltre la siepe” per contrasti: il buio nella strada in autunno e il fuoco nelle taverne, il biancore sulla siepe scura, le risate e il silenzio della campagna, il trifoglio che rinverdirà e le foglie cadute. L’uno inseguiva l’“immortale” volo dell’usignolo consapevole che sulla terra niente sopravvive: “Qui, dove (…) la giovinezza diventa pallida, spettrale e muore”. Così nell’altro l’ideale, il sogno possono durare solo nel mondo delle idee e dunque le raduna, le amate cose mortali, come un’offerta: “Solo con la Terra eterna, e Notte, / E Silenzio”, per sfuggire “gli inesorabili piedi d’ombra” della morte, non importa se l’eccesso di luce del voto può incendiare l’offerente, “Chiara è la visione, seppure ti annienta…”. Fino al premio finale:
E la luce, Che ritorna, restituirà le ore d’oro…
(Second Best)
All’uscita del volume, Rupert Brooke ha ventiquattro anni. Immagini classiche, echi di altri poeti amalgamo bagliori effimeri della vita, l’amore e la gioia. Il centro di molte liriche è il tempo, questo “cielo senza occhi” (The Life Beyond), che li trasforma inesorabilmente nel loro opposto, in morte, odio e dolore. Di là dalla barriera di dubbio, instabilità e incertezza, la poesia conserva un tesoro. Indugia “nei sobborghi del cielo” (Choriambics – II) il poeta, e si tiene stretto il suo “spazio d’oro”
Dove poter aprire quella riserva profumata Di canto e fiori e cielo e visi…
(The Treasure)
Lo stesso procedere per accumulo è nel celebre The Great Lover. Come i bambini che allineano i giochi sulla sabbia, dai versi affiora una sequenza di “cose amate”, che sfiora forse il prosaico ma di essenziale, sorridente semplicità. Ogni particolare è vivido, sensazioni, colori e suoni “uno dopo l’altro, come assaggiare un dolce cibo”, con opulenza di Medio Evo vittoriano alla Keats:
Queste cose ho amato: Piatti bianchi e tazze, splendenti di pulito, Cerchiate di blu; e polvere piumata, fatata; Tetti bagnati, alla luce dei lampioni; la crosta forte Del pane amico; e il cibo saporoso; Gli arcobaleni; e il fumo azzurro-amaro del legno; E gocce di pioggia lucide adagiate tra fiori freddi; E anche i fiori, che oscillano in ore di sole, Mentre sognano falene che li suggono alla luna; Poi la fresca gentilezza delle lenzuola, che subito Leviga ogni pensiero; e il maschio rude bacio Delle coperte; massicce nuvole blu; (…) La benedizione dell’acqua bollente; pellicce da toccare; L’odore buono di vecchi abiti; (…) e l’odore stantio che indugia Sulle foglie morte e le felci …
“Cari nomi”, ancora più “cari” perché quando ne scrive Rupert è lontano dall’Inghilterra.
Inquieto, avido di movimento e novità, nel 1913 è partito: il «Weekly Magazine» gli ha chiesto degli articoli di viaggio e lui si è imbarcato per l’America, vede il Canada, New York e San Francisco. Quindi decide per i mari del sud: nel 1914 va a Honolulu, alle Hawai e alle Fiji e, dopo un breve giro in Nuova Zelanda, infine a Tahiti tra gennaio e aprile. Insonne nella notte tropicale – tra fruscii di rami, rumore d’oceano e ali d’uccelli – torna a immagini del nord, alla fredda e brumosa ma sempre amata isola natale:
… l’affannoso respiro del treno; Sabbie compatte; il piccolo orlo di schiuma che si smorza Bruno e fluttuante sull’onda che torna a riva; E sassi slavati, lucidi per un’ora; la fredda Austerità del ferro, la forma di terra umida e nera; Il sonno, e le altezze; orme nella rugiada; E le querce, e bruni ippocastani lucenti; E legni mondati della scorza, e scintillio d’acqua tra l’erba – Tutti questi sono stati i miei amori.
La leggerezza, la lieve autoironia arretrano presto in sottofondo. Perché tutto muore e scompare, anche gli esseri e le cose più amati li incenerisce, prima o poi, il silenzio della fine. Attraversata la soglia dell’“ora grande”, “giocando al disertore” il loro lascito è il tempo di decadere:
… tutta la mia passione, tutte le mie preghiere non potranno Farli restare con me attraverso i cancelli della Morte. (…) Ma il meglio che ho conosciuto, Rimane qui, e cambia, s’infrange, invecchia sparso Dai venti del mondo, e svanisce dalla mente Degli uomini, e muore. Niente rimane.
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A Tahiti Rupert s’innamora dell’isola e di una ragazza dell’isola, Taatamata. In Tiare Tahiti, usa per lei – Manua – una sequenza magica di ottosillabi rimati, lo stesso metro usato da Shelley nelle poesie d’amore per Jane Williams e da Marvell per la sua “ritrosa Signora”:
Manua, quando le nostre risate avranno fine, E i cuori e i corpi, bruni o bianchi, Saranno polvere presso la porta degli amici, O profumo che spira nella notte, Allora, sì! allora, i saggi concordano, Verrà la nostra immortalità. Manua, ci attenderà una terra Difficile da comprendere. Fuori del tempo, oltre il sole, Tutti saremo un unico essere in Paradiso (…). Ma ci mancheranno Le palme, e il sole, e il sud…
Un “idillio” polinesiano i cui echi marvelliani brillano al sole dei Tropici. Fitzgerald vi trarrà il titolo di This side of Paradise, prima di lui “Avessimo Mondo abbastanza, e Tempo, – incalzava Marvell la sua dama con metafisica ansia – “Non sarebbe un delitto, Signora, questa Vostra ritrosia”,
Ma alle mie spalle io odo di continuo L’alato Carro del Tempo avvicinarsi veloce,
Davanti agli amanti si stendono tuttavia “Deserti di vasta eternità”, dove la bellezza di lei si perderà, nel marmoreo sepolcro non potrà “più echeggiare il mio canto”, “E in cenere si cambierà tutto il mio ardore”, perciò
Godiamo adesso finché ci è dato, (…) E con rude violenza gettiamo le nostre gioie Oltre i cancelli di ferro della Vita …
Brooke punteggia i versi di dettagli realistici, pungenti, quasi crudi: i “cancelli di ferro della Vita” trasformati nei “cancelli della Morte”, la “cenere” marvelliana in “polvere”, i “deserti di vasta eternità” in un oltre vita tahitiano. Ma il ritmo del verso è identico, e ritmo convoglia senso.
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Arruolatosi volontario, Rupert Brooke muore il 23 aprile 1915 di setticemia, mentre la nave della Royal Navy lo sta portando ai Dardanelli. Qualche settimana prima, la congregazione di Westminster Abbey ha ascoltato l’anticipazione della sua morte in The Soldier.
Enfatici, i versi fissano tuttavia in armonia un’esaltazione palpabile, che cattura in una rete di parole il sentimento nazionale del momento. L’incantatorio “basso continuo” sulla parola “Inghilterra” e l’aggettivo “inglese” fonde “corpo” e “cuore”, le immagini innalzate in sicura progressione tematica fino alla dominante: l’Inghilterra mistica. Spazio sacro che unisce chi è rimasto a casa, i sopravvissuti e tutti coloro che sono partiti, forse già scomparsi:
Se dovessi morire, pensate solo questo di me: Che c’è un angolo di campo straniero Che sarà per sempre Inghilterra. Ci sarà In quella ricca terra una più ricca polvere nascosta;
“Polvere dall’Inghilterra generata”, a cui l’Inghilterra “ha donato, un tempo, i suoi fiori da amare, i suoi sentieri in cui vagare”. Un corpo che ha respirato aria inglese, si è bagnato nei suoi fiumi, toccato “dai soli di casa”. Un cuore che:
Renderà i pensieri dall’Inghilterra avuti in dono; I suoi sospiri e suoni, i sogni felici come il suo giorno; E la risata, appresa dagli amici; e la dolcezza Di cuori in pace, sotto un cielo inglese.
Brooke non farà in tempo a conoscere l’inferno delle trincee, la spaventosa carneficina del Fronte occidentale che rovescerà per sempre il punto di vista dei giovani poeti sulla guerra. Diversamente da altri poeti soldati – Sassoon, Owen e Rosenberg – non scriverà, come loro, versi di scabre dissonanze densi di amarezza e disillusione per la mostruosa futilità della sofferenza e disperazione delle truppe.
Nemmeno lui pare considerare molto i “sonetti di guerra”, these five camp children, “questi cinque bambini da campo” li descrive a Catherine Cox, che comunque fanno di lui l’emblema della gioventù in armi d’Inghilterra, a tutti i caduti danno un volto, un figlio da piangere alle madri e ai padri inglesi. E un simbolo che sfida e sconfigge quanto gli inglesi temono di più, l’intrinseca debolezza umana e la morte, nel tempo sottratto a se stesso nell’eterno, o in una guerra in cui i figli d’Inghilterra muoiono e cadono e ai civili, “simili alle nuvole, non resta che fissarli, lontani, “come foglie lucenti…” (Town and Country).
Lui la chiama transience, caducità, impermanenza. Mentre, deposta la penna, si avvia in fretta verso l’oscurità:
Attraverso gloria ed estasi scompariamo. Vento, sole e terra resteranno, gli uccelli canteranno sempre, (…) E morti noi Niente resterà di quel che è nostro; e la vita continuerà ad ardere…
(The Hill)
Aveva scritto un Frammento sulla nave, “Ho vagato sul ponte per un’ora, questa sera”, rinuncia nuova e virata nel pensiero sulla guerra, compassione per il pericolo che stanno tutti per affrontare, “orgoglio per la loro forza e (…) l’unita bellezza dei corpi” e “pietà che/ Questa gaia macchina di splendore dovesse esser presto rotta, /Offesa, schiacciata, dissolta”, i compagni e se stesso diventati ombre, parvenze già svuotate di vita, refoli d’aria, gocce di mare:
Continuavo a vederli – in controluce – passare Come ombre colorate, più sottili del cristallo, Bolle leggere, più smorti della pallida luce delle onde, Che si rompeva in fosforo nella notte, Cose periture e strane ombre – prossime a morire In altre ombre – questo, o quello, o io.
Quasi tutti coloro che parteciperanno alla spedizione nei Dardanelli moriranno, cambiati in “ombre”, chi sulle spiagge, chi altrove, poco dopo di lui.
Il suo taccuino restituirà un altro frammento, pochi versi, quasi un’avvisaglia del destino:
… ha indosso Il bocciolo non colto della quiete; più immoto Di un pozzo profondo a mezzogiorno, o di amanti congiunti; Più del sonno, o del cuore dopo l’ira. È Il silenzio che segue vaste parole di pace.