“Un dio è l’uomo quando sogna”. Libertà e radicalità, senso panico e tragico in Hölderlin
Filosofia
Massimo Triolo
A parlare della multisfaccettata storia di Giuliano Scabia ci ha provato recentemente Massimo Marino con Il poeta d’oro (La casa Usher, 2022). Se si ripercorre la vicenda di questo artista prolificissimo ci si sente sottoposti a slittamenti continui, si va per linee di sviluppo diagonali che attraversano i confini canonicamente definiti delle forme artistiche. Nel lavoro di Scabia risulta infatti evidente che sono le pratiche a guidare l’emersione di una forma e non una forma a dover rispecchiare, come per decreto, nel migliore dei casi il bios delle pratiche, nel peggiore, e più frequente, il loro usurarsi a schematico referente indiretto. È la vita, con i suoi incontri e complessità, a sospingere verso una rottura/revisione delle forme pre-esistenti. Se questo è uno dei principi che guida la sperimentazione artistica degli anni ’60, per Scabia esso si invera in una ricerca dalla “coerenza incoerente” (per usare un conio che viene dall’Antropologia teatrale), in una verifica inesausta delle proprie ipotesi teatrali, poetiche e narrative. Certo, oggi che le forme hanno ri-assunto e riassumono una visione nuovamente gerarchica del mondo e della società, le pratiche traverse del poeta padovano, questo approdare alle forme passando per pratiche di attraversamento dei contesti umani e sociali mediante un’immersione nelle multiformità delle relazioni che si attivano con questo andare nel mondo, nei mondi, in totale apertura, con spirito di investigazione, con domande aperte, che non forzano a un’univocità di atteggiamento, ma anzi tengono potenzialmente pronta, sempre, la sorpresa dell’incontro con gli altri o con l’Altro, appare non solo un regale e gioioso “spreco”, ma semplicemente una rivoluzione.
Un percorso che parte dalla poesia, circa alla metà degli anni ’60 e alla poesia ritorna, verso la fine della vita, con un progettato canzoniere che è rimasto per ora inedito – ne intravediamo la forma in un indice, pubblicato in fondo al volume (accompagnato da una accurata bibliografia a cura di Alberto Pontiroli, giovane e appassionato studioso, profondo conoscitore degli anfratti del labirintico archivio-studio di Firenze), che raccoglie quanto è stato pubblicato e inediti. Del resto Scabia è autore che con il progredire dell’età sembra avvicinarsi sempre più a un nucleo essenziale, indissolubile, di verità poetica; a cui non sembrano venir meno memoria, agilità di scarto lirico, capacità di suscitare/ricevere e di vivere fino in fondo le proprie irradiazioni fantastiche.
Poeta innanzitutto, dicevamo. “Padrone e servo” è la sua prima silloge (1965); vi si colgono per frammenti le inquietudini del tempo, una tessitura di immagini che interrogano la Storia, sbalzano in versi dislocati, in bassorilievi verbali di plumbea eloquenza, plastiche immagini di guerra, di memoria, di prigionia, ma anche immagini contemporanee, di quella affluent society metropolitana, vista con occhio già disincantato, che s’imponeva e imponeva nuove visioni urbane, nuove prigionie sotto la veste smagliante dello “sviluppo”. È lo stridore di un’opera prima che s’incunea in un momento di grande trasformazione anche delle forme letterarie. Così non è inconsueta la spazializzazione della pagina, anticipo di quello che sarà poi un analogo uso dello spazio scenico o del teatro per intero.
Le frammentazioni fonetiche delle parole sono anche partitura musicale, inserita non senza voluta dissonanza nello stesso libro. A Scabia qui non sembra tanto importare l’individuazione di un fil rouge lirico-tematico, quanto render conto dello stato attuale della sua ricerca in quella fase, così che il salto tra la prima parte e la seconda, (quella tratta dal lavoro per le opere di Luigi Nono “La fabbrica illuminata” e “Diario italiano”, in cui appunto vediamo apparire le fonetizzazioni), rende il libro duplice, a doppia maschera per così dire: da un io lirico gettato nello stridore contraddittorio della vita contemporanea a un io-noi, calato nell’ascolto, raccoglitore di voci (le donne, gli operai della Fiat di Palermo o del siderurgico di Cornigliano, ecc.) che si staccano in un vuoto angoscioso, dove gli spazi bianchi della pagina sono quasi un sostituto grafico della musica nascosta, segreta, che le ha suscitate, e della rottura di una metrica tradizionale come figura della rottura di un equilibrio sociale e psichico. Qui il bianco diventa parte dell’architettura poetica, un po’ come accade contemporaneamente al teatro, con la rinnovata coscienza, da parte degli artisti innovatori, dell’intero volume della scena, inteso come spazio di libertà compositiva, e non solo nella sua frontalità prospettica di tipo naturalistico.
Il poeta d’oro vuole essere qualcosa di più di un libro riassuntivo dell’intera attività artistica di Scabia, vi si coglie abbastanza chiaramente come un’urgenza di tirare le fila, di strutturarne un (o il) primo, il più possibile completo, compendio (Marco de Marinis nel suo fondamentale “Al limite del teatro” e poi Silvana Tamiozzo Goldman in “Scabia, ascolto e racconto” già avevano per sommi capi tracciato questa via), cercando di organizzare la materia in forma narrativa per meglio rispondere a questa urgenza. È anche un atto d’omaggio e d’amore alla figura di questo grande artista da parte di un ex studente che ha vissuto in pieno la diversità dell’insegnamento scabiano, all’interno di un’istituzione per natura poco propensa alla sperimentazione come l’università italiana di quei primi anni ’70, ma che con il DAMS, fondato a Bologna nel 1972, vede un improvviso aprirsi di nuove possibilità. La scrittura ha un sapore di testimonianza, e si capisce quanto sia stata continua, negli anni, da parte dell’autore, la frequentazione del poeta e del suo studio di Firenze – vero e proprio antro delle apparizioni, nel quale i libri, i materiali parevano ubbidire a una legge dispositiva finalizzata più che alla loro definitiva collocazione, a dare massima efficacia all’irradiazione della loro presenza; tutto contribuiva, in quel luogo – lo diciamo per esperienza diretta – a questa sensazione di vita sospesa pronta ad animarsi a un cenno silenzioso del poeta-mago. Di questo studio-archivio, e dell’officina teatrale – dove le maschere, i pupazzi di cartapesta, i pupi, i teatrini riempiono ogni angolo – si colgono alcuni scorci nelle belle foto a corredo del volume.
Forme che nascono dalle pratiche, dicevamo, così che le realizzazioni di Scabia prendono forma di libro dopo che sono state azione, almeno nella prima parte della sua attività. “Teatri in forma di libro”, per usare una bella espressione dello studioso Ferdinando Taviani. Ma anche “libri in forma di teatro” (e non solo quelli che contengono drammaturgie). Al centro di tutto la presenza del poeta, che dice mentre scrive e scrive mentre dice, a conferma che il corpo a corpo tra lingua letteraria e confronto con la realtà, nel suo farsi dialogo in presenza dentro a situazioni progettate e insieme aperte alla accidentalità/aleatorietà degli apporti (la drammaturgia dello “schema vuoto”), crea il sistema di orientamento, il sistema nervoso, della prassi poetica. Inoltre, si potrebbe dire, del lavoro di Scabia: “poesia dell’azione e azione della poesia”. Non azione nel senso di forza, di intervento volontaristico e unilaterale, ma come modo per mettersi in ascolto, secondo una modalità di presenza piena che esclude ogni imposizione e schiude e disarma ogni posizione. La poesia poi è nel modo in cui questo fare si cristallizza in una lingua e in un procedere narrativo-associativo che si è nel frattempo “impigliato” in tutte le emersioni linguistiche, umane, sociali, di gruppo, attraversate, ed è stato rielaborato alla luce della cultura del poeta, della sua attitudine allo scavo anche filologico della lingua e dei suoi strati, e, soprattutto, invasato dal turbinio/turbamento della fantasticheria.
Uno degli elementi che emerge dal racconto è il fatto che tutta l’attività di Scabia sia stata orientata anche dal modo in cui il sistema teatrale italiano ha accolto (o meglio, non accolto) le innovazioni che egli andava proponendo. Così gli scarti del cavallo-poeta, che gli consentono di guadagnare campi d’osservazione e d’azione sempre nuovi, sono spesso generati dagli ostacoli che egli trova sulla propria strada. In ciò, a ben vedere (ma non è ipotesi questa o suggestione che provenga dal libro) accomunandolo in un certo senso, almeno nella sua parte germinale, alla vicenda di un’altra grande figura di riformatore come Eugenio Barba. Accade così per l’opera Diario italiano con Luigi Nono, prima commissionata e poi dalla Scala rifiutata per via della sezione sul Vajont; per Zip, il primo grande avvento della neoavanguardia sulle scene italiane ancora intestate al mattatore attoriale o all’artefice registico, che rifiuta e l’una e l’altra impostazione per un lavoro collettivo in cui gli attori sono chiamati a destrutturare le abitudini interpretative vigenti; fino a Interventi per la visita alla prova de L’isola purpurea di Michail Bulgakov, per il Piccolo di Milano, che viene ripagato dalla direzione dello stesso con un divieto di accesso al teatro (“non mi facevano neppure più entrare nei camerini” racconterà Scabia); o ancora Scontri generali, che viene bloccato dai direttori dei teatri dell’Emilia-Romagna “perché avrebbe potuto mettere in crisi gli equilibri politici della regione”. Ecco allora che l’avventura universitaria, a partire dal 1972, invitato al neonato DAMS dal suo fondatore Benedetto Marzullo e da Luigi Squarzina, si configura per un artista siffatto come un luogo di sperimentazione mobile che si modella sulle caratteristiche individuali/generazionali che di anno in anno i gruppi di studenti portano con sé, e insieme come un luogo di focalizzazione di tutte quelle pratiche, ancora itineranti tra le più svariate situazioni non teatrali, all’interno di un’istituzione come l’Università. Una sorta di “teatro stabile” sui generis insomma (Il teatro stabile di Giuliano Scabia era stato il titolo di un saggio pubblicato dal sottoscritto sulla rivista Prove di Drammaturgia nel 1997, su stimolo e con l’amorevole assistenza di Gerardo Guccini – riduzione di un più ampio lavoro di tesi, probabilmente la prima in Italia, sulla figura dello scrittore padovano), che nasce e cresce come una pianta matta in mezzo all’ordinato giardino delle scene più ricche e privilegiate, e dell’istituzione accademica: un teatro povero, un teatro fatto dalle persone che lo fanno e non identificato con l’edificio che lo contiene (e qui ecco un’altra assonanza con la pratica barbiana).
Interessante il riporto di un’osservazione di Scabia sul fatto che il raccontare le proprie storie, recitandole in pubblico, dopo “il rifiuto dei suoi testi da parte delle istituzioni teatrali” (p. 122) sia per lui, più o meno all’altezza cronologica del 1994, “una forma calma di fare teatro” (p. 128). Oltre al senso letterale di questa affermazione se ne può attingere un altro applicabile al raccontare inteso però come pratica della scrittura narrativa che a partire dagli anni ’80 l’autore padovano comincia a coltivare. Anche quella modalità di lavoro la si può interpretare come una “forma calma di fare teatro”? Perché no? Nella scrittura narrativa è come se tutto il portato delle esperienze, teatrali e non, si coagulasse in un fare distillatorio che usa la scrittura come evocazione in absentia di tutte le presenze umane e non umane – davvero incontrate e trasfigurate o suscitate in fantasia – che affollano cuore e mente dello scrittore. È il momento in cui la casa di Colleramole sulle colline di Firenze (lo studio boschivo di quegli anni) inscena “fuori”, nel rapporto diretto che l’ambiente naturale stimola, tutto un teatro di animali che diventano riflesso dell’umana varietà.
Il libro di Marino cerca di dare conto di tutto questo andare nel mondo alla ricerca della lingua e nella lingua alla ricerca del mondo; degli incontri innumerevoli, delle occasioni di teatro le più impensabili: sono immaginazioni teatrali che includono interi paesaggi; la viandanza pedestre e la capacità di inclusione fantastica di ogni dettaglio del mondo esterno si compongono in una visione che vuole farsi a sua volta mondo; è un viaggio terrestre (e celeste) quello di Scabia, per parafrasare il titolo di un’opera di un altro grande poeta come Mario Luzi.
Il poeta d’oro si muove, come dicevamo, lungo un itinerario cronologico abbastanza lineare, tanta è la materia che ha necessità di comprendere; con l’intento dichiarato di farne una narrazione esemplificato fin dalla scelta di attribuire a Scabia la qualità di “personaggio”, nominandolo con un epiteto sapidamente araldico-favolistico-mitologico, che riprende peraltro il titolo di uno dei testi teatrali dello stesso (Commedia del poeta d’oro, con bestie).
La forma ibrida tra saggio, testimonianza e narrazione restituisce le giravolte giocose e gioiose del “poeta d’oro”, le sfumature, gli sconfinamenti e, insieme, il senso di quella che si può dire una pratica, e una poetica, dedita proprio all’esplorazione dei confini: fra linguaggi artistici, fra lingue parlate e letterarie, fra saperi, comunità umane (“orefice del fra” lo ebbe a definire Ferdinando Taviani). A lettura terminata rimane una specie di nostalgia desiderante: Scabia non sarebbe bello raccontarlo come si trattasse di uno dei personaggi dei suoi “romanzi”? dove fantasticheria, affondo terragno in una “stralingua gaudiosa e tenerella”, in un “novello spròlico ruzzantino”, per dirla con Paolo Puppa; evocazione di un contiguissimo “Altro mondo”, con comparsa di angeli e diavoli in pantaloncini nei bar e sui tetti e sentimento di un grande accadere/non accadere cosmiconel quale l’umano è solo uno degli infiniti fili di interconnessione col tutto; infine intuizione della morte come finale salita al monte delle origini, e salto di livello della vita, si intrecciano come in un multicolore tappeto volante – o teatro vagante? Nostalgia desiderante di un poeta che racconti un poeta…