Gli telefono. Sussurra. La nebbia di novembre rende ostie i muri, le mute forme, i gabbiani. “No so se è il mio fantasma che risponde per me”, mi fa, “non mi riconosco più”. Parla senza ripicca né rammarico – parla e sorride, così mi pare, almeno. “Sa, i miei ritmi vitali decrescono… muoio poco a poco”, mi fa, e intinge nel blu il verbo morire.

Eppure, scrive moltissimo, gli dico. “Spero di non scrivere troppo. La mia paura è quella di scrivere per sentirmi vivo. Ma non può essere così: si scrive per gli altri, non per se stessi”.

Giampiero Neri, classe 1927, è il silenzioso monarca della poesia italiana, l’abbà, il pudico padre. Esordio tardivo – nel 1976, per Guanda, con L’aspetto occidentale del vestito –, pochi libri disseminati in anni (come dimostra un ‘Oscar’ Mondadori del 2007, ormai un millennio fa), con la costanza di un miniatore, di uno che intaglia la propria minima epopea privata con coltello a serramanico. Poeta di aurorale nitidezza, Giampiero Neri ama leggere i poeti distanti, i difformi, i diversi, Dino Campana e Melville, Beppe Fenoglio e Rimbaud, Milarepa, Li Po, a cui affratella i libri di Carl Schmitt e i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre.

Negli ultimi anni, quasi in una corsa tra i tratturi della memoria, Giampiero Neri ha pubblicato moltissimo: solo quest’anno, per dire, sono usciti per Garzanti l’Antologia personale e Un difficile viaggio per le Edizioni Ares, che vengono dopo Da un paese vicino (2020) e Piazza Libia (2021). Come estremo lembo di questa instancabile ispirazione, è appena uscito Un insegnante di provincia (Edizioni Ares, 2022), che è poi il romanzo, in sessantasette ‘lastre’ poetiche – o poemi in prosa – di “Luigi Fumagalli, nato ad Arosio, professore di lettere”, già protagonista, dieci anni fa, di uno dei libri più amati di Neri, Il professor Fumagalli e altre figure.  

Credo sia un fatto unico nella poesia, questo rivangare, con pazienza sempre più precisa, una veglia amanuense, la stessa memoria. È come dipingere un’Annunciazione partendo dal mobilio, anzi: dal vento. Le note sul margine della vita, in effetti, non sono consolatorie, assolutorie, nostalgiche: infine, per infezione verbale, divorano quella stessa vita, sono vita. La poesia – magia pericolosa – non evoca né invoca, bensì annoda e scioglie; non costruisce specchi, li sfonda.

XV

Un libro di letteratura italiana che aveva adottato, di una casa editrice secondaria, era pieno di sottolineature e di suoi appunti.

Fra gli altri, uno in prima pagina diceva: “Gli occhi sono al servizio dell’anima e l’anima non deve essere un muro”.

Mentre parlo con Neri, alterno la lettura di qualche poesia tratta da Un insegnante di provincia.

Insomma, chi è questo fatidico Fumagalli?

Era una persona davvero eccezionale. Sono consapevole che questo aggettivo si usa ormai per definire persone che non lo meriterebbero, ma il professor Fumagalli era veramente un uomo fuori dalla norma. Nell’estate del 1944, per un anno, fino alla fine della guerra, fu messo in prigione, con l’accusa di appartenere a qualche gruppo partigiano. La detenzione era gravosa per l’eventualità di ritorsioni o atti terroristici. Nessuno dei suoi devoti, tra cui figuravo anche io, il più fedele, era stato interpellato per una possibile grazia.

Cosa la affascinava del professor Fumagalli, uno, scrive, che “aspirava al tutto”?

Il suo sorriso. La disponibilità a prenderci sul serio. Eravamo dei ragazzini, eppure ci parlava come fossimo stati suoi coetanei. Poteva assumere un’aria seria, ma generalmente, verso di noi, pur dalla cattedra, pareva sempre cominciare una conversazione più che una lezione. Ci metteva a nostro agio. In effetti, erano tempi eroici. Una professoressa, un giorno, ci disse, quasi sfidandoci, “finora abbiamo fissato uno specchio, ora impariamo a guardare dalla finestra”. Intendeva che dallo studio bisognava passare alla vita.

XXXV

Era andato a Roma per sottoporre a De Sica il suo vecchio progetto, sul ragazzo che allevava lumache.

Il regista l’aveva ascoltato, sembrava anche interessato, ma poi il progetto era andato in fumo.

In una delle sue poesie aforistiche scrive che la legge del professor Fumagalli era questa: “Il tradimento è alla base della vita”…

È così. Il professor Fumagalli pensava che i figli tradiscono i padri come i padri hanno a loro volta tradito i propri genitori. Credeva che la vita va avanti perché la generazione attuale critica radicalmente quella che l’ha preceduta.

Anche lei crede alla legge del tradimento?

No. Io non sono per il distruggere, ma per il conservare. Fosse per me, ci sarebbe ancora Caio Giulio Cesare. Sarà d’accordo anche lei nel considerare una personalità come Cesare migliore di un Vittorio Emanuele III, per dire…

Cosa c’è allora alla base della legge della vita?

La conservazione, mi ripeto. Tutti siamo attaccati alla vita, nonostante i guai, inevitabili. Soltanto qualche raro personaggio eroico rinuncia alla vita, la disprezza, si allontana da essa, si uccide. C’è come un attaccamento istintivo, animale alla vita. Benché la ragione constati che la vita è una fregatura, la ragione non dice di no alla vita. Viviamo, appunto, in questa contraddizione.

LIII

Il problema del male rimaneva insoluto, ma Fumagalli riteneva di averlo avvicinato più che in passato.

Il male era la controfigura del bene, in qualche modo la sua ombra.

Non era possibile disgiungerlo dal suo versante positivo, erano fratelli, figli dello stesso padre.

Mi dica cos’è la poesia.

Come forma in sé, ho abbandonato la poesia. Cerco la poesia nella prosa. La prosa, quando è curata, figlia di buone letture, custodisce la poesia.

Mi dica cosa legge, allora.

Una storia del jazz che mi ricorda quando io e mio fratello ascoltavamo musicisti come Eddie Lang.

Si dice che suo fratello, Giuseppe Pontiggia, noto scrittore da non so quanti premi, tra Strega, Campiello etc., le facesse leggere e correggere i suoi libri…

Sa, ero il fratello più grande… si fidava di me perché sapeva che non criticavo per demolire ma per migliorare. La morte di nostro padre, nel 1943, per mano dei partigiani, d’altronde, ci aveva consacrato a un’amicizia indefettibile.

Il suo libro è anche un omaggio alla provincia italiana: esiste ancora?

La provincia ha in sé qualcosa di arretrato e insieme di libero, che allarga il cuore. Qui in città si ha l’impressione di essere un po’ tutti allineati; in provincia no: se parli con qualcuno, anche per caso, per strada, riconosci la forza delle sue idee. Oggi qualcosa si è inquinato, perché il bombardamento massiccio dell’informazione uniforme è arrivato anche lì. Però la sostanza è ancora quella: l’isola felice, se esiste, è in provincia.

LXI

Ambizioso com’era, ostentava noncuranza nei confronti dell’eventuale pubblicazione di un suo libro.

“È come farsi fotografare in mutande”, diceva.

Cosa la stupisce ancora?

Lo spettacolo della vita. Perché ci affascina così tanto guardare gli animali? La nostra vita è sempre qualcosa di criptico, mentre gli animali sono quello che sono: non fanno teatro.

Le interessa lo spettacolo dell’Occidente?

Le rispondo con un motto della tradizione cinese, che suona come una maledizione: “Possa tu vivere in tempi interessanti”. La civiltà antica non dimentica che il bello si presenta sempre insieme al suo opposto, l’orrore. Coincidentia oppositorum, lo diceva anche il Cusano. E non voglio dire di più.

Quali altre “figure” ha voglia di sondare con la poesia?

Non saprei. Ho alcuni appunti, ma è chiaro che le altre figure della mia memoria hanno avuto un ruolo meno rilevante del professor Fumagalli. Vede, il professor Fumagalli è stato il primo uomo che mi ha rivolto la parola, che non mi ha trattato come un bambino, che non mi zittiva con una caramella. Quella era l’epoca in cui da noi, in Brianza, non c’era l’abitudine di parlare tra padri e figli: mio padre non mi rivolgeva quasi mai la parola. Per questo il professor Fumagalli è stato tanto decisivo per la mia crescita. Coltivava l’amore per il paradosso e me lo ha trasmesso.

LXVI

E così, anche il professor Fumagalli se n’era andato.

Proprio quando si rianimava con la sua voglia di raccontare, con la sua dipendenza dalla bellezza.

Il camionista che passava di notte sotto le sue finestre l’avrebbe saputo. Era spenta la luce nella stanza e lui non avrebbe acceso i suoi fari.

Anche lui era rimasto senza un amico.

Che rapporto ha con il sacro?

Direi, bene… Il sacro, ai miei occhi, è che tutto ciò che è grandioso è anche umile. Ad esempio, il fatto che Gesù non abbia parlato ai sapienti ma ai poveri di spirito, ai pescatori, alla gente comune. Il sacro è consacrare un cucuzzolo come tanti alla memoria dei caduti della Prima guerra. Quanti tra quei soldati hanno disertato… eppure… la morte rende sacro anche il disertore.

Dove trova la poesia, oggi?

Nella semplicità classica. Non certo nella ricercatezza del dire. In quella semplicità prossima alla verità.

Lei prega?

Mi piace pregare di sera, con quella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, “Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum, adveniat regnum tuum…”. Mi pare bellissima.

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