Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi.
(Luca, 16,26)
Il primo ad intervenire sull’antologia Poeti italiani nati negli anni ’60 – Letteratura come condizione curata da Francesco Napoli (Internopoesia, 2024) potrebbe essere stato Roberto Galaverni sul “Corriere della Sera” del 12 maggio 2024: l’articolo è uscito contemporaneamente quasi alla presentazione avvenuta al Salone del Libro di Torino dove sul palco, assieme al curatore, stavano Antonio Riccardi e Stefano Dal Bianco col cagnolino Tito (coautore, a detta dei presenti, del suo ultimo libro di poesia, che campeggiava sul tavolino assieme all’antologia). Galaverni propone alcune riflessioni lucide e oggettive, forte di un’antica conoscenza della Generazione Sessanta poiché già nel 1996, cioè quando la generazione cominciava a fiorire, studiava e antologizzava alcuni di questi poeti. Sul “Corriere” afferma: “Il dato che nella riflessione di Napoli emerge con più evidenza, è proprio la latitanza di tratti forti accomunati sotto l’aspetto generazionale. Di conseguenza si potrebbe perfino pensare alla Generazione Sessanta, come qui viene chiamata, come una generazione mancata… (espressione, questa, che Galaverni riprende da una domanda posta da Gian Mario Villalta nel volume di saggi Il respiro e lo sguardo)”. Più avanti declina: “Ecco allora il senso di vuoto (parola, questa, che torna più volte)… l’isolamento e la solitudine, il ritrovarsi in piccolissimi gruppi e sodalizi che si sono mossi gli uni all’insaputa degli altri… le rivistine, la piccola editoria, la difficoltà di trovare maestri…”. Con pronto spirito critico, la questione è posta.
Si tratta di vedere se l’antologia di Francesco Napoli conferma effettivamente queste dichiarazioni. Intanto la campionatura è vasta: trenta poeti. A quelli nati nel decennio si aggiungono Antonella Anedda, Mario Benedetti, Giuseppe Grattacaso e Gian Mario Villalta, e giustamente perché il loro percorso e la loro formazione li avvicinano ai poeti successivi più che ai precedenti, pur essendo essi nati una manciata di anni prima del decennio. Il lavoro di Napoli è documentatissimo, “di una chiarezza e una sistematicità che chiamerei aristotelica”, attesta Giuseppe Conte in un’altra recensione pubblicata sul “Giornale” il 10 giugno. Per Napoli la data di svolta è il 1975, l’anno della morte di Pasolini e dell’antologia Il pubblico della poesia e, in genere, la metà degli anni Settanta, con l’avvento di tutta un’altra generazione (De Angelis, Cucchi, Conte, Magrelli, per citare solo i più influenti) considerata quella dei fratelli maggiori. Ma assai più importanti sono, da una parte, le pubblicazioni di Montale del dopo Satura, soprattutto i diari, determinante svolta stilistica della storia della poesia italiana, dall’altra il periodo culminante ma anche lo sfiatamento della neoavanguardia e dell’“enigmistica” della poesia sperimentalista (la definizione è di Milo De Angelis). “I nati negli anni Sessanta trovarono questo paesaggio aperto, in fermento, disordinato ma vitale” (ancora Giuseppe Conte).
Sono molte le caratteristiche generazionali che Napoli mette in campo: le riviste letterarie ad esempio, palestre di stile e spazio di incontro coi maestri, delle quali questa generazione è stata l’ultima fautrice, eccetto poche eccezioni, poiché dopo di essa il dibattito critico e le primizie d’autore sono passate sulla rete, come Napoli non omette di ricordare. La parte principale del volume è quella critico-antologica divisa per sezioni dedicate a città o aree geografiche (secondo l’ispirazione ricevuta da Dionisotti) e intitolate: “Milano non è più sola”, “Triveneto”, “Poesia Alma Mater” (Emilia Romagna), “Parlar tosco”, “Effetto residenza” (Marche), “Roma bruciano ancora le braci”, “Voci più lontane dai centri” e non dimentica la resilienza del dialetto (Edoardo Zuccato) e dello sperimentare (Aldo Nove). Per ogni sezione Napoli racconta la strada percorsa dalla poesia, i classici e i maestri, le esperienze precedenti, gli stili con cui gli esponenti della Generazione Sessanta hanno affinato la loro capacità creativa, fedele com’è alla scelta di ricostruzione storica attraverso una ragguardevole mole di documentazione. Torneremo su questa suddivisione in capitoli.
Rimane aperta la questione se questi poeti siano una generazione “mancata”, una generazione nata sul “vuoto”, su una faglia storica spaesante, soprattutto la fine del bipolarismo mondiale dovuta al crollo del muro di Berlino e l’atomizzazione delle esperienze, inghiottite dall’avvento della Rete nel XXI secolo. Ci torna in aiuto ancora Giuseppe Conte, che ha vissuto quegli anni da protagonista non solo come poeta, ma anche come curatore della collana di poesia della Guanda; egli chiama in causa, come fondativo, il dispositivo editoriale:
“L’asse dominante Milano-Firenze-Roma tende a sfaldarsi, e a dare spazio a realtà regionali più diffuse. Naturalmente Milano rimane il centro della grande editoria di poesia, dallo Specchio di Mondadori alle collane di Garzanti e di Guanda. Vi era vescovo Giovanni Raboni, come a Roma era vescovo Enzo Siciliano”.
Da una parte Conte esprime dunque il suo endorsement al metodo “federale” dell’antologia di Napoli, dall’altro ci ricorda che il criterio estetico canonizzante della poesia italiana coincide, fin da allora, con quello editoriale.
Un ulteriore aiuto ci viene da una terza recensione, quella apparsa su “Alias”, inserto de “il manifesto”, redatta da tal Federica Barboni. L’articolo parte bene, perché mette a fuoco un punto importante del lavoro di Napoli, il quale ci riferisce che un’intenzione comune alla Generazione Sessanta è arginare lo sgretolamento della tradizione del Novecento. Poi il testo diventa una specie di gaffe, che sembra indicare una lettura dell’antologia limitata all’indice, e neanche tutto. Una gaffe che ritorna utilissima per i nomi che fa: Riccardi, Villalta, Calandrone, Nove, Anedda, Alziati, Dal Bianco (e il cane Tito), Deidier. Inserisce anche Giovenale, chissà perché, non essendo presente nell’antologia. Ma sta proprio qui la gaffe: l’articolista non ci sta parlando dell’antologia, ma di un canone degli anni Sessanta che esiste già, riportato evidentemente “per sentito dire”.
Per averne la prova si possono incrociare i nomi fatti dalla signora del “manifesto” con quelli di altri lavori, chiamati in causa da Napoli. L’antologia di Galaverni, già citata, reca dei Sessanta questi: Rondoni, Villalta, Anedda, Gibellini, Riccardi. Della mondadoriana Poeti italiani del secondo Novecento di Cucchi e Giovanardi, Napoli ricorda che si chiude con Anedda, Riccardi, Rondoni, Dal Bianco, Benedetti. Anche il volume critico Il respiro e lo sguardo di Villalta riporta una scelta, ponendo “molto vicini a sé” Anedda, Benedetti, Dal Bianco, Deidier, Riccardi e Rondoni (“la mia generazione”).
A queste attestazioni si può aggiungere uno strumento importante e longevo, i “Quaderni di poesia italiana contemporanea” di Franco Buffoni, arrivati al sedicesimo, che rappresentano una fucina di scouting e valorizzazione della nuova poesia. Limitandoci ai primi due, cioè al ’91 e al ’92, ritroviamo Dal Bianco, Riccardi, Maurizio Marotta (notevole poeta prematuramente scomparso di cui Deidier ha curato proprio quest’anno l’edizione di tutta l’opera), Roberto Deidier e Pasquale Di Palmo. L’attenzione e l’apertura di Buffoni rendono interessante questo strumento proprio per la Generazione Sessanta di Napoli, della quale ha pubblicato negli anni molti nomi, tra cui i romani Paolo Febbraro e Nicola Bultrini. Infine allora, se due indizi fanno una prova, qui di indizi ce n’è a sufficienza per smentire in parte la definizione della Generazione come frantumata, mancata, atomizzata. In definitiva i Sessanta formano due generazioni: se vogliamo utilizzare ancora la fruttuosa recensione di Galaverni, potremmo chiamarli per semplicità (rendendoli nomi propri) gli Uni e gli Altri.
Gli Uni sono assunti nelle collane maggiori, e tutti prima o poi sono passati dallo Specchio Mondadori, il che aggiunge ai “vescovi” di Giuseppe Conte un terzo riferimento, cioè Maurizio Cucchi, con un deciso spostamento dell’ago della bilancia verso Milano. Direi che l’asse Raboni-Cucchi è stato determinante della costituzione del canone di questa generazione, che resiste prefissato e solido ormai da decenni. Gli Uni compresi nell’antologia dunque: Anedda, Benedetti, Dal Bianco, Deidier, Riccardi, Rondoni e Villalta. Non sono neppure vere la dispersione, la disorganizzazione, l’assenza di corporativismo (Galaverni); il dialogo tra questi autori è continuo, lo studio e la promozione interna al gruppo anche, come il riconoscimento reciproco di studi, pubblicazioni, inviti, festival. In altri tempi vi si sarebbe riconosciuto addirittura un movimento, una costellazione.
Esattamente al contrario gli Altri, ben lontani dal formare a loro volta una costellazione, sono al massimo, una nebulosa mancando tutte le caratteristiche di coesione tra loro.
Ma le considerazioni di ordine editoriale e sociologiche sono un aiuto limitato per definire una direzione. Sono le poetiche, gli stili, le visioni del mondo che importano, è in questi spazi che si svela l’essenza di una generazione. Ritorna di nuovo utile la direzione, stilistica stavolta, impressa dal filone raboniano che inizia da Le case della Vetra (ricordando però che Raboni è anche autore di alcuni dei più straordinari sonetti del Novecento) e da tutto il percorso di Cucchi, riferimento essenziale per i poeti canonici dei Sessanta (gli Uni). Francesco Napoli, partendo dalla spinta al distacco “dall’ideologismo culturale neoavanguardista” di questi autori, dice che
“si avvertiva di dover come restaurare una lingua per la poesia. Una ricerca che andava in direzione di una unione del dire e del sentire: insomma, avvicinare la poesia alla lingua reale, lasciando tra queste uno scarto minimo, in un’unità tra parola ed essere”.
È così delineata la decisione fondamentale della nuova poesia, che utilizza la prosa come miniera di possibilità inedite. Napoli puntualizza assai bene: “Questa generazione ha particolarmente battuto su una continua frizione tra prosa e poesia, mostrando una particolare attenzione alla prima, come possibilità per la seconda di guadagnarsi altri spazi […]. In altro modo, una prosa che fosse un ampio bacino in grado di consentire «al discorso poetico di ampliare i confini del proprio raggio d’espressione» (Roberto Galaverni)”.
I migliori esiti di questa direzione confermano l’affermazione critica. Antonio Riccardi, nella fedeltà agli esordi, unisce a una lucidità di ricostruzione di una storia e della Storia una nettezza di dettato che gli consente esiti di grande vibrazione poetica (“In questo mattino d’aria/ qui dove l’orlo è l’erba// felice, m’impronta/ il salario di una colpa…”); Gian Mario Villalta, partendo da Celan e Zanzotto, mette a frutto una lingua che, come Mario Benedetti, sorge su un confine (si ricordi il dialetto di alcune sue prove iniziali) per giungere a uno stile duttile che gli consente di indagare sia la penombra degli interni domestici come i grandi tempi della terra e della civiltà, conservando, come gli altri, una visuale immanente; da Stefano Dal Bianco si possono attingere alcuni paradigmi, come la raccolta mondadoriana Ritorno a Planaval che perfino nella singola pagina rappresentava lo scioglimento dei versi nella prosa, e poi la rivista “Scarto minimo” che, come abbiamo visto, è la più rappresentativa per lo stesso Napoli e potrebbe contenere più di una indicazione: la poesia è scarto minimo rispetto alla prosa, come rispetto alla lingua comune, e, storicamente, alla lingua da enigmisti degli sperimentalisti (in questo caso lo scarto minimo è storico, ma stilisticamente si tratta di un abisso); persino Antonella Anedda, dopo i primi libri in cui riecheggia addirittura l’assoluto cvetaeviano, piega lo stile pian piano alla prosa, soprattutto a partire dalla raccolta Dal balcone del corpo, significativamente mondadoriana. Già il titolo di alcuni recenti lavori saggistici e antologici sottolinea la vittoria del dispositivo poetico-prosastico: Dopo la lirica, Dopo la poesia…
Dal gruppo canonico si stacca con maggior chiarezza Davide Rondoni: l’apprendistato è fatto sotto tutt’altri maestri, Luzi e Testori innanzitutto: sulla poesia di quest’ultimo (del quale è curatore di un Oscar Mondadori) ha accordato diverse poesie giovanili, per poi aderire a un canto che non attinge quasi mai alla prosa, tanto che i suoi testi migliori sono autentiche ballate. Lontano è anche dall’immanenza dei colleghi. Ma nel suo stile echeggia anche un elemento che ci riporta alle zone poetiche dell’antologia, la robustezza del dato, la concretezza tipica della tradizione romagnola e, forse, adriatica in genere.
Nella già ricordata presentazione dell’antologia al Salone di Torino, Dal Bianco ha posto a Napoli una domanda, velata di perplessità, sull’opportunità della scelta di dividere i poeti secondo l’appartenenza regionale. Napoli ha ribadito la sua convinzione, aggiungendo però che in un’immaginaria estensione (che non auspicava) a un successivo volume sulla generazione Settanta, non avrebbe replicato quella suddivisione. La lingua italiana è meravigliosamente diatopica, si sa: ogni regione, ogni provincia, ogni comune ha la sua pronuncia, tutte comprensibili da tutti e tutte distinguibili; nulla impedisce di ritenere che anche la poesia espressa dalla nostra lingua sia altrettanto diatopica: la varietà regionale della poesia è una vera ricchezza. Va notato che, con le dovute distinzioni, la lingua del primo gruppo di poeti (gli Uni) è vicina a un italiano standard, con pochissime increspature particolari. Si tratta di vedere se il criterio di Napoli serva a descrivere e unire stilisticamente ma pure diatopicamente la nebulosa degli Altri. Ma l’impressione è che in questo campo fallisca.
Facendo qualche carotaggio (termine caro al curatore) salta subito agli occhi. Del capitolo dedicato alle Marche, ad esempio, fanno parte Salvatore Ritrovato e Alessandro Moscè. Il primo è il poeta dell’a-topia, quasi dell’esilio dell’io, che si concretizza drammaticamente su una linea, quella adriatica, che va dal Gargano al Veneto a Urbino, i suoi luoghi; un dramma dell’appartenenza agli affetti e alla terra a cui l’autore risponde con un forte radicamento stilistico nella filiera robusta della poesia del Novecento che ha come centro Satura di Montale, cioè l’anello di congiunzione tra l’altezza ermetica e lo sbriciolamento della lirica della sua ultima epoca, vero punto di partenza della poesia-prosa, della poesia-diario di cui s’è detto; Ritrovato si ferma prima, mantenendo sapienza del verso e postura lirica. Moscè al contrario parte da un forte radicamento nella terra, nei vicoli di Fabriano, e rimane fedele alla colonna dorsale della poesia centroitalica che si muove dalla Romagna di Tonino Guerra e Simoncelli ai poeti essenziali della Roma novecentesca, di cui è esperto. Poco in comune tra i due.
Così accade tra i poeti convocati sotto l’ombra delle torri bolognesi nella sezione “Alma mater”. Sissa è un padano di robusta voce e misura, un mantovano adottato in Emilia che ha in Giovanni Giudici un mentore non solo stilistico ma persino etico, mentre il bertolucciano e audeniano Gibellini esprime il suo argomentare e il suo canto calmo che si distende come un’altra Padania, quella emiliana, ed entrambi non hanno molto da spartire col già citato corregionale Rondoni (ammesso e non concesso che Emilia e Romagna siano la stessa regione). A occidente Morasso è inserito tra le “voci più lontane dai centri”, e qui ci si consente una piccolissima contestazione a Napoli con l’appoggio di Mario Luzi che definisce la Genova di Sbarbaro, Montale e Caproni una delle nostre capitali di poesia; certo Morasso è sicuramente lontano dalla poesia-prosa, il suo canto innestato di ragione viene da lontano, da Novalis, Hölderlin, Yeats e Rilke, e da tutto un filone europeo da cui egli ha tratto frutti unici: solo lui e forse altri due o tre in Italia conoscono la vertiginosa poesia di Patrice de la Tour du Pin o Christine Lavant, che quasi nessun altro ha sentito nominare.
Dunque il criterio con cui Napoli ha suddiviso l’antologia serve a formarci una mappa topologica ma non stilistica, né poetica. La nebulosa degli Altri rimane tale, senza speranza, così come rari e senza speranza sono i rapporti tra i due gruppi della Generazione. Ancor di più, quindi, risulta miracolosa l’operazione realizzata in questa opera, contrassegnata da libertà critica, profondità documentaria, ricchezza di spunti e riflessioni, larghezza di racconto.
Gianfranco Lauretano
*In copertina: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1965