16 Novembre 2022

“Esistiamo da prima di Dio… siamo qui, ancora”. René Char, il poeta in lotta

Forse perché l’Adriatico è tornato Atlantico: impasto verde, bitume di mondi primi, onda piene di vene bianche, angelo che si trasforma in capodoglio.

Le ruspe hanno innalzato dune che non riparano la città dei vivi dal furore del mare: consegnano questi luoghi, sfitti, sfruttati e abbandonati, all’eremitaggio.

Spesso le acque rilasciano tronchi, la cruna del mare: virtù di zattere iliadiche, legno crocefisso che sa di Oriente.

A novembre il mare non ha più guinzagli, museruole; non è più al lazo della signorina estate. La stagione è tornata primordiale, attracca le sue baleniere e gli uccelli tornano orfici.

Dunque, è da qui che torno a René Char, il poeta in lotta, i cui versi costituiscono un codice, la presa d’atto, coscritti alla crociata d’erba.

Non so perché René Char – poeta, come dire, di culto, un classico, barometro tra le gore del futuro – non abbia degno ricovero in Italia. È pubblicato con mestizia, per dovere e per dolo, stallatico accademico; tanto ancora ci sarebbe da dire e da tradurre di questo poeta che fu incendio.

Forse perché la sua poesia implica una sovversione dei sensi e dei sentieri lirici. Non c’è da capire ma da agire – la grande poesia va assunta, va sussurrata tra sussulti perché del mondo dice l’altro; governa il rito.

Ogni rito chiede il sacrificio – che sia del lettore, della ragionevolezza, del poeta. Un morto a pastura del verbo.

Preferiamo – chissà – la parola che accarezza il cuore: non quella che lo strappa, dandolo in cena a Cerbero.

René Char disseminato nel lebbrosario della poesia italiana. René Char tradotto da Giorgio Caproni – le Poesie, non meravigliose, edite da Einaudi, 2018. René Char memoriale del verbo, planimetria di tiare, per Vittorio Sereni: Einaudi pubblica ancora Fogli d’Ipnos, libro miliare e marziale scaturito dalla Seconda guerra (il Capitano Alexandre, protettore di uomini, specie di Marco Aurelio a Céreste). Nessuno pubblica più – passò per gli Oscar Mondadori, vent’anni fa – Ritorno Sopramonte, florilegio di vertiginosa densità. “Meno che mai si presenta come operazione letteraria di qualunque tipo. Sempre più tende a rompere i propri termini formali riconoscibili e a farsi invece sede di ansietà sulle probabilità superstiti, estremamente inerte, di un futuro degli uomini”, scrive Vittorio Sereni negli Appunti del traduttore.  

Ecco: poesia per superstiti. Nessun ornamento – un’arcadia di famelici. Prima di gettarsi a capofitto, eseguire i cruciali della cura.

Qui si traduce un tratto di Chants de la Balandrane (Gallimard, 1977), in particolare alcuni brani da Cruels assortiments. Qualcosa di barbarico brunisce questi versi: Char non indulge nella nostalgia, impila parole per mondi nuovi, civiltà sopravvissute e sopravvenienti. A noi forse va bene questo mondo, che è tutt’altro, una truffa.

Nel 1993 Stefano Agosti ha tradotto Canti della Balandrane per Mondadori – il libro è irreperibile, irriferibile l’irritata vacuità dell’editoria odierna. Balandran, dice Char, ha a che fare con il “mantello da campagna, mantello da pioggia, mantellina da pastore di stoffa rude”; con la “bascula di un pozzo di campagna”; con un piatto “per pesare oggetti molto voluminosi”; con “il batacchio della campana” e i “pozzi abbandonati”. Dunque: un mondo alpestre, un tempo all’aperto, dove è appropriata l’iniziazione, il coraggio, l’insidia della costanza, il cielo blu.

Poesia, si crede, ragionata al fuoco, senza lacca. Piantagione di braci.

Nel 1956, inseguendo le tracce di Rimbaud:

“Rimbaud scomparendo situa indifferentemente la sua età dell’oro nel passato e nel futuro. Lui non si colloca. Non fa sorgere un altro tempo, in forma di nostalgia o di desiderio, se non per abbatterlo all’istante e ritornare al presente, questo bersaglio al centro sempre affamato di proiettili, questo porto naturale di tutte le partenze. Ma dal di qua all’aldilà lo scatto è straordinario. Rimbaud ce ne offre il rendiconto… L’urgenza della sua parola, la sua estensione, sposano e coprono una superficie che il verbo prima di lui non aveva mai raggiunto né occupato. In poesia si abita solo il luogo che si abbandona, si crea solo l’opera da cui ci si distacca, si ottiene la durata solo distruggendo il tempo. Ma tutto quel che si ottiene attraverso la rottura, il distacco e la negazione, lo si ottiene unicamente per altri. La prigione si richiude subito sull’evaso. Il donatore di libertà è libero solo negli altri. Il poeta non gode che della libertà degli altri”.

Non vuole essere inattaccabile, ma attaccato, sotto scacco, Char. La poesia: tra cenacolo e geniere.

Così, leggerne al mare, di Char – non perché qualcuno arrivi o sul principio di una partenza, nel perpetuo di una veglia indiscussa.

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Serie brutale

Nessuno può essere intercettato davanti alla luce, all’ombra delle nostre parole vitali.

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L’esistenza ci appartiene per una breve prova. Davanti all’incendio divorante, onnivoro, piantiamo chiodi nello spazio. Corretta ascesi.

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Un ditale della nostra vita brinata per l’indice della bianca notte che spinge l’ago sulla rete del giorno.

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Morte, davanti a te sarò il Tempo in persona, il Tempo senza difetti. Ma tu mi guarderai con i soli occhi della vita. E non riuscirai a vedermi.

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– Ti senti abbastanza robusto, ben provvisto del fiato diagonale, da poter percorrere il tragitto che ti ha assegnato nelle sue steppe senza eguali?

– Sì, ne sono capace, mi sono già rivelato sufficientemente silenzioso, pronto alla lotta.

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Esistiamo da prima di Dio, il pieno di creste. Siamo qui, ancora, dopo di lui. Mentre Dio ostentava la sua indolenza, nessun individuo sulla terra; ma dèi che il padre malizioso lasciò morendo in un mormorio, presso la Bestia innominabile. Quei seguaci decrebbero fino a svanire. A fior di terra. Riapparimmo, scoprivamo la loro esistenza dalle tracce, alterate a tratti – per inghiottirli.

Questa storia è esposta al male, ma è anche una regalia.

Uomo di zolfo! Uomo dell’era del tralcio!

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La scrittura: per alcuni è distrazione orribile. Per noi: convolvolo di sangue munto dalla roccia, convolvolo elevato sopra la giuntura di una vita infine risolta, convolvolo non invocato come prova.

La parola scritta si installa nell’avvento dei giorni numerati, sull’ardesia dell’azzardo. Non testimonia nulla senza privazione, ma risposte. Tra due vapori umidificanti.

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Resterò nel mio verbo, in prossimità dei bacini dove il secolo riassesta le chiglie. Quanto all’uomo di ceneri, modello di vanità, che vada a disunirsi altrove.

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La mia memoria è una piaga aperta dove i fatti passati si rifiutano di apparire al presente. Se vi sono costretti, sanguinano e una gatta non riconoscerebbe più quei piccoli sanguinanti.

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Dai flutti dove ci trovavamo, abbiamo lanciato ponti, fondato isole dove non saremmo mai stati ospiti né abitanti. Questo è il destino dei poeti nell’esasperazione, operai qualificati nella profezia e nei preparativi.

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Il sole nello spazio non vive meglio di noi uomini su questa terra, per quanto prolissa e profana. Blasone decaduto, egli è solo e si nutre dei propri escrementi; solo come è solo l’uomo, nemico primordiale, le unghie nel pane dei nemici.   

René Char

Gruppo MAGOG