12 Ottobre 2023

“Nella fame diventammo uomini”. James Agee, il poeta a capofitto

Nel 1958 il “Pulitzer Prize for Fiction” fu assegnato per la prima volta “postumo”. Nel romanzo, A Death in the Family, l’autore prefigurava la propria morte e il riverbero – di cristalli infranti che ti si ficcano fin nell’anima delle dita – che la morte del padre ha in una famiglia. Il libro parlava pure di un infarto. James Agee, l’autore di quel romanzo, era morto così, per un attacco di cuore: era in taxi, a New York, 16 maggio del 1955, stava andando dal medico. A vederlo – taurino, spavaldo, bello come James Dean (che sarebbe morto lo stesso anno, qualche mese dopo) – si direbbe che il cuore di James Agee fosse grande quanto una stanza nuziale. Beveva. Tanto. Fumava. Troppo. Aveva avuto tre mogli, lasciava quattro figli. Alma, la seconda moglie, se ne era andata in Messico, anni prima, insieme a Bodo Uhse, scrittore e politico tedesco, comunista.

Agee aveva cominciato a scrivere A Death in the Family nel 1948, terminando il manoscritto in una manciata di anni. Tutti conoscevano Agee, più che altro, per il cinema: grazie a La regina d’Africa (1951), costruito insieme a John Huston, aveva ottenuto una nomination agli Oscar come sceneggiatore; Humphrey Bogart – che vinse la statuetta come “miglior attore” – si rivelò un amico e un formidabile alleato di bevute. Il suo capolavoro, tuttavia, è La morte corre sul fiume, cupo thriller morale tratto da un dimenticabile romanzo di Davis Grubb, girato da Charles Laughton in mefistofelico bianco-e-nero, con un barbarico, micidiale, onnipossente Robert Mitchum. Il film uscì il 26 luglio del 1955: sommerso dalle critiche, si rivelò un flop – decenni dopo fu riabilitato come uno degli assoluti della cinematografia americana. Agee non riuscì a vederlo; il suo corpo fu seppellito nella proprietà di famiglia, presso una fattoria, a Hillsdale.

A Death in the Family ebbe una certa eco anche in Italia: tradotto da Garzanti nel 1960 con un titolo fuorviante (Il mito del padre), fu recuperato, nella stessa traduzione di Lucia P. Rodocanachi, prima da Editori riuniti (1982), poi da e/o (nel 2003), infine da il Saggiatore (2015), come Una morte in famiglia. Nel 1963 fu assegnato un Pulitzer postumo anche a William Faulkner – per The Reivers – al cui lignaggio appartiene l’opera di James Agee. Poco considerato in Italia, è lui, in verità, nato a Knoxville, Tennessee, il 27 novembre del 1909, uno dei lari di Cormac McCarthy. Salvatore Rosati, nel 1961, scrisse che James Agee “disperse il suo autentico ingegno letterario nel giornalismo… e nel cinematografo”. Forse è vero, ma è anche vero che la dispersione – seminare incuranti del frutto – è parte del genio di un artista che ritiene inautentica la fama. James Agee avrebbe voluto fare un film sulla vita di Gauguin, aveva già la sceneggiatura pronta. Si sentiva simile a Gauguin.

Come altri autori, analoghi ma di altra generazione – Faulkner, Hemingway – anche James Agee nasce come poeta: nel 1934 Permit Me Voyage esce sotto gli auspici di Archibald MacLeish per la Yale Series of Younger Poets, edizione di pregio che, tra i tanti, ha celebrato gli esordi di Adrienne Rich, John Ashbery, Robert Hass. Per James Agee, va detto, la poesia non è accessoria, alcova necessaria per impratichirsi con il linguaggio: egli – procuratevi i Collected Poems raccolti nel 1968 da Robert Fitzgerald (tra l’altro, esecutore letterario di Flannery O’Connor), e i Selected Poems radunati nel 2008 da Andrew Hudgins per l’American Poets Project – è sostanzialmente poeta e i suoi libri in prosa sono l’aurea sintesi di una poetica condotta agli estremi. L’immane reportage nel Sud degli Stati Uniti, Let Us Now Praise Famous Men, compiuto insieme al fotografo Walker Evans nel 1941 – passato in Italia come Sia lode ora a uomini di fama – segue i crismi del poema, sotto lo spettro melvilliano. Il romanzo più bello, The Morning Watch, del 1951 – tradotto come La veglia all’alba da Giorgio Monicelli per Sugar nel 1959, poi per Mondadori nel 1966, infine, nella stessa traduzione, ripreso da SE nel 2000 e da il Saggiatore nel 2016 –, ha la verticalità di un sonetto metafisico. Si racconta, in un centinaio di pagine, la corsa di un ragazzino, Richard – “dodicenne, grosso modo io, sulla soglia della pubertà e al picco di una ipersensibile introversione, isolato, pieno di fervore morale”, scrive Agee a John Huston – dal collegio in cui è costretto al lago. Sono le cinque del mattino del Venerdì Santo del 1923; la storia è dettata con linguaggio biblico e fiabesco e intromissione di monologo interiore; c’è l’uccisione di un serpente, l’analitica ode della locusta, sul palmo del ragazzo:

“Siluriano, Mesozoico, Protozoico, Giurassico, tutto il pianeta in una sola palude informe e fumante, Corone, Troni, Dominazioni, Principati, Archeozoico, attraverso tutti gli ordini e i regni fino al culmine centrale, chiusi nella corazza radiosamente crudele di una pazienza immortale. Ere ed Angeli marciavano risuonando nella sua anima”.

Che la locusta sia bestia che valica l’Apocalisse è sigillo necessario per capire il libro, incessante riflessione nei precordi della morte del Figlio, della redenzione per sangue. James Agee era ossessionato dalla morte; il 15 ottobre del 1945, su “Time”, aveva scritto che lo scoppio della bomba atomica era un evento biblico in grado di cambiare per sempre la storia del pianeta:

“L’umanità in generale è ancora largamente inconsapevole della situazione in cui si è venuta a trovare. Si parla molto di come rinchiudere il nuovo mostro in una gabbia indistruttibile – ma pochi ammettono che il vero mostro è la razza umana”.   

Nelle poesie, i grandi temi di Agee, che sono i grandi temi della grande poesia – la morte, il sesso, la mortalità di ogni morale, l’ingresso nel mistero, l’enigma che sovrasta l’equinozio della logica –, trovano più ampia rispondenza. Dimenticare, “tagliare gli ormeggi della ragione”, fanno parte di un codice personale.

Aveva il viso di un angelo, James Agee – rifiutò le ali. Preferì la tratta obliqua, il volo a capofitto.

***

Permettimi il viaggio.

Dal Terzo viaggio di Hart Crane

Chi vuole, sappia questo:
sono incurante di chi mi fraintende:
il mio cuore e la mia mente mentono
e di certo con un chiodo isterico

segno tutti i quartieri del nord
che ora la mia anima regale designa
davanti al padrone Iddio, per questo
la stola della carne svanisce:

che fine faranno il mio cuore e la mia
mente? L’anima si inchina al cospetto
di Dio perché vuole scoprire
la verità riguardo al destino:

misero benché appaia enorme
io so in questo gigantesco giorno
ciò che Dio ha distrutto e so
qual è l’opera quotidiana di Dio:

so che dai portali del cielo
la gloria con la cresta declina
e ascolto il poliedrico grido che
sovrasta l’anima stritolata

e come attraversa questo mondo selvaggio
secondo l’annuncio dei veri poeti:
che Dio mi conceda la grazia
di essere, che preservi questa razza.

Permettimi di vagare, Amore, tra le tue mani.

*

Gonfio di passione il poeta parla al suo amore

Vieni a vivere con me, diventa
il mio amore: cerca di pensarci
soltanto un attimo, come si fa
tra amici che mantengono
le proprie abitudini per coltivare
le proprie ambizioni; certo

siamo entrambi d’accordo:
non hai i vezzi della madre –
se la capricciosa melma germoglierà,
sradicherà il feto finché è fango

a patto che tu possa generosamente
essere moglie, madre o nulla
come richiedono gli stati metamorfici,
a condizione, per altro, che tu mi ammiri

senza osare critica
sulla sillabazione del mio sentire:
mi ripeterai (anche se già lo so)
che sono il poeta più grande,

che quattro angeli con la spada
vegliano il principio del mio Verbo –
se tali persuasioni ti smuovono
vivi con me, diventa il mio amore.

*

Sul dormiente Verbo

Dormiente e perfetto, non potresti
credere alla sua milizia. La mano che si agita,
la gamba su cui vorrei attraccare, amare, portare
oltre le schiere nemiche e che divenga moglie.
Dio si addolora mirando
questa terra resa alle ombre
le vigili candele che tremano per le perdite
infinite: tra le navate della notte ogni vita
ha il suo lascito – chi geme, sorride, mormora
e cerca pace; sopra i trafitti corni e i clacson
si inarca e rinasce con tutta l’abilità e il coraggio
con cui lo incorona il lavoro, mentre si sveglia e rientra
nella morte.

*

Sonetto I

Tutto iniziò così. Adamo è sulla terra.
Corrotto, caduto, il dono è un destino
di salvezza. Nell’istante della nascita
tutto fu chiaro: natura mortale dolore
deve sopportare. Fame che rode la carne
la mente e il cuore, lo domina dal grembo.
Inquietudini si moltiplicano ovunque:
soltanto la tomba le spegnerà.
Intanto: ara la terra, edifica nazioni,
commercia, lotta, conosce; adora il caso
e mira a Dio, genera stirpi che
avanzano in un’orda di bramosia
finché non annegherà nei propri peccati.
Adamo è sulla terra. Così è iniziato tutto.

*

Sonetto II

L’essere è la nostra rovina. Iniziammo
con la fame, avida più dell’inferno:
nella fame diventammo uomini;
rosicchiati dalla fame, soltanto la morte
possedeva un senso per i nostri sensi. Eravamo
vivi nella fame come vivono i morti
che cercano, ossessionati, con i nostri
stessi metodi, nobili e odiosi: nessun pane
degli angeli spaventò quei giorni.
Fu confusa la corsa in quelle ore selvagge:
benché tu possa rimediare all’angoscia
e uccidere il male dove il male dà frutto
la fame non diminuisce la fame che genera
ira e legge: in terra non può morire
e in cielo cova le sue speranze.

*

Sonetto IV

Sono stato creato su una catena di carne
la cui ancestrale foggia è immolata alla polvere:
per quanto fragile sia, come il velo di rugiada
in un mattino marziano, mi lega a un credo:
la carne che era, prima che diventasse vita,
ha lottato, fu valorosa e battagliò ancora
e non invano: ora è il mio turno, devo darmi
alla valorosa pugna e, fallendo, cercare ciò che tutti
cercano. Mi sono state date ali che non ho indossato.
Mi è stata concessa la speranza di dimenticare.
Erano coraggiosi perché il coraggio era la nostra
legge; erano leali perché eravamo pochi.
Ho sfiorato la loro argilla con l’immortalità:
se cado è perché mi unisco a quelli che tradirò.

*

Sonetto V

Stremati stanno assisi nell’ombra
ciechi a ogni conflitto e a ogni dolore
chi ha innalzato torri, chi ha scavato
i prati di aprile: al riparo rendono tenebra
la mia mente impotente. Autunno
non ha risparmiato le mani che con genuflessa
generosità sarchiarono l’estate: quella mente
che imparò l’ora intatta e limpida
ora è sparita negli antri di un mutevole vento.
Le mani che prestarono aiuto sono spietate
ossa (mente, mente, duro dolore, puro,
che frutto prometti: da solo dovrai recarlo!).
L’elmo spezzato annuisce intorno al suo vuoto
e io mi spoglio dalle piaghe dell’ombra
resto sull’asse dello scaltro mezzogiorno:
mi rassicura la notte.

*

Sera d’estate

Ogni martedì sera concedici il palco
quel ring lastricato di stracci:
trame, corni docili, ottusi tamburi,
ci lodano, ricoveri per la cura.

Le locuste, entusiaste, festeggiano
il giorno che muore: dondolio
screziato di fragili ombre
dove l’amore opera nel solito modo.

La stagione ha composto i bimbi.
C’è ancora una speranza per noi.
Un credo che tagli gli ormeggi
della ragione; ma l’uomo dei dolori
ha il privilegio di dimenticare.

James Agee

Gruppo MAGOG