08 Marzo 2018

Paolo del Colle è l’Aguirre della letteratura italiana. Genesi di un libro impossibile

Che ci fosse una continuità tra Le ragazze dell’Eur e Spregamore lo avevamo già notato. Leggendo ora Nuda proprietà (Melville, Melville 2018) ci si accorge che si trattava dei primi due libri di una trilogia. Ma una trilogia che non è stata pensata a tavolino. Nessuna intenzione o atto volontaristico. La scrittura di Del Colle coincide con la vita. Nuda proprietà, quindi, se è l’ultimo capitolo di un trittico, è perché dei due romanzi precedenti ha raccolto l’esperienza – che è un’esperienza sia di scrittura che di vita. Ma attenzione, perché qui non siamo davanti a un romanzo ma a un libro di versi e prose. O forse sbaglio; anche questo è un romanzo, ma frammentato, scritto in versi e in prose che non vogliono essere poetiche ma attraversare il flusso di una scrittura che resta fedele al dettato della vita.

Tra i tanti abomini prodotti dalla contemporaneità, quello della nuda proprietà ha qualcosa di disumano. Tecnicamente è la possibilità di vendere la propria casa a un acquirente che ne diventerà effettivo proprietario solo dopo la morte di chi ora la abita.

Cop.Del ColleLo sappiamo, in Spregamore Del Colle aveva compiuto, rispetto alle Ragazze dell’Eur, un movimento di chiusura, si era insomma mosso dal fuori delle strade del suo quartiere al dentro delle stanze di un appartamento nelle quali si prendeva cura della madre. Ora però, quella madre non c’è più, nell’appartamento è rimasto solo, proprietario illegittimo. Cosa voglio dire: che Del Colle qui vuole mostrarci un ragione di inappartenenza, continuamente ricordandoci di non coincidere mai con se stesso, che l’esistenza, dopo quella morte, la morte della madre, ha subito uno sfasamento. Se siamo ancora dentro una casa, ora, quella stessa casa del libro precedente, è abitata da fantasmi – fantasmi che non restituiscono neppure il sollievo del ricordo, fantasmi che sono muti. In Nuda proprietà infatti non c’è più dolore; o meglio: il dolore non è più un mezzo conoscitivo. Si potrebbe parlare di un’apatia dell’esistenza, se non fosse che quell’immobilità non è che la visione di un presente che si ripete in perpetuo: «Le notti insonni/ non hanno precedenti/ si inseguono solo per stupirsi la mattina/ quando è un cielo mai visto/ a sostenere il tempo/ a impedire previsioni/ che vadano oltre/ la vetrata del balcone/ oltre ciò che penso/ sia accaduto a mia insaputa». Cosa ci sta dicendo Del Colle? Cosa è successo dopo quella morte? Che qui e ora non c’è dolore perché non c’è passato. Il presente non ha sospeso ma incenerito la memoria: «non c’è l’elegia della vita passata, ma la frattura dell’esistenza, la sua interruzione e questa è senza tempo, un vissuto privo di memoria, la vita che se ne è andata senza lasciare un ricordo; svaniamo in fretta con le nostre storie e solo così ci rendiamo conto che la terra è inabitabile, con le sue case abbandonate, televisori accesi per nessuno, negozi e strade deserte». Ho citato da una prosa contenuta nella seconda parte del libro, «Il cavallo di Aguirre», quella dedicata a Herzog, ma non proprio a lui, ma a tutti gli animali che abitano i suoi film. La casa è divenuta per Del Colle uno spazio disabitato e deserto ma non disumano: è il luogo dove l’uomo è tornato (prima ancora di essere diventato) una bestia. Ma quel ritorno allo stato animale è l’immagine che Del Colle ha del Paradiso – per questo la chiusa della trilogia è anche l’immagine di un paradiso terrestre, che è sempre un ritorno a un’origine in cui si torna a essere anima(le) e i peccati e i ricordi sono già stati lavati nel Lete, risucchiati nell’oblìo. Torna in mente il senso tecnico del titolo, «nuda proprietà». Effettivamente, quella casa appartiene a due persone contemporaneamente. Ma cosa sono diventate, in quell’atto notarile, le due persone se non chi vende un già morto e chi compra qualcuno che la morte dell’altro attende? E se fosse in questo abominio il segreto che ci vuole raccontare Del Colle? Voglio dire, quelle due “persone” è lui stesso sdoppiato (e il doppio era un tema ricorrente nei precedenti libri, un doppio ottenuto in due persone che mai coincidevano ma che si scambiavano i ruoli: uno esisteva e l’altro era l’assente mai nato – un fratello o un angelo – ma che determinava l’esistenza dell’altro). Ma, più che di uno sdoppiamento, bisognerebbe parlare di una scissione, di una non coincidenza. È come se in Nuda proprietà Del Colle si fosse osservato da fuori e avesse visto che quella casa, dopo la morte di sua madre, non gli appartenesse più, nonostante lì dentro ci sia tutta la vita, costretto ad abitarci da estraneo. Per questo è impossibile coincidere con se stessi. Oppure, proprio in ragione di quell’estraneità, fosse costretto ad abitarci cancellando i ricordi, vivendo solo lo spazio perpetuo del presente, come la casa fosse una «terra santa» che ci ha già mutati in bestie, in pure anime. Il presente, allora, è in Nuda proprietà un tempo che non è già più – è l’altrove che ci ha già mutati. Paolo è già gli animali di Herzog che invoca in quella sezione, lo è fin dall’inizio, gli stessi animali che osservano l’uomo e non ne capiscono gli atti folli, i gesti di disperata vacuità. Sono loro a pronunciare una verità ultima e prima: «Gli animali in Herzog ci fanno capire quel che non siamo mai stati, cioè la nostra scomparsa (un anticipo o una attesa), un paradiso da sempre sulla terra che lo sguardo umano non può che distruggere».

Andrea Caterini

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Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto da “Nuda proprietà”, di Paolo Del Colle (Melville, 2018)

 

«Il cavallo di Aguirre»

In una immagine “rubata”, casuale, un istante catturato da Herzog in Aguirre, furore di Dio, il cavallo dei ribelli in viaggio verso l’Eldorado, viene gettato dalla zattera: improvvisamente, le risate si smorzano nel silenzio, nel non comprendere: il cavallo non cerca di risalire, ma si mette in salvo sulla sponda del fiume, da dove per un attimo rivolge lo sguardo a quei ribelli, ora abbandonati a se stessi, alla loro follia solo umana. Per la prima volta il loro condottiero, Aguirre, guarda indietro. Il confine è superato, non c’è più scampo. La zattera gira su se stessa. Sarà invasa dalle scimmie.

C’è un film invisibile nella filmografia di Herzog. Gioco sulla sabbia, secondo cortometraggio del 1964, 14 minuti. Trama semplicissima: dei bambini giocano con un gallo, in un crescendo di crudeltà insopportabile. Herzog ne parla sempre in modo sbrigativo, ripetendosi: «non potevo immaginare quello che sarebbe successo… ho perso il controllo» e variazioni su questa sua paralisi, incapacità di fermare ciò che accadeva.

Si può azzardare che a immobilizzarlo sia l’evoluzione di una storia, la sua conseguenzialità, verrebbe da dire che ciò che non controlla è il prevedibile, l’appiattirsi della verità sul fatto; lo immobilizza il contrario della visione estatica, perché sperimenta la mancanza di visione, il suo precipitare nel necessario di cui fa parte la sua fissità, l’essere spettatore, come fosse un regista dell’odiato cinema verità. Da allora nei suoi film gli animali sono presenze che aprono tempo e spazio, donano circostanze a noi invisibili, ma che ci attorniano (il gallo, il mulo e la civetta in Segni di vita; la cicogna in La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreutz; gli uccelli in Cuore di vetro; i maiali in La soufrière; Anche gli uomini cantano rimanda invece al finale di Fitzcarraldo).

Lo sguardo di Herzog deve molto a loro: la verità non è in uno sprofondamento, una verticalizzazione dell’immagine, ma in quell’immagine che impedisce lo sprofondamento e ferma la visione in un punto di equilibrio che non è armonia, ma segna la distanza, anche minima, che ci divide da un’altra vita, o dalle due facce dell’origine, la vita e la sua da sempre perduta inviolabilità. Gli animali in Herzog ci fanno capire quel che non siamo mai stati e quel che saremo già stati, cioè la nostra scomparsa (un anticipo o una attesa), un paradiso da sempre sulla terra che lo sguardo umano non può che distruggere. È con il loro sguardo, fatto suo, che Herzog dona al nostro tempo un assoluto, che non è privilegio di ascolti elitari della voce dell’essere, ma ciò che su questa terra permettiamo di essere tale. L’assoluto non ci viene regalato e non è un luogo statico dall’origine dei tempi, è ciò che riusciamo a intravedere oltre i piani più alti delle moderne cattedrali, ciò che viene in soccorso quando sembra esaurito il fiato e finite le lacrime. Herzog la chiama «verità estatica». Al limite estremo, quando anche il camminatore Herzog giunge allo sfinimento, all’assenza di orizzonti, si trova finalmente il pericolo della mancanza di senso: cioè il grande avversario del nulla. Il mitico viaggio a piedi da Monaco a Parigi per trovare Lotte Eisner malata finisce con queste parole: «Per un solo istante, senza peso, per il mio corpo esausto è passato come un soffio di dolcezza. Ho detto. Apra la finestra, da qualche giorno io so volare».

Paolo del Colle

 

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