05 Settembre 2024

Dall’ipocrisia alla speranza. Piccolo discorso su “La morte di Ivan Il’ič”

La morte di Ivan Il’ič è solo un racconto, con la brevità e i crismi di un racconto, ma di possanza monumentale e per temi e per respiro. Potrebbe sembrare, tra le altre cose e a prima vista, l’esame quasi “autoptico” di una vita borghese agiata almeno quanto sterile e insensata, irrigidita e necrotizzata entro la parabola di un uomo inconsistente e preoccupato dei giudizi dei propri superiori in funzione di una carriera in lenta però progressiva ascesa, nonché stimato attore di un ruolo sociale e familiare comme il faut, ma del tutto privo dell’aria e della luce di qualcosa di più veritativo di una protratta posa. I suoi rapporti sono epidermici, il matrimonio un’alcova di sentimenti insipidi e afferenti la convenienza.

Il racconto parte dal decesso del protagonista, giudice istruttore, e procede a ritroso. Vediamo da subito tutti i colleghi di tribunale apprendere la notizia di esso e marcare una linea di confine tra la loro florida vita, tale da non comprendere la morte come vera possibilità presente a ogni suo momento, e la ferale sorte toccata a Ivan; essi provano, letteralmente, un intimo senso di soddisfazione nel rilevare che, innegabilmente, la morte era capitata a questi e non a loro. Quello che appare fin da subito è il crudele e futile mondo, umanamente rozzo almeno quanto superficialmente sofisticato e affidato a regole frivole, popolato dagli “uomini nuovi” di un ceto in ascesa: la borghesia. Un ceto verso il quale Tolstoj si pone in contrasto, per principi e costellazione assiologica, attraverso un ritratto minuto e spietato che mette in rilievo la vacuità di pose e costumi, aspirazioni e intenti, di un uomo la cui sola preoccupazione è la scalata sociale, e della società mercuriale che gli orbita attorno.

Il funerale, poi, è una sentina di insulsaggini, di adempienze senza trasporto, di interessi che si accennano discretamente ma con urgenza nella petulante vedova; mestizia e dolore divengono delle pose come il segno della croce di Pëtr Ivanovič, collega e amico d’infanzia di Ivan, indirizzato a una direzione vaga tra la bara, il cantore e le immagini sacre, come uno svolazzo della mano della propria coscienza che saluti la cerimonia funebre con contegnosa partecipazione. Alcuni elementi ironici, per non dire grotteschi, condiscono di scomodità una situazione spietatamente priva di sentimenti genuini e genuino dolore di fronte alla perdita del defunto: come il “sedizioso” pouf che risponde, gemendo e agitandosi, alla postura e ai movimenti di Ivanovič, un dettaglio che comunica l’innaturalezza tragicomica di tutto il contesto e il suo artificioso corso. La moglie di Ivan, per soprammercato, dopo aver adempiuto con Ivanovič al racconto della sofferenza del marito e della sua penosa condizione di impotenza, che vale certo qualche lacrima e una vezzosa forma di commiserazione generale, si interessa presso l’ospite dell’eventuale pensione di reversibilità, e questi apprende che ella ne sa già più di quanto possa confidarle lui.

Segue una carrellata a ritroso sulla vita del protagonista fino all’incidente domestico che segna la sua vita e la mette sulla via di spegnersi lentamente ma inesorabilmente. Contegnoso e brillante, capace di isolare, con la virtù di un primo violino, le faccende di lavoro dalla sua vita privata, e di calare in essa con torpida, ottusa mediocrità, Ivan sgranava il grigio e insensibile rosario delle proprie abitudini non curandosi d’altro: quando non intento al lavoro, sorbiva il tè e leggeva il giornale parlando di politica, riceveva gli ospiti e si relazionava con i propri familiari attraverso riti usati e incapaci di comprendere una stilla di sincera partecipazione. La sua più grande soddisfazione, sedersi ad un tavolo di whist con amici e colleghi seri e assennati, capaci di understatement, o dare ricevimenti secondo le regole della buona società. Arredare casa con gusto era un piacere simile a quelli descritti, che si innestava come una tessera nel mosaico di una vita insipida ma esibitiva, meramente esornativa. Sulla scelta degli ospiti in casa Il’ič, moglie, marito e figlia, andavano perfettamente d’accordo, pareva consono alla loro posizione escludere tutte le visite dappoco e favorire quelle della gente più altolocata.

Lev Tolstoj (1828-1910): scrittore, oratore, anarchico, guru, educatore, padre

La malattia, paradossalmente, sopraggiunge a dare spessore a una vita altrimenti inconsistente, portando una sorta di “verità” heideggeriana nel suo scorrere segnato dall’imminenza di una fine assoluta e dal senso imponderabile del destino. Ivan stringe un rapporto genuino e fuori dalle sapute messe in scena, con il servo Gerasim. Tolstoj, da anarchico cristiano, tratteggia la figura del servo come buona, sincera e incline alla pietà. La sola che rechi un po’ di sollievo al moribondo. Questo contadino non istruito è forse la sola figura positiva che spicca nella narrazione. Egli prova empatia e un reale sentimento di misericordia che hanno il crisma della cristianità più schietta.

Di pari passo Ivan apprende quanto la sua esistenza sia stata asfittica, vuota, esangue e insincera, e guadagna una sorta di lasciapassare per l’Aldilà, non tanto in una accettazione stoica quanto nella pace interiore che si consegue solo a patto di affrontare la vita, soprattutto nei suoi momenti-limite, con sincerità e denudati di ogni orpello e ipocrisia: finalmente consapevoli che il proprio ruolo non è di censo o prestigio economico, ma quello fatto di affetti genuini, sentimenti e aspirazioni che niente condividono con le carabattole “decò” di cui si fregiava prima la sua condotta.

Ivan è diviso, come ogni malato grave, tra la prostrazione e la disperazione che goccia a goccia segnano la sua lunga e penosa condizione, e una speranza che fa capolino ma resta effimera e incapace di gettare luce nelle latebre disperate di un contatto sempre più prossimo con la morte, con la fine di tutto, che come un sacco nero, nell’agonia, fa per renderlo prigioniero. Assieme a ciò Tolstoj aggiunge una caratteristica non estranea al contesto di profondo realismo della vicenda: Il’ič ascolta la propria malattia e tutte le funzioni del proprio organismo con scrupolosa dedizione, quasi a captare il più piccolo segno di miglioramento o anche solo per essere assiduo presso un valore, la vita, che adesso sente più reale e legato alla fragilità del corpo, sul punto di venire meno senza ragioni comprensibili, vissuto come una punizione divina o, peggio, come lo sgambetto di un fato crudele o di un Dio incapace di ascoltare le sue preghiere e il suo dolore.

Ivan è solo, non è mai stato così solo e vulnerabile, così vicino alla verità e sincero nelle relazioni, come ora che ha la vita segnata da un traguardo terribile e indesiderato, ma pur sempre un traguardo inevitabile. Tutto gli ruota attorno danzante e flottante nella solita mancanza di sincerità e superficialità d’animo e sentimenti, ma solo ora egli è cosciente di quanto la vita richieda una controparte a tanta vacua finzione, a tutti gli usi triti e le abitudini sterili che costellavano, solo fino a poco prima, la sua come l’esistenza di tutte le persone a lui vicine. La morale della sacralità della vita contro quella dell’utile, la penetranza e la veridicità contro i belletti e le pose di un contesto di vita che manda stancamente avanti una recita tale da cozzare sempre più con la guadagnata consapevolezza di Ivan.

Egli vede ora con la lucidità di un sentire passato al setaccio della verità, quanto serve a un uomo per fare i conti col proprio intimo senza seguire pedissequamente regole e condotte sociali derivative e tali da non comprendere neanche una piccola dose, tra tanto contegno, di dignità.

Nell’agonia a Ivan

“sarebbe piaciuto che l’avessero accarezzato, baciato, che avessero pianto per lui, come appunto si accarezzano e si consolano i piccini… Nelle sue relazioni con Gerasim c’era qualcosa di simile a questo, epperò quelle relazioni lo confortavano…”

Ivan vorrebbe, insomma, che qualcuno lo accarezzasse, piangesse per lui, ed ecco arrivare invece, mettiamo, il giudice Šabek che si mostra serio e pensoso e per forza d’inerzia espone la propria opinione su un giudicato di turno dalla cassazione. Menzogna. È soprattutto la menzogna a circondare Ivan: questo bordeggiare la verità senza mai toccarla, questo conformismo crudele e assuefatto a cerimonie e riti vuoti e ripetuti, che scorre liscio e indisturbato come una perfetta meccanica assassina presso i veri sentimenti.

Sul limine della fine Ivan prova pietà per i propri cari al suo capezzale, si sente quasi d’ingombro alla loro gioia e tranquillità. Ed è il gesto più sincero e bello della sua vita, che gli guadagna a un passo dalla morte quella luce di cui era stata povera. Tutto acquista senso, anche la morte stessa non è più una nemica, ma una sorella caritatevole che lo accompagna verso lo splendore col viatico della consapevolezza di aver sbagliato tutto se non in quelle rare volte in cui il suo metro non è stato quello di ciò che la gente altolocata riteneva il “bene”. Ivan ha vissuto veramente solo sul ciglio della fine, solo la malattia ha saputo metterlo in contatto con parti della vita che non fossero una recita; e soltanto il buon servo Gerasim ha saputo edulcorare il suo tormento, farlo tornare come bambino, col privilegio raro di sentire sorgivamente e carezzare la tenerezza e la comprensione come cose vicine.

Il capolavoro di Tolstoj è ancora oggi un monito splendente di umanità, contro vite che smarriscono un senso nell’adempiere a valori posticci scanditi dall’attaccamento ai beni materiali e a ciò che è convenuto giusto nell’ipocrisia generale di chi conta per la propria posizione sociale e non per spessore umano.

Massimo Triolo

*In copertina: Il’ja Repin, Vecchio con corvo, 1885

Gruppo MAGOG