Ho scoperto Alejo Carpentier leggendo Harold Bloom: è stata una scoperta folgorante. Secondo Bloom, Alejo Carpentier “è indubbiamente il genio della narrativa latinoamericana”; lo definisce un romanziere cabalista, che “come tutti i cabalisti era un apocalittico”. Cosa significa? Che per Carpentier il romanzo è la fine del mondo, di un mondo, dalle cui ceneri sorge una rivelazione, ustionata, ambigua. Secondo Harold Bloom i romanzi più potenti di Carpentier sono Il regno di questo mondo (1949) e Il secolo dei lumi (1962): entrambi raccontano, da punti di vista diversi, l’esito dell’Illuminismo, della Rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica nei Caraibi. Nei romanzi di Carpentier non ci sono giusti o giustificati: è tutto un massacro, da cui sboccia un fiore di luce. Il primo romanzo, che si concentra sullo schiavo ribelle e analfabeta Ti Noél, ha una lingua scaltra, cupa; l’altro, che ha al centro il giovane rivoluzionario massone Victor Hugues, è beatamente involuto: la trama è un involucro per un romanzo sapienziale, su cui svetta “la Macchina”, la ghigliottina, autentico Tabor, sussurro divino, lama mistica.
Ad ogni modo, io sto con Carlo Bo. Secondo Bo “il romanzo più importante di Alejo Carpentier” s’intitola I passi perduti. Pubblicato in origine nel 1953, racconta di un etnografo che risale l’Orinoco, s’inoltra nella foresta equatoriale, alla ricerca di antiche vestigia musicali, insomma, di un nuovo mondo, autentico. Un senso di violento smarrimento permea il libro. In un’intervista – ora pubblicata in L’età dell’impazienza. Saggi, articoli, interviste, Mimesis, 2022 – Carpentier ricostruisce la genesi di quel romanzo. Era il 1949, in Venezuela:
“All’improvviso cominciai a guardare il paesaggio dell’Orinoco come una sorta di materializzazione del tempo. Il mio viaggio controcorrente verso le sorgenti – che naturalmente non avrei raggiunto – stava diventando una risalita nel tempo. Man mano che avanzavo lungo il fiume, vedevo i villaggi che si allontanavano da quella che chiamiamo la storia contemporanea. Villaggi meravigliosi, ma dove non arrivava mai un giornale, dove non c’era una radio, dove si viveva una vita simile a quella che probabilmente si era vissuta nel Medioevo. Mi resi conto che stavo risalendo il fiume del tempo e compresi questa grande verità: l’America era l’unico continente dove l’uomo del XX secolo è contemporaneo di uomini che appartengono ad altre epoche che risalgono fino al Neolitico”.
Un tempo pubblicato da Longanesi, come altri libri di Carpentier, I passi perduti è stato ritradotto da Angelo Morino, nel 1995, per Sellerio: il libro risulta “non disponibile”. Eppure, scrive ancora Carlo Bo, quello è un romanzo che “rappresenta un punto nuovo nella storia letteraria dell’America latina”. Cosa significa? Bo ha avuto questa intuizione: I passi perduti racconta una storia latinoamericana, profondamente latinoamericana, con lo stile di un romanzo ‘europeo’. L’intuizione non è casuale: Carpentier è nato il giorno di Santo Stefano del 1904 a Losanna, da padre francese, architetto, e mamma di origini russe; è cresciuto all’Avana ma ha perfezionato gli studi a Parigi, e in Francia, nel 1928, ha fatto ritorno dopo essere stato arrestato per attività giornalistica ostile al governo di Gerardo Machado. Amico di Robert Desnos, ha frequentato i surrealisti, prendeva il caffè con Aragon e Paul Eluard, Picasso, De Chirico e Tristan Tzara. Le questioni biografiche, però, sarebbero futili senza il sostegno dell’opera. I romanzi di Carpentier sono pienamente latinoamericani per temi e movenze geografiche – e sono ‘europei’ per istinto letterario. Il romanzo europeo è romanzo di idee, è romanzo del dubbio, romanzo conoscitivo, romanzo che mette in scacco il romanzo e in cui lo scrittore, in qualche modo, ragiona sulle macerie, sulle occasioni mancate; investiga il mistero del male, analizza la propria terribile separatezza da tutto, mescola sogno e realtà, follia e ragione, Dioniso e Cartesio. Per dirla come la dice Carpentier in un editoriale Sul romanzo cosiddetto “intellettuale” (1955): “Ogni romanzo riuscito è per forza di cose un romanzo intelligente”. Nell’Italia ombelicale e succube dell’impero americano il romanzo europeo – di cui uno degli assoluti eroi è Alessandro Manzoni – è scomparso da tempo, quello intellettuale da ancor prima: siamo pieno di romanzi stupidi, indigesti, dalla lingua infida e iniqua e dalla trama prona a Netflix, per accontentare editor appena alfabetizzati. Amen.
Secondo Massimo Rizzante – che ha curato L’età dell’impazienza – l’opera di Alejo Carpentier è pressoché scomparsa dal dibattito corrente e dall’editoria coerente perché l’autore ha “appoggiato fino alla fine la rivoluzione cubana”. Della rivoluzione di Castro, Carpentier ha assunto la sorte: “è stato da una parte fin troppo esaltato e dall’altra ostracizzato”. Anche Harold Bloom la pensava allo stesso modo. Domandandosi perché Carpentier fosse molto meno letto di troppi romanzieri sudamericani molto meno talentuosi di lui, degno di stare al fianco di Jorge Luis Borges e di Julio Cortázar, capì che “forse la questione è politica: Carpentier… sostenne il regime di Castro fino alla morte, avvenuta il 24 aprile del 1980, e così fu danneggiato dalla nuova tirannia”. Questa risposta, forse, andava bene in tempi politicamente sensibili: sono convinto che oggi Carpentier non si legga semplicemente perché è un autore complesso, turbato e torbido, che ti spiazza, che spezza le convenzioni narrative, a cui devi dedicare tempo, studio, lungo amore. Non c’è spazio, oggi, per uno scrittore come Carpentier: aveva il coraggio di un pensiero non conforme, non sintetizzabile in moduli e schemi; impiegava anni a raffinare i suoi libri, a limarli fino alla giusta luce.
Carpentier descriveva la nostra epoca con queste parole:
“Tutti sono impazienti di arrivare. Tutti sono impazienti di toccare subito con mano il risultato dei loro sforzi. Uno è impaziente di far fortuna; un altro di trionfare. L’artista desidera rivoluzionare le sue tecniche nel minor tempo possibile facendo compiere in due o tre anni un passo gigantesco alla pittura, alla musica, all’arte del romanzo”.
Ma l’impazienza impedisce il fervore per la grande opera. Era il 1957. Pur di non subire l’egida dei tempi, lo scrittore risaliva fiumi inquieti, sfiorava le vite silvestri. Negli anni di maggiore attività letteraria, Carpentier visse in Venezuela. L’età dell’impazienza – mentre cercate, impazientemente, i romanzi dell’autore –, è un manuale di difesa contro l’ottusità del presente. Carpentier ci spiega perché “non c’è libro che si possa paragonare a Don Chisciotte”; scrive che La morte di Virgilio di Hermann Broch è uno dei libri più importanti del secolo; gli piace che un grande scrittore come William Faulkner sia incapace di parlare in pubblico: il fatto di “non saper parlare della sua opera” la autentica, la decora con i diamanti. Carpentier preferisce Marcel Schwob, adora James Joyce – “Nell’Ulisse Joyce compie per la prima volta una gigantesca sintesi dell’anima umana” –, è incuriosito da André Malraux, perennemente “in fuga dalle regole dell’ordine costituito” (fino a diventare un alfiere di quello stesso ordine costituito…), ma soprattutto dal Céline di Viaggio al termine della notte: “il nostro medico ci spiattella verità che ben pochi individui avrebbero il coraggio di fissare su una pagina”. Ma fin qui è una mera raccolta di figurine. Carpentier eccelle quando ragiona sulle nuove possibilità del romanzo nell’era dei best seller, quando si scaglia contro i vacui accademismi e “i luoghi comuni dell’esistenzialismo”, quando discute del Barocco e il reale meraviglioso: tutte cose troppo complicate per la tirannia dello share, la trita algocrazia a cui si piegano, rimpiangendo i perduti tempi, gli autori odierni.
Dovrebbero leggerlo i romanzieri italiani di oggi, L’età dell’impazienza, per imparare, pazientemente, il mestiere. Non lo faranno: troppo avidi di vita mediata per apprezzare la meditazione. Pazienza. La loro impunita modestia è sbriciolata dal “cercatore di diamanti greco” incrociato da Carpentier a Upata, “se ne andava in giro con l’Odissea in una tasca e l’Anabasi di Senofonte nell’altra”. Che meraviglia, l’avvenenza dell’avventura – siamo già alle sorgenti di un romanzo: fate attenzione alla freccia che vi perfora la gola.