Il Grande Gatsby è sempre stato, nel mio personale cosmo, un romanzo sacro: in questi giorni ho disseppellito dalla mia libreria una copia edita da Mondadori nel 1950 – traduzione di Fernanda Pivano. L’avevo dimenticata. Ora ricordo. Si tratta di un’edizione proveniente da un’abbazia, trafugata grazie allo zaino che calzavo in spalla alle elementari. Un ricordo che farebbe ammettere a chiunque di essere stato un bambino impegnativo. Ma per quanto mi riguarda non ho mai rubato nessun libro – ho inventato quest’episodio tanto per giustificarne la presenza sul mio tavolo.
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Quindi viriamo bruscamente sull’opera di Fitzgerald. O meglio, sulla costruzione strutturale del suo primo capitolo, capace di anticiparne l’intera trama con una chirurgica ed estrema grazia. Dall’incipit de “Il Grande Gatsby” scopriamo che Nick Carraway, il narratore, è il luogo in cui fare accadere la storia. Non soltanto la persona. Questo a causa del suo carattere e delle peculiarità culturali che – nel contesto degli anni ’20 americani – gli permettono di risultare una parentesi di neutralità per chiunque gli si trovi accanto: un raro caso di persona non-giudicante. Nick Carraway infatti ci racconta di essere stato avvezzo negli anni ad attirare “caratteri strani” e “non pochi scocciatori inveterati”, nonché confessioni intime: situazioni che in genere accetta con riserbo perché spesso si rivelano “plagiarie e deformate da evidenti omissioni”.
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Ma Gatsby, “colui che dà nome a questo libro”, è dotato di “una straordinaria speranza, una promessa romantica” che Nick Carraway non ha mai trovato in altri e che, aggiunge in veste di postumo ai fatti narrati, non troverà mai più. Secondo le sue parole “Soltanto Gatsby restava fuori dalla mia reazione. Gatsby, che rappresentava tutto ciò che suscita in me disprezzo genuino. Se la personalità è una serie ininterrotta di gesti riusciti, allora c’era in lui qualcosa di splendido, una sensibilità acuita alle promesse della vita”. Ne consegue il presupposto di questo romanzo – la sua genesi interna –, ovvero, quanto Gatsby abbia catturato l’attenzione di Nick al punto da fargli dichiarare che “fu la polvere sozza che fluttuava nella scia dei suoi sogni, a stroncare il mio interesse nei dolori passeggeri e nei fuggevoli orgogli degli uomini”. È questa la ragione per cui non può fare a meno di narrarne la storia.
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E qui la struttura del romanzo anticipa a una domanda del lettore: chi è Nick Carraway? Così il narratore si presenta, e la scrittura, da memoria delle proprie origini, diventa presente tramite la contestualizzazione del nostro personaggio: “La mia casa era all’estremità dell’uovo, a una cinquantina di metri soltanto dallo stretto, presa tra due edifici enormi che venivano affittati a dodici o quindicimila dollari per stagione”. E questo passaggio – per via della vicinanza fisica e spirituale – ci conduce subito a Gatsby, perché il misterioso milionario altri non è che il vicino di casa di Nick Carraway: “Quello alla mia destra […] era il palazzo di Gatsby. O meglio, siccome non conoscevo ancora il signor Gatsby, era un palazzo abitato da un signore con quel nome”.
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Da Gatsby l’immagine passa a East Egg, lato opposto della baia nonché luogo in cui si trova la casa di Daisy e Tom Buchanan: atto per nulla casuale in quanto le due abitazioni si trovano – per volontà dello stesso Gatsby –, una di fronte all’altra. Così, per spezzare l’armonia di questo ritratto dai toni pastello, Fitzgerald introduce Tom Buchanan. E nel farlo anticipa il finale del romanzo: la futura partenza di Daisy, nonostante sia convinta che East Egg sia una “sistemazione definitiva”, contrapponendo questa certezza alla realtà insita in suo marito, l’“eternamente in moto” Tom Buchanan. La loro casa infatti è “complicata” e “domina” la baia di East Egg, proprio come le dinamiche della loro relazione si dimostreranno perfettamente credibili, certo, ma di difficile intuizione. Perché, dopo l’omicidio di Gatsby, Daisy Fay e Tom Buchanan abbandoneranno l’Est come una qualsiasi coppia sposata, sovrastando la situazione con un polso fermo e impensabile.
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Questa presentazione con tanto di finale preannunciato (e siamo solo a pagina cinque) sfocia nella prima vera e propria scena del romanzo: Nick Carraway va in visita a Tom e Daisy, sua cugina, presentandoceli come “due vecchi amici che conoscevo a malapena”. Analizziamoli. Tom Buchanan ha un “corpo poderoso, dalla forza enorme: un corpo crudele”, mentre Daisy prende per mano Nick con una “espressione consapevole” guardandolo in faccia, “quasi per assicurare che nessuno al mondo le fosse più gradito”, del resto “Era un suo modo di fare”. Il terzo ospite della stanza è Jordan Baker: “Mi piaceva guardarla. Era una ragazza snella, dai seni piccoli e il portamento eretto fino a farle arcuare le spalle come un cadetto. Gli occhi grigi, arrossati dal sole, mi risposero cortesi con pari curiosità da un viso pallido, delizioso, insoddisfatto”. Descrizione anticipatoria del fatto che la signorina Baker avrà una relazione con Nick Carraway. Ma la sua funzionalità nel romanzo è quello di informatrice, e come da copione sarà lei a nominare per la prima volta Gatsby, nella cronologia degli eventi. E “Gatsby? Quale Gatsby?”, risponde Daisy, riconoscendo una similitudine con il cognome Gatz – James Gatz, il ragazzo di cui era innamorata, scomparso subito dopo la guerra.
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Una volta seduti a tavola si intuiscono i malumori matrimoniali di Daisy e Tom per via della loro comunicazione, ma anche per gli scontri che mostrano senza remore sia alla signorina Baker – viene naturale credere che ne sia abituata –, e a Nick, cugino in visita, certo, ma appena trasferitosi a un paio di chilometri in linea d’aria, e futura frequentazione assidua. E le intuizioni di matrimonio infelice si riconfermano non appena Tom si precipita a rispondere al telefono. Ancora non lo sappiamo, ma dall’altro lato della cornetta troviamo la sua amante, Myrtle Wilson. E qui com’è logico pensare Daisy s’innervosisce, per poi mettersi a sparare fesserie mostrando una falsa cortesia ostentata – “Come sono felice di vederti alla mia tavola, Nick. Mi fai pensare a… a una rosa. Proprio a una rosa. Non è vero? Non fa pensare a una rosa?” –, per poi precipitarsi in casa a discutere con suo marito Tom. Benissimo. Le fazioni sono state create, ma la raffinatezza di Fitzgerald fa sì che l’intreccio del romanzo – un sestetto – si completi solamente nelle ultime righe del capitolo. Tenete bene a mente questo punto.
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Nick Carraway si ritrova dunque solo con Jordan Baker, mentre Daisy e Tom sono separati da loro – e sentimentalmente, tra loro – da Myrtle Wilson, l’amante di Tom. È come se in casa fossero in cinque. E proseguirà in questo modo l’intera serata, per via della “presenza stridula e metallica di questa quinta ospite”, che insiste nel telefonare. (Curioso che “metallica” sia anche l’automobile – guidata da Daisy con Gatsby come passeggero – che la ucciderà in un incidente). Proseguiamo. Prima di arrivare alla conclusione del capitolo, Daisy si dichiara “cinica”, e lo fa “con gli occhi fiammeggianti, in un atteggiamento di sfida simile a quello di Tom”. Così Nick Carraway – a mio avviso, erroneamente – pensa che Daisy stia mentendo per mostrarsi diversa da ciò che è. Ma se anche avesse ragione, Daisy in questo passaggio sta generando una profezia che si auto-avvererà per se stessa: ovvero Daisy potrebbe anche stare mentendo su ciò che è, ma non su chi diventerà al termine del romanzo. La sua scelta finale infatti si descrive perfettamente con l’aggettivo “cinica”.
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Le conclusioni di Nick sulla serata non fanno altro che lasciarlo “imbarazzato e un po’ disgustato”, al momento di andarsene. In quel momento gli pare che a Daisy non resti altro da fare che fuggire con la bambina tra le braccia, mentre il fatto che Tom abbia “una donna a New York” nemmeno lo stupisce più di tanto. L’insieme di informazioni e caratterizzazioni architettato da Fitzgerald rende perfettamente plausibili ogni singolo evento che accadrà in seguito. Tuttavia non pensate che mi sia preposto l’obiettivo di svelarvi tutto in queste poche righe: ho evitato di menzionare alcuni dettagli minori, che consiglio di cercare con il proprio microscopio letterario, e censurato alcune delle mie interpretazioni più soggettive – ma se vi interessa conoscerle telefonatemi.
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Ed ecco la parte migliore del capitolo, che al tempo stesso incarna la costruzione più ovvia e la punta di diamante dell’eleganza narrativa di Fitzgerald. Si tratta di una risoluzione esemplare. Scopriamola. Nick Carraway rientra a casa, a West Egg, e scorge una figura a pochi passi dall’acqua: “Qualcosa nei movimenti disinvolti e nella salda presa dei piedi sul prato mi fece capire che quello era il signor Gatsby”. Ma perché Gatsby ha dei movimenti disinvolti e una salda presa dei piedi sul prato? La risposta non può essere che questa: Jay Gatsby non è altri che James Gatz in incognito, determinato a incontrare e fare sua Daisy Fay, il suo amore perduto e tremendamente rimpianto. Ecco perché è qui che si completano le fazioni che avevo menzionato a tavola. Se a casa di Tom Buchanan la quinta ospite è stata la sua amante – talmente invadente da essere fastidiosa – il sesto altri non era che Gatsby, immobile e silente, come un braccio tremante teso sull’acqua, impegnato ad afferrare quell’unica luce verde, “minuscola e lontana”. Una luce che non rappresenta altro che Daisy, la luce di una stella – quindi già passata nel momento presente. Pura memoria. Perché, cito le ultime righe del romanzo, “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia, e una bella mattina… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.
*In copertina: Mia Farrow è Daisy nel “Grande Gastby” di Jack Clayton, film del 1974