Che sia repellente, che si avverta il sibilo della repulsione è parte del genio di Georges Simenon. Anatomizzava l’anima dell’uomo fino a svelarne la natura di polvere, la statura di sabbia – anzi, di m**da. E proprio da lì – dall’odore nauseabondo che evoca l’uomo – ti stordiva con una pietà abbacinante. Come se – strategia mistica pericolosa, perlaceo gnosticismo – sia necessario non solo rivolgersi ma rivoltarsi nel male, nella melma del mondo, per amarlo. Solo sfibrandosi nel sottosuolo è possibile una falange d’innocenza.
*
Per questo, scrivendo, si è massacrato, Simenon, dando rubrica al lubrico, scotennando la propria sessuomania. Dopo aver dato accesso a tutti i suoi documenti, senza nulla da difendere, svergognato, autentico, post-mortem, Simenon, uno dei grandi scrittori del secolo, s’è visto ridotto da Pierre Assouline, in una vasta biografia, ad antisemita (perché nel 1921, a 18 anni, negli stessi anni in cui Mussolini glorifica Ungaretti di una prefazione a Il porto sepolto, scrive su “La Gazeta de Liège” una manciata di articoli sul “pericolo ebraico”), traditore compulsivo, volgare collaborazionista con Vichy. Il “Comité national d’épuration des gens de lettres” indaga Simenon (e lo punisce impedendogli di pubblicare per un tot) per “Collaborazionismo. Non s’era trattato di collaborazionismo attivo, ovviamente. Simenon non aveva né la voglia né il tempo di mettersi a collaborare con i nazisti… sottovalutò completamente l’aspetto politico della situazione e collaborò con gli occupanti nel senso che cedette i diritti di Maigret alla Continental che era una società di produzione e propaganda cinematografica che faceva capo direttamente a Goebbels. Naturalmente furono necessari una serie di contatti prima di firmare l’accordo e Simenon fu visto infatti entrare più volte nella sede della Kommandantur nazista, sinistramente famosa” (così Assouline in una intervista istruttiva rilasciata a Corrado Augias per “la Repubblica”, il 17 settembre 1992). Dopodiché, Simenon partì per il Canada, dove incontra Denyse Ouimet, e la impalma, moglie numero due. Da lei Simenon ha Marie-Jo, figlia adorata, che si ammazza il 19 maggio del 1978, a 25 anni, dilaniando il padre, che per lei scrive il libro più vertiginoso, la sconcertante confessione, Memorie intime, libro oceanico (1200 pagine e passa) in cui, letteralmente, Simenon uccide se stesso, indossando il cilicio del Colpevole, del Grande Peccatore, del Laido, dello Schifoso, dell’Orrendo.
*
Minotauro vero, Simenon, mostro di bravura che con poligrafico genio – certo: c’è la commedia umana di Balzac, c’è la stigmate di Dostoevskij, c’è il cinema, ma soprattutto c’è una energia sovrumana (quasi duecento romanzi, altrettanti racconti, imprecisati articoli) – edifica un inalterabile labirinto. Così la figlia realizza ciò che il padre inscena a ogni libro, il flirt con la morte sganghera in tenebra (“Salvami Daddy, sto per morire. Io non sono più nulla. Non vedo il mio posto. Sono sperduta tra lo spazio, il silenzio e la morte. Dimentica le mie lacrime, ma ti prego, credi nel mio sorriso di quando ero la tua piccolina, ormai parecchi anni fa’. Sii felice per me. Ricordati del mio Amore anche se è stato folle. È per questo che io ho vissuto ed è per questo che io adesso muoio…”), in profluvio di patologica sessualità – la madre, Denyse, che si masturba davanti alla figlia mentre il padre concupisce una delle sue diecimila donne – per lo più pagate – in un angolo ignoto del globo.
*
Tutto ciò che tocca Simenon, d’altronde, si macchia di tragedia, perché lui è la Sfinge, il dio strangolatore. Così il fratello più giovane, Christian, cresciuto nel Congo belga, affiliato ai rexisti di Léon Degrelle, condannato a morte in contumacia, post Seconda guerra, arruolatosi, su consiglio del fratello, nella Legione straniera per evitare l’esecuzione, ma morto, poco dopo, a 40 anni, in Vietnam, nel 1947, durante la guerra d’Indocina. La madre, Henriette, sputerà la colpa di questa morte sulla faccia di Georges. Crocevia del caso: il corpo di Christian torna dal nulla asiatico nel 1974, per essere inumato a Liegi; quell’anno Simenon pubblica la dolorosa Lettera a mia madre.
*
Di Simenon era inaccettabile la libertà carnale, il memorabile menefreghismo. “Della sua moralità non faceva parte l’idea che lo scrittore assume degli obblighi civili e politici quando scrive” (Assouline); “Sono un anarchico e un cittadino del mondo, per il resto me ne frego” (Simenon). Che lo scrittore non prenda parte, non stia da una parte della vita perché la vita la vuole ingurgitare tutta, è inaccettabile. D’altronde, puoi salvare tutta la vita soltanto senza essere di parte, soprattutto stando, per lo più, dalla parte degli sbagliati e dei vinti, non è così? Tutti a medagliarlo di epiteti – conservatore, piccolo-borghese, egoista, ‘mostro’, oltranzista del sesso, misogino, bastardo – tutti a leggere i suoi libri, perché altrove c’era la ‘testa’, in lui esondava la vita.
*
“Semplicemente tu eri sensibile in maniera anormale, e io ho preso da te. Da ragazzo e da giovane soffrivo di sonnambulismo. Vi è accaduto spesso di raggiungermi all’angolo della strada, mentre andavo in giro in camicia da notte. Il medico vi ha consigliato di sistemare delle sbarre alle mie finestre e, finché sono rimasto a Liegi, ho avuto quelle sbarre sotto gli occhi, un po’ come un prigioniero”. Imprigionare il sonno, in prigionia dell’incubo. Simenon scrive alla madre come nessun figlio. “Quando avevo solo otto o nove anni, mi ha spaventato vedere una delle tue sorelle portata al manicomio. Ero presente. Rivedo la carrozza ferma davanti alla porta e il marito che singhiozza, rannicchiato contro il muro, stringendo il viso fra le mani. Quel che ho pensato, oggi te lo posso confessare: E se un giorno una carrozza venisse a prendere anche mia madre?”.
*
E il sesso, la nudità del genitore, il tabù. La madre come Pasifae, orgoglio di voglie. “Quando avevo vent’anni, ne avevi circa quaranta, e mi sembrava quasi indecente che potessi fare l’amore. Ai miei occhi il tuo tempo era passato, per te era cominciata la vecchiaia”. La madre si risposa, morto il marito, il papà di Georges. Lui si arrende, travolto. “Il cognome del tuo nuovo marito era André. Così, sulle lettere, e anche su certi documenti ufficiali che ho avuto l’occasione di vedere, ti firmavi: Madame André Simenon. Questo mi ha ferito. Ai miei occhi, era quasi un abuso. Un altro uomo aveva preso il posto di mio padre in casa, nel tuo letto, ma tu tenevi a conservare il nome del primo marito. Forse perché ero già celebre? Quel nome ti sembrava una sorta di talismano?”. Aggiungere il nome, o abolirlo, è uno sfregio che percuote per generazioni. Non basta l’amore del figlio per placare la madre, non è sufficiente l’amore del padre perché la figlia non si uccida. C’è sempre una sfasatura d’amore in Simenon, per questo, al di là dei Maigret – ora riproposti da Adelphi in vari volumi, a prezzo pop e copertina rouge – e delle troppe frattaglie con cui rendono indigesto l’anniversario d’oro, bisogna partire da qui, ora, a trent’anni dalla morte di Georges, da questa lettera perturbante per capirlo. Nel ventre, come in un chiostro – e risalire ai suoi occhi, di Sfinge. (d.b.)
**
Anche gli inglesi onorano Georges Simenon. Sullo “Spectator” Ian Thomson dedica allo scrittore un articolo brillante, in concomitanza con diverse traduzioni inglesi di Maigret, “If only Georges Simenon had been a bit more like Maigret”, di cui traduciamo larghe parti.
Georges Simenon, creatore del cupo detective Jules Maigret, indimenticabile con la pipa in bocca, inseguiva, incessantemente, sesso, fama, soldi. Alla sua morte, il 4 settembre 1989, aveva scritto quasi 200 romanzi, più di 150 racconti, varie memorie, diversi articoli. La sua produttività demoniaca, le vendite, la fortuna che gli arrise furono accompagnate da un presunto atletismo sessuale. Simenon diceva di aver dormito con 10mila donne (“La mia ricerca senza fine – diceva – non riguarda una donna, ma la donna”). Non voleva fare l’amore, era arso dal brutale desiderio di copulare: ciò lo portava a pretendere sesso almeno una volta al giorno da mogli, segretarie, padrone di casa. Dove trovasse il tempo per scrivere i libri di Maigret è affare per psicoanalisti (“Sono uno psicopatico”, diceva di sé l’autore).
A 30 anni dalla morte, nonostante abbia liquidato i suoi 75 romanzi su Maigret come “roba semi commerciale”, Simenon è autentica letteratura e come tale continua a essere letto e apprezzato. “Tra 100 anni sarai uno dei grandi classici francesi”, aveva profetizzato Ian Fleming, nel 1963. Simenon scriveva una avventura di Maigret alla settimana. Quando Alfred Hitchcock gli telefonò, un giorno, si sentì rispondere, “Mi scusi, ho appena cominciato a scrivere un romanzo”. “Va bene, attenderò”, ribattè il regista. Simenon era una fabbrica, disprezzava l’istituzione letteraria di Parigi, la letteratura “con la L maiuscola”, come diceva lui.
Il mondo di Simenon è quello degli hotel di seconda classe, dei vagoni di terza, dei vagabondi, dei barbieri, dei senza nulla, dei creditori sfortunati. Il suo interesse non è per gli intellettuali o per i maestri del crimine, ma per la gente comune, “les petits gents”. Persone comuni spinte a comuni atti di violenza. Il suo motto è “comprendere senza giudicare”: lo stesso di Maigret. A Maigret non interessa la deduzione scientifica, sullo stile di Sherlock Holmes: si basa sull’istinto. Se costretto, opta per la violenza. Spesso sembra in trance mentre indaga – segno che la svolta è vicina. Nella sua fascinosa biografia su Simenon, The Man Who Wasn’t Maigret, Patrick Marnham racconta che Maigret è basato sull’adorato padre dell’autore, Désiré Simenon, un venditore di assicurazioni morto a 44 anni.
Georges Simenon morì a 86 anni, nel suo castello da 36 camere appena fuori Losanna, una residenza-mausoleo che avrebbe messo a disagio Maigret. Simenon viene spesso letto come un autore che non offre alcuna speranza. Alla fine della sua vita aveva i soldi e le donne che desiderava – eppure, era vinto da facili rancori, dalla nostalgia dei giorni passati. Il castello divenne la sua tomba. Non gli rimase altro che il Commissario Maigret e la sua pipa.